Anni d'infanzia Jona Oberski
(...) La sera la mamma mi
domandò che cosa avevo fatto durante il giorno. Le raccontai che ero stato
insieme ai ragazzi più grandi. Mi domandò se mi prendevano così senz'altro con
loro e io le spiegai che ora sì, mi prendevano con loro, perché avevo superato
la prova. Ero stato all'osservatorio. Lei mi domandò che cos'era, un
osservatorio. Risposi che lo sapeva benissimo, che lì c'erano i cadaveri e che
sapeva anche benissimo che mio padre era stato gettato sopra gli altri cadaveri
e che non ave va neppure un lenzuolo e io avevo detto ai bambini che ne aveva
sì uno, mentre avevo visto benissimo che non ne aveva. Mi misi a strillare che
lei era matta a lasciare che lo buttassero così sugli altri cadaveri senza
lenzuolo e che non mi aveva neppure raccontato che era stato portato via dalla
baracca dell'infermeria e che io volevo andare almeno a salutarlo un 'ultima
volta e che lei era stata cattiva e che era colpa sua se era lì così nudo sopra
i cadaveri. La mamma diceva soltanto: «no», «non è vero»,
ma io non l'ascoltavo e non la smettevo e le dicevo che non aveva bisogno di
mentire con me, perché tanto avevo visto tutto con i miei occhi. Alla fine
scoppiai in un pianto dirotto, terribile. La mamma disse che non si chiamava
osservatorio, ma obitorio. Ma a me non
me ne importava niente. Lei disse
che i corpi dei morti venivano portati lì perché all'infermeria avevano bisogno
dei letti per gli altri ammalati. E ogni giorno venivano degli uomini che portavano
via i corpi e li trasportavano in un posto appartato nel bosco, dove venivano
seppelliti. Ma quel giorno per combinazione non erano venuti. E disse anche che
il papà era avvolto in un lenzuolo, ma che non potevo averlo visto, perché i fagotti
erano tutti uguali e dopo di lui ne erano morti tanti altri che erano
tutti nel mucchio. E lui era rimasto nel mucchio, sotto gli altri. La mamma mi strinse a sé, mi carezzò e mi baciò.
Poi cominciò anche lei a piangere e disse che anche per lei non era bello
affatto. Più tardi mi domandò chi mi aveva detto che dovevo andare a guardare
nell'obitorio e io le raccontai che era stato uno dei ragazzi più grandi a
venire poi a tirarmi fuori e mi aveva anche detto che era pericoloso. La mamma
mi domandò se avevo toccato qualcosa e io le raccontai di come avevo cercato
papà. Allora lei mi portò con sé, versò un disinfettante in una bacinella
d'acqua e mi lavò bene bene da capo a piedi. Puzzava. Mi disse che non dovevo
fare mai più una cosa simile. Mi domandò chi mi aveva mandato
all'obitorio. Le dissi che adesso non ero più un bambino
piccolo e avevo promesso di non fare
più la spia
e perciò non le
avrei raccontato niente. Poi la mamma mi domandò chi era il ragazzo che mi aveva tirato fuori
di lì. Io sapevo soltanto che si chiamava Jaap. Lei mi
prese con sé. Da Jaap venne a
sapere chi erano stati
gli altri. La mamma raccontò ad
altre mamme quello che era accaduto. Loro domandarono se
mi aveva disinfettato bene. Andarono
subito tutte a cercare i loro figli e li disinfettarono.
Erano molto arrabbiate che la porta dell'obitorio fosse
così facile da aprire. Dissero che era una vergogna e che bisognava che ci
venisse subito messa una serratura. II giorno dopo tutti i bambini puzzavano di
disinfettante. Uno di loro propose di andare ancora all'osservatorio. Io dissi
che non si chiamava osservatorio, ma obitorio, e che ora era chiuso e comunque
nel frattempo i corpi erano stati portati via. Corremmo. laggiù. Alla porta non c'era più la
maniglia. (...) |
Anni d'infanzia Jona Oberski
(...) La sera la mamma mi
domandò che cosa avevo fatto durante il giorno. Le raccontai che ero stato
insieme ai ragazzi più grandi. Mi domandò se mi prendevano così senz'altro con
loro e io le spiegai che ora sì, mi prendevano con loro, perché avevo superato
la prova. Ero stato all'osservatorio. Lei mi domandò che cos'era, un
osservatorio. Risposi che lo sapeva benissimo, che lì c'erano i cadaveri e che
sapeva anche benissimo che mio padre era stato gettato sopra gli altri cadaveri
e che non ave va neppure un lenzuolo e io avevo detto ai bambini che ne aveva
sì uno, mentre avevo visto benissimo che non ne aveva. Mi misi a strillare che
lei era matta a lasciare che lo buttassero così sugli altri cadaveri senza
lenzuolo e che non mi aveva neppure raccontato che era stato portato via dalla
baracca dell'infermeria e che io volevo andare almeno a salutarlo un 'ultima
volta e che lei era stata cattiva e che era colpa sua se era lì così nudo sopra
i cadaveri. La mamma diceva soltanto: «no», «non è vero»,
ma io non l'ascoltavo e non la smettevo e le dicevo che non aveva bisogno di
mentire con me, perché tanto avevo visto tutto con i miei occhi. Alla fine
scoppiai in un pianto dirotto, terribile. La mamma disse che non si chiamava
osservatorio, ma obitorio. Ma a me non
me ne importava niente. Lei disse
che i corpi dei morti venivano portati lì perché all'infermeria avevano bisogno
dei letti per gli altri ammalati. E ogni giorno venivano degli uomini che portavano
via i corpi e li trasportavano in un posto appartato nel bosco, dove venivano
seppelliti. Ma quel giorno per combinazione non erano venuti. E disse anche che
il papà era avvolto in un lenzuolo, ma che non potevo averlo visto, perché i fagotti
erano tutti uguali e dopo di lui ne erano morti tanti altri che erano
tutti nel mucchio. E lui era rimasto nel mucchio, sotto gli altri. La mamma mi strinse a sé, mi carezzò e mi baciò.
Poi cominciò anche lei a piangere e disse che anche per lei non era bello
affatto. Più tardi mi domandò chi mi aveva detto che dovevo andare a guardare
nell'obitorio e io le raccontai che era stato uno dei ragazzi più grandi a
venire poi a tirarmi fuori e mi aveva anche detto che era pericoloso. La mamma
mi domandò se avevo toccato qualcosa e io le raccontai di come avevo cercato
papà. Allora lei mi portò con sé, versò un disinfettante in una bacinella
d'acqua e mi lavò bene bene da capo a piedi. Puzzava. Mi disse che non dovevo
fare mai più una cosa simile. Mi domandò chi mi aveva mandato
all'obitorio. Le dissi che adesso non ero più un bambino
piccolo e avevo promesso di non fare
più la spia
e perciò non le
avrei raccontato niente. Poi la mamma mi domandò chi era il ragazzo che mi aveva tirato fuori
di lì. Io sapevo soltanto che si chiamava Jaap. Lei mi
prese con sé. Da Jaap venne a
sapere chi erano stati
gli altri. La mamma raccontò ad
altre mamme quello che era accaduto. Loro domandarono se
mi aveva disinfettato bene. Andarono
subito tutte a cercare i loro figli e li disinfettarono.
Erano molto arrabbiate che la porta dell'obitorio fosse
così facile da aprire. Dissero che era una vergogna e che bisognava che ci
venisse subito messa una serratura. II giorno dopo tutti i bambini puzzavano di
disinfettante. Uno di loro propose di andare ancora all'osservatorio. Io dissi
che non si chiamava osservatorio, ma obitorio, e che ora era chiuso e comunque
nel frattempo i corpi erano stati portati via. Corremmo. laggiù. Alla porta non c'era più la
maniglia. (...) |
Anni d'infanzia Jona Oberski
(...) La sera la mamma mi
domandò che cosa avevo fatto durante il giorno. Le raccontai che ero stato
insieme ai ragazzi più grandi. Mi domandò se mi prendevano così senz'altro con
loro e io le spiegai che ora sì, mi prendevano con loro, perché avevo superato
la prova. Ero stato all'osservatorio. Lei mi domandò che cos'era, un
osservatorio. Risposi che lo sapeva benissimo, che lì c'erano i cadaveri e che
sapeva anche benissimo che mio padre era stato gettato sopra gli altri cadaveri
e che non ave va neppure un lenzuolo e io avevo detto ai bambini che ne aveva
sì uno, mentre avevo visto benissimo che non ne aveva. Mi misi a strillare che
lei era matta a lasciare che lo buttassero così sugli altri cadaveri senza
lenzuolo e che non mi aveva neppure raccontato che era stato portato via dalla
baracca dell'infermeria e che io volevo andare almeno a salutarlo un 'ultima
volta e che lei era stata cattiva e che era colpa sua se era lì così nudo sopra
i cadaveri. La mamma diceva soltanto: «no», «non è vero»,
ma io non l'ascoltavo e non la smettevo e le dicevo che non aveva bisogno di
mentire con me, perché tanto avevo visto tutto con i miei occhi. Alla fine
scoppiai in un pianto dirotto, terribile. La mamma disse che non si chiamava
osservatorio, ma obitorio. Ma a me non
me ne importava niente. Lei disse
che i corpi dei morti venivano portati lì perché all'infermeria avevano bisogno
dei letti per gli altri ammalati. E ogni giorno venivano degli uomini che portavano
via i corpi e li trasportavano in un posto appartato nel bosco, dove venivano
seppelliti. Ma quel giorno per combinazione non erano venuti. E disse anche che
il papà era avvolto in un lenzuolo, ma che non potevo averlo visto, perché i fagotti
erano tutti uguali e dopo di lui ne erano morti tanti altri che erano
tutti nel mucchio. E lui era rimasto nel mucchio, sotto gli altri. La mamma mi strinse a sé, mi carezzò e mi baciò.
Poi cominciò anche lei a piangere e disse che anche per lei non era bello
affatto. Più tardi mi domandò chi mi aveva detto che dovevo andare a guardare
nell'obitorio e io le raccontai che era stato uno dei ragazzi più grandi a
venire poi a tirarmi fuori e mi aveva anche detto che era pericoloso. La mamma
mi domandò se avevo toccato qualcosa e io le raccontai di come avevo cercato
papà. Allora lei mi portò con sé, versò un disinfettante in una bacinella
d'acqua e mi lavò bene bene da capo a piedi. Puzzava. Mi disse che non dovevo
fare mai più una cosa simile. Mi domandò chi mi aveva mandato
all'obitorio. Le dissi che adesso non ero più un bambino
piccolo e avevo promesso di non fare
più la spia
e perciò non le
avrei raccontato niente. Poi la mamma mi domandò chi era il ragazzo che mi aveva tirato fuori
di lì. Io sapevo soltanto che si chiamava Jaap. Lei mi
prese con sé. Da Jaap venne a
sapere chi erano stati
gli altri. La mamma raccontò ad
altre mamme quello che era accaduto. Loro domandarono se
mi aveva disinfettato bene. Andarono
subito tutte a cercare i loro figli e li disinfettarono.
Erano molto arrabbiate che la porta dell'obitorio fosse
così facile da aprire. Dissero che era una vergogna e che bisognava che ci
venisse subito messa una serratura. II giorno dopo tutti i bambini puzzavano di
disinfettante. Uno di loro propose di andare ancora all'osservatorio. Io dissi
che non si chiamava osservatorio, ma obitorio, e che ora era chiuso e comunque
nel frattempo i corpi erano stati portati via. Corremmo. laggiù. Alla porta non c'era più la
maniglia. (...) |
Anni d'infanzia Jona Oberski
(...) La sera la mamma mi
domandò che cosa avevo fatto durante il giorno. Le raccontai che ero stato
insieme ai ragazzi più grandi. Mi domandò se mi prendevano così senz'altro con
loro e io le spiegai che ora sì, mi prendevano con loro, perché avevo superato
la prova. Ero stato all'osservatorio. Lei mi domandò che cos'era, un
osservatorio. Risposi che lo sapeva benissimo, che lì c'erano i cadaveri e che
sapeva anche benissimo che mio padre era stato gettato sopra gli altri cadaveri
e che non ave va neppure un lenzuolo e io avevo detto ai bambini che ne aveva
sì uno, mentre avevo visto benissimo che non ne aveva. Mi misi a strillare che
lei era matta a lasciare che lo buttassero così sugli altri cadaveri senza
lenzuolo e che non mi aveva neppure raccontato che era stato portato via dalla
baracca dell'infermeria e che io volevo andare almeno a salutarlo un 'ultima
volta e che lei era stata cattiva e che era colpa sua se era lì così nudo sopra
i cadaveri. La mamma diceva soltanto: «no», «non è vero»,
ma io non l'ascoltavo e non la smettevo e le dicevo che non aveva bisogno di
mentire con me, perché tanto avevo visto tutto con i miei occhi. Alla fine
scoppiai in un pianto dirotto, terribile. La mamma disse che non si chiamava
osservatorio, ma obitorio. Ma a me non
me ne importava niente. Lei disse
che i corpi dei morti venivano portati lì perché all'infermeria avevano bisogno
dei letti per gli altri ammalati. E ogni giorno venivano degli uomini che portavano
via i corpi e li trasportavano in un posto appartato nel bosco, dove venivano
seppelliti. Ma quel giorno per combinazione non erano venuti. E disse anche che
il papà era avvolto in un lenzuolo, ma che non potevo averlo visto, perché i fagotti
erano tutti uguali e dopo di lui ne erano morti tanti altri che erano
tutti nel mucchio. E lui era rimasto nel mucchio, sotto gli altri. La mamma mi strinse a sé, mi carezzò e mi baciò.
Poi cominciò anche lei a piangere e disse che anche per lei non era bello
affatto. Più tardi mi domandò chi mi aveva detto che dovevo andare a guardare
nell'obitorio e io le raccontai che era stato uno dei ragazzi più grandi a
venire poi a tirarmi fuori e mi aveva anche detto che era pericoloso. La mamma
mi domandò se avevo toccato qualcosa e io le raccontai di come avevo cercato
papà. Allora lei mi portò con sé, versò un disinfettante in una bacinella
d'acqua e mi lavò bene bene da capo a piedi. Puzzava. Mi disse che non dovevo
fare mai più una cosa simile. Mi domandò chi mi aveva mandato
all'obitorio. Le dissi che adesso non ero più un bambino
piccolo e avevo promesso di non fare
più la spia
e perciò non le
avrei raccontato niente. Poi la mamma mi domandò chi era il ragazzo che mi aveva tirato fuori
di lì. Io sapevo soltanto che si chiamava Jaap. Lei mi
prese con sé. Da Jaap venne a
sapere chi erano stati
gli altri. La mamma raccontò ad
altre mamme quello che era accaduto. Loro domandarono se
mi aveva disinfettato bene. Andarono
subito tutte a cercare i loro figli e li disinfettarono.
Erano molto arrabbiate che la porta dell'obitorio fosse
così facile da aprire. Dissero che era una vergogna e che bisognava che ci
venisse subito messa una serratura. II giorno dopo tutti i bambini puzzavano di
disinfettante. Uno di loro propose di andare ancora all'osservatorio. Io dissi
che non si chiamava osservatorio, ma obitorio, e che ora era chiuso e comunque
nel frattempo i corpi erano stati portati via. Corremmo. laggiù. Alla porta non c'era più la
maniglia. (...) |
Anni d'infanzia Jona Oberski
(...) La sera la mamma mi
domandò che cosa avevo fatto durante il giorno. Le raccontai che ero stato
insieme ai ragazzi più grandi. Mi domandò se mi prendevano così senz'altro con
loro e io le spiegai che ora sì, mi prendevano con loro, perché avevo superato
la prova. Ero stato all'osservatorio. Lei mi domandò che cos'era, un
osservatorio. Risposi che lo sapeva benissimo, che lì c'erano i cadaveri e che
sapeva anche benissimo che mio padre era stato gettato sopra gli altri cadaveri
e che non ave va neppure un lenzuolo e io avevo detto ai bambini che ne aveva
sì uno, mentre avevo visto benissimo che non ne aveva. Mi misi a strillare che
lei era matta a lasciare che lo buttassero così sugli altri cadaveri senza
lenzuolo e che non mi aveva neppure raccontato che era stato portato via dalla
baracca dell'infermeria e che io volevo andare almeno a salutarlo un 'ultima
volta e che lei era stata cattiva e che era colpa sua se era lì così nudo sopra
i cadaveri. La mamma diceva soltanto: «no», «non è vero»,
ma io non l'ascoltavo e non la smettevo e le dicevo che non aveva bisogno di
mentire con me, perché tanto avevo visto tutto con i miei occhi. Alla fine
scoppiai in un pianto dirotto, terribile. La mamma disse che non si chiamava
osservatorio, ma obitorio. Ma a me non
me ne importava niente. Lei disse
che i corpi dei morti venivano portati lì perché all'infermeria avevano bisogno
dei letti per gli altri ammalati. E ogni giorno venivano degli uomini che portavano
via i corpi e li trasportavano in un posto appartato nel bosco, dove venivano
seppelliti. Ma quel giorno per combinazione non erano venuti. E disse anche che
il papà era avvolto in un lenzuolo, ma che non potevo averlo visto, perché i fagotti
erano tutti uguali e dopo di lui ne erano morti tanti altri che erano
tutti nel mucchio. E lui era rimasto nel mucchio, sotto gli altri. La mamma mi strinse a sé, mi carezzò e mi baciò.
Poi cominciò anche lei a piangere e disse che anche per lei non era bello
affatto. Più tardi mi domandò chi mi aveva detto che dovevo andare a guardare
nell'obitorio e io le raccontai che era stato uno dei ragazzi più grandi a
venire poi a tirarmi fuori e mi aveva anche detto che era pericoloso. La mamma
mi domandò se avevo toccato qualcosa e io le raccontai di come avevo cercato
papà. Allora lei mi portò con sé, versò un disinfettante in una bacinella
d'acqua e mi lavò bene bene da capo a piedi. Puzzava. Mi disse che non dovevo
fare mai più una cosa simile. Mi domandò chi mi aveva mandato
all'obitorio. Le dissi che adesso non ero più un bambino
piccolo e avevo promesso di non fare
più la spia
e perciò non le
avrei raccontato niente. Poi la mamma mi domandò chi era il ragazzo che mi aveva tirato fuori
di lì. Io sapevo soltanto che si chiamava Jaap. Lei mi
prese con sé. Da Jaap venne a
sapere chi erano stati
gli altri. La mamma raccontò ad
altre mamme quello che era accaduto. Loro domandarono se
mi aveva disinfettato bene. Andarono
subito tutte a cercare i loro figli e li disinfettarono.
Erano molto arrabbiate che la porta dell'obitorio fosse
così facile da aprire. Dissero che era una vergogna e che bisognava che ci
venisse subito messa una serratura. II giorno dopo tutti i bambini puzzavano di
disinfettante. Uno di loro propose di andare ancora all'osservatorio. Io dissi
che non si chiamava osservatorio, ma obitorio, e che ora era chiuso e comunque
nel frattempo i corpi erano stati portati via. Corremmo. laggiù. Alla porta non c'era più la
maniglia. (...) |
Marek Edelmann – Il ghetto
di Varsavia lotta
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