Alberto Maria Melis

 
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About

For many years, in addition to teaching and before devoting myself entirely to photography, I wrote. Over five hundred articles in newspapers and school and literary magazines, including ècole and Linea d'Ombra, and about forty books, almost all dedicated to children, some of which have been translated in other European and non-European countries (you can find them here). Then, when I felt the time had come, I stopped writing. Mainly to keep a promise I had made to myself at the beginning of my literary career. That is, that I would not grow old by continuing to chase those ambitions that in writers are usually out of proportion, though not in my case. Of course there were also other reasons that drove me to give up writing and all that being a writer entails today. A rebellious and stubborn bearishness, that tendency that drives some people to shy away from crowds and crowds of any kind to take refuge, sheltered from everything, in their own cave. And also, needless to deny it, because those who know me know it well, a vague sense of nausea for everything that makes the book today - regardless of the purity of its magic and its literary value - a marketable object. On a par with a corns ointment, a suppository or an aubergine.

With the difference, however, that no farmer is called upon to sell his aubergines door to door, declaiming their genesis, development and mature completion, as well as communicating his beliefs about the world and, possibly, for the more curious, some of his private affairs. Which to a writer, in almost the absolute majority of cases, does happen. Especially to a children's writer, who in Italy over the last thirty years has turned into a hybrid creature, one third intellectual, one third performer and one third door-to-door salesman. At the mercy of touts and sellers of books of great cunning and often of mediocre culture, whose only objective is to drag it from presentation to presentation, from school to school, from crowd to crowd and from festival to festival, on pain of falling to the precipice of sales.  All this long preamble to get to a few things about photography. Which does indeed mean "writing of light" (coming from the ancient Greek φῶς, φçωτόςç, phōs, photos ("light") and γραφία, graphia ("writing")), but which with ink writing shares almost only its most intimate essence. That which constitutes for the writer, and for the photographer, the connective matter that nourishes his soul, in terms of will and passion, and that urges him to tell, to affabulate, to return his point of view on the infinite stories of the world.

Having said this, the differences between ink writing and light writing are, however, abysmal. Not only and not so much on a formal, expressive and narrative level (as it is quite banal to point out), but on the level of social fruition. Photography, of all art forms, is by far the most democratic and participatory. Not only because, literally, it is now available to everyone by virtue of modern digital technologies - from real cameras to smartphones in the hands of anyone from 3 to 90 years old who wants to click -, but also because it is the most widespread and immediate form of communication after the oral word, in an incessant exchange and sharing of fragments of reality, its appearances and interpretations.

And even if photography, as it is in the order of things, is subject to one, or rather to multiple scales of value dictated by the artistic sensitivity of authors and users, nevertheless it allows those who practice it with continuity, seriousness and passion to be able to communicate. Wanting, thanks to computer networks, social or otherwise, even without renouncing - contrary to what happens in ink writing - the holy laziness and intimacy of one's own cave, which then, except on the rare occasion of 'physical' exhibitions, is the exact dimension I personally have given to my photography.

On which, moreover, I have nothing to add, except, in some cases, the captions.

 

 

Per molti anni, oltre che insegnare e prima di dedicarmi interamente alla fotografia, ho scritto. Oltre cinquecento articoli su quotidiani e riviste scolastiche e letterarie, tra le quali ècole e Linea d’Ombra, e una quarantina di libri, quasi tutti dedicati ai ragazzi, alcuni dei quali tradotti anche in altri Paesi europei ed extraeuropei (li trovate qui). Poi, quando ho reputato fosse venuto il momento, ho smesso di scrivere. Soprattutto per mantenere una promessa che avevo fatto a me stesso all’inizio della carriera letteraria. Ovvero che non sarei del tutto invecchiato continuando a rincorrere quelle ambizioni che negli scrittori sono di solito fuori misura, anche se non nel mio caso.

Certo ci sono stati anche altri motivi che mi hanno spinto a dare un taglio alla scrittura e a tutto ciò che comporta essere uno scrittore oggi. Una ribelle e ostinata orsitudine, ovvero quella tendenza che spinge alcune persone a rifuggire schiamazzi e folle di qualsiasi genere per rifugiarsi, in godibile pigrizia al riparo da tutto, nella propria caverna. E anche, inutile negarlo, perché chi mi conosce lo sa bene, un vago senso di nausea per tutto ciò che fa oggi del libro – a prescindere dalla purezza della sua magia e dal suo valore letterario - un oggetto di mercato. Al pari di una pomata per calli, di una supposta o di una melanzana. Con la differenza però che nessun contadino è chiamato a vendere le proprie melanzane porta a porta, declamando la loro genesi, il loro sviluppo e il loro maturo compimento, nonché comunicando le proprie convinzioni sull’universo mondo e, possibilmente, per i più curiosi, qualche sua faccenda privata. Cosa che a uno scrittore, nella quasi assoluta maggioranza dei casi, invece sì, succede. Soprattutto a uno scrittore per ragazzi, tramutatosi in Italia negli ultimi trent’anni in una creatura ibrida per un terzo intellettuale, per un terzo performer e per un terzo piazzista porta a porta. In balia di procacciatori e mercanti di libri di grande furbizia e spesso di mediocre cultura, il cui unico obiettivo è quello di trascinarlo di presentazione in presentazione, di scuola in scuola, di folla in folla e di festival in festival, pena la caduta a precipizio delle vendite.

Tutto questo lungo preambolo per arrivare a dire alcune cose sulla mia passione per la fotografia. Che significa sì “scrittura di luce” (provenendo dal greco antico φῶς, φçωτόςç, phōs, photos ("luce") e γραφία, graphia ("scrittura"), ma che con la scrittura di inchiostro condivide quasi solo la sua più intima essenza. Quella che costituisce per lo scrittore, e per il fotografo, la materia connettiva che nutre la sua anima, in termini di volontà e passione, e che lo sollecita a dire, affabulare, restituire il suo punto di vista sulle infinite trame del mondo.

Detto questo, le differenze tra scrittura d’inchiostro e scrittura di luce sono però abissali. Non solo e non tanto sul piano formale, espressivo e narrativo (come è abbastanza banale sottolineare), quanto sul piano della fruizione sociale. La fotografia, tra tutte le forme artistiche, è in assoluto quella più democratica e partecipata. Non solo perché, letteralmente, è oggi a disposizione di tutti in virtù delle moderne tecnologie digitali – dalle macchine vere e proprie agli smartphone nelle mani di chiunque dai 3 ai 90 anni voglia fare clic -, ma anche perché è la più diffusa e immediata forma di comunicazione dopo la parola orale, in un incessante scambio e condivisione di frammenti della realtà, delle sue parvenze e interpretazioni.

E se anche la fotografia, com’è nell’ordine delle cose, soggiace a una, o per meglio dire a molteplici scale di valore dettate dalla sensibilità artistica di autori e fruitori, tuttavia essa permette a chi la pratica con continuità, serietà e passione di poter comunicare.

Volendo, grazie alle reti informatiche, anche senza rinunciare - contrariamente a ciò che succede oggi nella scrittura di inchiostro - alla santa pigrizia e all’intimità della propria caverna, che poi, salvo che in qualche rara occasione di mostre “fisiche”, è l’esatta dimensione che personalmente ho dato al mio fare fotografie.

Sulle quali, peraltro, non ho niente da aggiungere, salvo, in qualche caso, le didascalie.

 





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