About
For many years, in addition to teaching and before devoting
myself entirely to photography, I wrote. Over five hundred articles
in newspapers and school and literary magazines, including ècole and
Linea d'Ombra, and about forty books, almost all dedicated to
children, some of which have been translated in other European and
non-European countries (you can find them here).
Then, when I felt the time had come, I stopped writing. Mainly to
keep a promise I had made to myself at the beginning of my literary
career. That is, that I would not grow old by continuing to chase
those ambitions that in writers are usually out of proportion,
though not in my case. Of course there were also other reasons that
drove me to give up writing and all that being a writer entails
today. A rebellious and stubborn bearishness, that tendency that
drives some people to shy away from crowds and crowds of any kind to
take refuge, sheltered from everything, in their own cave. And also,
needless to deny it, because those who know me know it well, a vague
sense of nausea for everything that makes the book today -
regardless of the purity of its magic and its literary value - a
marketable object. On a par with a corns ointment, a suppository or
an aubergine.
With the difference, however, that no farmer is called upon to
sell his aubergines door to door, declaiming their genesis,
development and mature completion, as well as communicating his
beliefs about the world and, possibly, for the more curious, some of
his private affairs. Which to a writer, in almost the absolute
majority of cases, does happen. Especially to a children's writer,
who in Italy over the last thirty years has turned into a hybrid
creature, one third intellectual, one third performer and one third
door-to-door salesman. At the mercy of touts and sellers of books of
great cunning and often of mediocre culture, whose only objective is
to drag it from presentation to presentation, from school to school,
from crowd to crowd and from festival to festival, on pain of
falling to the precipice of sales. All
this long preamble to get to a few things about photography. Which
does indeed mean "writing of light" (coming from the ancient Greek
φῶς, φçωτόςç, phōs, photos ("light") and γραφία, graphia
("writing")), but which with ink writing shares almost only its most
intimate essence. That which constitutes for the writer, and for the
photographer, the connective matter that nourishes his soul, in
terms of will and passion, and that urges him to tell, to
affabulate, to return his point of view on the infinite stories of
the world.
Having said this, the differences between ink writing and
light writing are, however, abysmal. Not only and not so much on a
formal, expressive and narrative level (as it is quite banal to
point out), but on the level of social fruition. Photography, of all
art forms, is by far the most democratic and participatory. Not only
because, literally, it is now available to everyone by virtue of
modern digital technologies - from real cameras to smartphones in
the hands of anyone from 3 to 90 years old who wants to click -, but
also because it is the most widespread and immediate form of
communication after the oral word, in an incessant exchange and
sharing of fragments of reality, its appearances and
interpretations.
And even if photography, as it is in the order of things, is
subject to one, or rather to multiple scales of value dictated by
the artistic sensitivity of authors and users, nevertheless it
allows those who practice it with continuity, seriousness and
passion to be able to communicate. Wanting, thanks to computer
networks, social or otherwise, even without renouncing - contrary to
what happens in ink writing - the holy laziness and intimacy of
one's own cave, which then, except on the rare occasion of
'physical' exhibitions, is the exact dimension I personally have
given to my photography.
On which, moreover, I have nothing to add, except, in some
cases, the captions.
Per molti anni, oltre che insegnare e prima di dedicarmi
interamente alla fotografia, ho scritto. Oltre cinquecento articoli
su quotidiani e riviste scolastiche e letterarie, tra le
quali ècole e Linea d’Ombra, e una quarantina di libri, quasi tutti
dedicati ai ragazzi, alcuni dei quali tradotti anche in altri Paesi
europei ed extraeuropei (li trovate qui).
Poi, quando ho reputato fosse venuto il momento, ho smesso di
scrivere. Soprattutto per mantenere una promessa che avevo fatto a
me stesso all’inizio della carriera letteraria. Ovvero che non sarei
del tutto invecchiato continuando a rincorrere quelle ambizioni che
negli scrittori sono di solito fuori misura, anche se non nel mio
caso.
Certo ci sono stati anche altri motivi che mi hanno spinto a
dare un taglio alla scrittura e a tutto ciò che comporta essere uno
scrittore oggi. Una ribelle e ostinata orsitudine, ovvero quella
tendenza che spinge alcune persone a rifuggire schiamazzi e folle di
qualsiasi genere per rifugiarsi, in godibile pigrizia al riparo da
tutto, nella propria caverna. E anche, inutile negarlo, perché chi
mi conosce lo sa bene, un vago senso di nausea per tutto ciò che fa
oggi del libro – a prescindere dalla purezza della sua magia e dal
suo valore letterario - un oggetto di mercato. Al pari di una pomata
per calli, di una supposta o di una melanzana. Con la differenza
però che nessun contadino è chiamato a vendere le proprie melanzane
porta a porta, declamando la loro genesi, il loro sviluppo e il loro
maturo compimento, nonché comunicando le proprie convinzioni
sull’universo mondo e, possibilmente, per i più curiosi, qualche sua
faccenda privata. Cosa che a uno scrittore, nella quasi assoluta
maggioranza dei casi, invece sì, succede. Soprattutto a uno
scrittore per ragazzi, tramutatosi in Italia negli ultimi trent’anni
in una creatura ibrida per un terzo intellettuale, per un terzo
performer e per un terzo piazzista porta a porta. In balia di
procacciatori e mercanti di libri di grande furbizia e spesso di
mediocre cultura, il cui unico obiettivo è quello di trascinarlo di
presentazione in presentazione, di scuola in scuola, di folla in
folla e di festival in festival, pena la caduta a precipizio delle
vendite.
Tutto questo lungo preambolo per arrivare a dire alcune cose
sulla mia passione per la fotografia. Che significa sì “scrittura di
luce” (provenendo dal greco antico φῶς, φçωτόςç, phōs,
photos ("luce") e γραφία, graphia ("scrittura"), ma che con la
scrittura di inchiostro condivide quasi solo la sua più intima
essenza. Quella che costituisce per lo scrittore, e per il
fotografo, la materia connettiva che nutre la sua anima, in termini
di volontà e passione, e che lo sollecita a dire, affabulare,
restituire il suo punto di vista sulle infinite trame del mondo.
Detto questo, le differenze tra scrittura d’inchiostro e
scrittura di luce sono però abissali. Non solo e non tanto sul piano
formale, espressivo e narrativo (come è abbastanza banale
sottolineare), quanto sul piano della fruizione sociale. La
fotografia, tra tutte le forme artistiche, è in assoluto quella più
democratica e partecipata. Non solo perché, letteralmente, è oggi a
disposizione di tutti in virtù delle moderne tecnologie digitali –
dalle macchine vere e proprie agli smartphone nelle mani di chiunque
dai 3 ai 90 anni voglia fare clic -, ma anche perché è la più
diffusa e immediata forma di comunicazione dopo la parola orale, in
un incessante scambio e condivisione di frammenti della realtà,
delle sue parvenze e interpretazioni.
E se anche la fotografia, com’è nell’ordine delle cose,
soggiace a una, o per meglio dire a molteplici scale di valore
dettate dalla sensibilità artistica di autori e fruitori, tuttavia
essa permette a chi la pratica con continuità, serietà e passione di
poter comunicare.
Volendo, grazie alle reti informatiche, anche senza rinunciare
- contrariamente a ciò che succede oggi nella scrittura di
inchiostro - alla santa pigrizia e all’intimità della propria
caverna, che poi, salvo che in qualche rara occasione di mostre
“fisiche”, è l’esatta dimensione che personalmente ho dato al mio
fare fotografie.
Sulle quali, peraltro, non ho niente da aggiungere, salvo, in
qualche caso, le didascalie.
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