I Promessi Sposi
Alessandro Manzoni
(...) La peste era
già entrata in Milano. Il Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi
ce la portò il primo, e altre circostanze della persona e del caso: e infatti,
nell'osservare i princìpi d'una vasta mortalità, in cui le vittime, non che
esser distinte per nome, appena si potranno indicare all'incirca, per il numero
delle migliaia, nasce una non so quale curiosità di conoscere que' primi e
pochi nomi che poterono essere notati e conservati: questa specie di
distinzione, la precedenza nell'esterminio, par che faccian trovare in essi, e
nelle particolarità, per altro più indifferenti, qualche cosa di fatale e di
memorabile. L'uno e l'altro storico dicono che fu un soldato italiano al
servizio di Spagna; nel resto non sono ben d'accordo, neppur sul nome. Fu,
secondo il Tadino, un Pietro Antonio Lovato, di quartiere nel territorio di
Lecco; secondo il Ripamonti, un Pier Paolo Locati, di quartiere a Chiavenna.
Differiscono anche nel giorno della sua entrata in Milano: il primo la mette al
22 d'ottobre, il secondo ad altrettanti del mese seguente: e non si può stare
né all'uno né all'altro. Tutt'e due l'epoche sono in contraddizione con altre
ben più verificate. Eppure il Ripamonti, scrivendo per ordine del Consiglio
generale de' decurioni, doveva avere al suo comando molti mezzi di prender
l'informazioni necessarie; e il Tadino, per ragione del suo impiego, poteva,
meglio d'ogn'altro, essere informato d'un fatto di questo genere. Del resto,
dal riscontro d'altre date che ci paiono, come abbiam detto, più esatte,
risulta che fu, prima della pubblicazione della grida sulle bullette; e, se ne
mettesse conto, si potrebbe anche provare o quasi provare, che dovette essere
ai primi di quel mese; ma certo, il lettore ce ne dispensa. Sia come si sia,
entrò questo fante sventurato e portator di sventura, con un gran fagotto di
vesti comprate o rubate a soldati alemanni; andò a fermarsi in una casa di suoi
parenti, nel borgo di porta orientale, vicino ai cappuccini; appena arrivato,
s'ammalò; fu portato allo spedale; dove un bubbone che gli si scoprì sotto
un'ascella, mise chi lo curava in sospetto di ciò ch'era infatti; il quarto
giorno morì. Il tribunale della sanità fece segregare e sequestrare in casa la
di lui famiglia; i suoi vestiti e il letto in cui era stato allo spedale, furon
bruciati. Due serventi che l'avevano avuto in cura, e un buon frate che l'aveva
assistito, caddero anch'essi ammalati in pochi giorni, tutt'e tre di peste. Il
dubbio che in quel luogo s'era avuto, fin da principio, della natura del male,
e le cautele usate in conseguenza, fecero sì che il contagio non vi si
propagasse di più. Ma il soldato ne aveva lasciato di fuori un seminìo che non
tardò a germogliare. Il primo a cui s'attaccò, fu il padrone della casa dove
quello aveva alloggiato, un Carlo Colonna sonator di liuto. Allora tutti i
pigionali di quella casa furono, d'ordine della Sanità, condotti al lazzeretto,
dove la più parte s'ammalarono; alcuni morirono, dopo poco tempo, di manifesto
contagio. Nella città, quello che già c'era stato disseminato da costoro, da'
loro panni, da' loro mobili trafugati da parenti, da pigionali, da persone di
servizio, alle ricerche e al fuoco prescritto dal tribunale, e di più quello
che c'entrava di nuovo, per l'imperfezion degli editti, per la trascuranza
nell'eseguirli, e per la destrezza nell'eluderli, andò covando e serpendo
lentamente, tutto il restante dell'anno, e ne' primi mesi del susseguente 1630.
Di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, a qualcheduno
s'attaccava, qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa de' casi allontanava il
sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e
micidiale fiducia che non ci fosse peste, né ci fosse stata neppure un momento.
Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo
caso, voce di Dio?), deridevan gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi
de' pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di
peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno
fosse comparso. Gli avvisi di questi accidenti, quando pur pervenivano alla
Sanità, ci pervenivano tardi per lo più e incerti. Il terrore della contumacia
e del lazzeretto aguzzava tutti gl'ingegni: non si denunziavan gli ammalati, si
corrompevano i becchini e i loro soprintendenti; da subalterni del tribunale
stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri, s'ebbero, con danari, falsi
attestati. Siccome però, a ogni scoperta che gli riuscisse fare, il tribunale
ordinava di bruciar robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie al
lazzeretto, così è facile argomentare quanta dovesse essere contro di esso
l'ira e la mormorazione del pubblico, "della Nobiltà, delli Mercanti et della
plebe", dice il Tadino; persuasi, com'eran tutti, che fossero vessazioni
senza motivo, e senza costrutto. L'odio principale cadeva sui due medici; il
suddetto Tadino, e Senatore Settala, figlio del protofisico: a tal segno, che
ormai non potevano attraversar le piazze senza essere assaliti da parolacce,
quando non eran sassi. E certo fu singolare, e merita che ne sia fatta memoria,
la condizione in cui, per qualche mese, si trovaron quegli uomini, di veder
venire avanti un orribile flagello, d'affaticarsi in ogni maniera a stornarlo,
d'incontrare ostacoli dove cercavano aiuti, e d'essere insieme bersaglio delle
grida, avere il nome di nemici della patria: pro patriae hostibus , dice il
Ripamonti. Di quell'odio ne toccava una parte anche agli altri medici che,
convinti come loro, della realtà del contagio, suggerivano precauzioni,
cercavano di comunicare a tutti la loro dolorosa certezza. I più discreti li
tacciavano di credulità e d'ostinazione: per tutti gli altri, era manifesta
impostura, cabala ordita per far bottega sul pubblico spavento. Il protofisico
Lodovico Settala, allora poco men che ottuagenario, stato professore di
medicina all'università di Pavia, poi di filosofia morale a Milano, autore di
molte opere riputatissime allora, chiaro per inviti a cattedre d'altre
università, Ingolstadt, Pisa, Bologna, Padova, e per il rifiuto di tutti questi
inviti, era certamente uno degli uomini più autorevoli del suo tempo. Alla
riputazione della scienza s'aggiungeva quella della vita, e all'ammirazione la
benevolenza, per la sua gran carità nel curare e nel beneficare i poveri. E,
una cosa che in noi turba e contrista il sentimento di stima ispirato da questi
meriti, ma che allora doveva renderlo più generale e più forte, il pover'uomo
partecipava de' pregiudizi più comuni e più funesti de' suoi contemporanei: era
più avanti di loro, ma senza allontanarsi dalla schiera, che è quello che
attira i guai, e fa molte volte perdere l'autorità acquistata in altre maniere.
Eppure quella grandissima che godeva, non solo non bastò a vincere, in questo
caso, l'opinion di quello che i poeti chiamavan volgo profano, e i capocomici,
rispettabile pubblico; ma non poté salvarlo dall'animosità e dagl'insulti di
quella parte di esso che corre più facilmente da' giudizi alle dimostrazioni e
ai fatti. Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati, principiò
a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano
per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, con
quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar da fare ai medici.
La folla e il furore andavan crescendo: i portantini, vedendo la mala parata,
ricoverarono il padrone in una casa d'amici, che per sorte era vicina. Questo
gli toccò per aver veduto chiaro, detto ciò che era, e voluto salvar dalla
peste molte migliaia di persone: quando, con un suo deplorabile consulto,
cooperò a far torturare, tanagliare e bruciare, come strega, una povera
infelice sventurata, perché il suo padrone pativa dolori strani di stomaco, e
un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei, allora ne
avrà avuta presso il pubblico nuova lode di sapiente e, ciò che è intollerabile
a pensare, nuovo titolo di benemerito. Ma sul finire del mese di marzo,
cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della
città, a farsi frequenti le malattie, le morti, con accidenti strani di
spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di
lividi e di bubboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine,
senza alcun indizio antecedente di malattia. I medici opposti alla opinion del
contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare
un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese
per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti:
miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno;
perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar
credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s'attaccava
per mezzo del contatto. I magistrati, come chi si risente da un profondo sonno,
principiarono a dare un po' più orecchio agli avvisi, alle proposte della
Sanità, a far eseguire i suoi editti, i sequestri ordinati, le quarantene
prescritte da quel tribunale. Chiedeva esso di continuo anche danari per
supplire alle spese giornaliere, crescenti, del lazzeretto, di tanti altri
servizi; e li chiedeva ai decurioni, intanto che fosse deciso (che non fu,
credo, mai, se non col fatto) se tali spese toccassero alla città, o all'erario
regio. Ai decurioni faceva pure istanza il gran cancelliere, per ordine anche
del governatore, ch'era andato di nuovo a metter l'assedio a quel povero
Casale; faceva istanza il senato, perché pensassero alla maniera di
vettovagliar la città, prima che dilatandovisi per isventura il contagio, le
venisse negato pratica dagli altri paesi; perché trovassero il mezzo di
mantenere una gran parte della popolazione, a cui eran mancati i lavori. I
decurioni cercavano di far danari per via d'imprestiti, d'imposte; e di quel
che ne raccoglievano, ne davano un po' alla Sanità, un po' a' poveri; un po' di
grano compravano: supplivano a una parte del bisogno. E le grandi angosce non erano
ancor venute. Nel lazzeretto, dove la popolazione, quantunque decimata ogni
giorno, andava ogni giorno crescendo, era un'altra ardua impresa quella
d'assicurare il servizio e la subordinazione, di conservar le separazioni
prescritte, di mantenervi in somma o, per dir meglio, di stabilirvi il governo
ordinato dal tribunale della sanità: ché, fin da' primi momenti, c'era stata
ogni cosa in confusione, per la sfrenatezza di molti rinchiusi, per la
trascuratezza e per la connivenza de' serventi. Il tribunale e i decurioni, non
sapendo dove battere il capo, pensaron di rivolgersi ai cappuccini, e
supplicarono il padre commissario della provincia, il quale faceva le veci del
provinciale, morto poco prima, acciò volesse dar loro de' soggetti abili a
governare quel regno desolato. Il commissario propose loro, per principale, un
padre Felice Casati, uomo d'età matura, il quale godeva una gran fama di
carità, d'attività, di mansuetudine insieme e di fortezza d'animo, a quel che
il seguito fece vedere, ben meritata; e per compagno e come ministro di lui, un
padre Michele Pozzobonelli, ancor giovine, ma grave e severo, di pensieri come
d'aspetto. Furono accettati con gran piacere; e il 30 di marzo, entrarono nel
lazzeretto. Il presidente della Sanità li condusse in giro, come per prenderne
il possesso; e, convocati i serventi e gl'impiegati d'ogni grado, dichiarò,
davanti a loro, presidente di quel luogo il padre Felice, con primaria e piena
autorità. Di mano in mano poi che la miserabile radunanza andò crescendo, v'accorsero
altri cappuccini; e furono in quel luogo soprintendenti, confessori,
amministratori, infermieri, cucinieri, guardarobi, lavandai, tutto ciò che
occorresse. Il padre Felice, sempre affaticato e sempre sollecito, girava di
giorno, girava di notte, per i portici, per le stanze, per quel vasto spazio
interno, talvolta portando un'asta, talvolta non armato che di cilizio; animava
e regolava ogni cosa; sedava i tumulti, faceva ragione alle querele,
minacciava, puniva, riprendeva, confortava, asciugava e spargeva lacrime.
Prese, sul principio, la peste; ne guarì, e si rimise, con nuova lena, alle
cure di prima. I suoi confratelli ci lasciarono la più parte la vita, e tutti
con allegrezza. Certo, una tale dittatura era uno strano ripiego; strano come
la calamità, come i tempi; e quando non ne sapessimo altro, basterebbe per
argomento, anzi per saggio d'una società molto rozza e mal regolata, il veder
che quelli a cui toccava un così importante governo, non sapesser più farne
altro che cederlo, né trovassero a chi cederlo, che uomini, per istituto, il
più alieni da ciò. Ma è insieme un saggio non ignobile della forza e
dell'abilità che la carità può dare in ogni tempo, e in qualunque ordin di
cose, il veder quest'uomini sostenere un tal carico così bravamente. E fu bello
lo stesso averlo accettato, senz'altra ragione che il non esserci chi lo
volesse, senz'altro fine che di servire, senz'altra speranza in questo mondo,
che d'una morte molto più invidiabile che invidiata; fu bello lo stesso esser
loro offerto, solo perché era difficile e pericoloso, e si supponeva che il
vigore e il sangue freddo, così necessario e raro in que' momenti, essi lo
dovevano avere. E perciò l'opera e il cuore di que' frati meritano che se ne
faccia memoria, con ammirazione, con tenerezza, con quella specie di
gratitudine che è dovuta, come in solido, per i gran servizi resi da uomini a
uomini, e più dovuta a quelli che non se la propongono per ricompensa.
"Che se questi Padri iui non si ritrouauano, - dice il Tadino, - al sicuro
tutta la Città annichilata si trouaua; puoiché fu cosa miracolosa l'hauer
questi Padri fatto in così puoco spatio di tempo tante cose per benefitio
publico, che non hauendo hauuto agiutto, o almeno puoco dalla Città, con la sua
industria et prudenza haueuano mantenuto nel Lazeretto tante migliaia de
poueri". Le persone ricoverate in quel luogo, durante i sette mesi che il
padre Felice n'ebbe il governo, furono circa cinquantamila, secondo il
Ripamonti; il quale dice con ragione, che d'un uomo tale avrebbe dovuto ugualmente
parlare, se in vece di descriver le miserie d'una città, avesse dovuto
raccontar le cose che posson farle onore. Anche nel pubblico, quella caparbietà
di negar la peste andava naturalmente cedendo e perdendosi, di mano in mano che
il morbo si diffondeva, e si diffondeva per via del contatto e della pratica; e
tanto più quando, dopo esser qualche tempo rimasto solamente tra' poveri,
cominciò a toccar persone più conosciute. E tra queste, come allora fu il più
notato, così merita anche adesso un'espressa menzione il protofisico Settala.
Avranno almen confessato che il povero vecchio aveva ragione? Chi lo sa?
Caddero infermi di peste, lui, la moglie, due figliuoli, sette persone di
servizio. Lui e uno de' figliuoli n'usciron salvi; il resto morì. "Questi
casi, - dice il Tadino, - occorsi nella Città in case Nobili, disposero la
Nobiltà, et la plebe a pensare, et gli increduli Medici, et la plebe ignorante
et temeraria cominciò stringere le labra, chiudere li denti, et inarcare le
ciglia". Ma l'uscite, i ripieghi, le vendette, per dir così, della
caparbietà convinta, sono alle volte tali da far desiderare che fosse rimasta
ferma e invitta, fino all'ultimo, contro la ragione e l'evidenza: e questa fu
bene una di quelle volte. Coloro i quali avevano impugnato così risolutamente,
e così a lungo, che ci fosse vicino a loro, tra loro, un germe di male, che
poteva, per mezzi naturali, propagarsi e fare una strage; non potendo ormai
negare il propagamento di esso, e non volendo attribuirlo a que' mezzi (che sarebbe
stato confessare a un tempo un grand'inganno e una gran colpa), erano tanto più
disposti a trovarci qualche altra causa, a menar buona qualunque ne venisse
messa in campo. Per disgrazia, ce n'era una in pronto nelle idee e nelle
tradizioni comuni allora, non qui soltanto, ma in ogni parte d'Europa: arti
venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per
mezzo di veleni contagiosi, di malìe. Già cose tali, o somiglianti, erano state
supposte e credute in molte altre pestilenze, e qui segnatamente, in quella di
mezzo secolo innanzi. S'aggiunga che, fin dall'anno antecedente, era venuto un
dispaccio, sottoscritto dal re Filippo IV, al governatore, per avvertirlo
ch'erano scappati da Madrid quattro francesi, ricercati come sospetti di
spargere unguenti velenosi, pestiferi: stesse all'erta, se mai coloro fossero
capitati a Milano. Il governatore aveva comunicato il dispaccio al senato e al
tribunale della sanità; né, per allora, pare che ci si badasse più che tanto.
Però, scoppiata e riconosciuta la peste, il tornar nelle menti quell'avviso
poté servir di conferma al sospetto indeterminato d'una frode scellerata; poté
anche essere la prima occasione di farlo nascere. Ma due fatti, l'uno di cieca
e indisciplinata paura, l'altro di non so quale cattività, furon quelli che
convertirono quel sospetto indeterminato d'un attentato possibile, in sospetto,
e per molti in certezza, d'un attentato positivo, e d'una trama reale. Alcuni,
ai quali era parso di vedere, la sera del 17 di maggio, persone in duomo andare
ungendo un assito che serviva a dividere gli spazi assegnati a' due sessi,
fecero, nella notte, portar fuori della chiesa l'assito e una quantità di
panche rinchiuse in quello; quantunque il presidente della Sanità, accorso a
far la visita, con quattro persone dell'ufizio, avendo visitato l'assito, le
panche, le pile dell'acqua benedetta, senza trovar nulla che potesse confermare
l'ignorante sospetto d'un attentato venefico, avesse, per compiacere
all'immaginazioni altrui, e più tosto per abbondare in cautela, che per bisogno
, avesse, dico, deciso che bastava dar una lavata all'assito. Quel volume di
roba accatastata produsse una grand'impressione di spavento nella moltitudine,
per cui un oggetto diventa così facilmente un argomento. Si disse e si credette
generalmente che fossero state unte in duomo tutte le panche, le pareti, e fin
le corde delle campane. Né si disse soltanto allora: tutte le memorie de'
contemporanei che parlano di quel fatto (alcune scritte molt'anni dopo), ne
parlano con ugual sicurezza: e la storia sincera di esso, bisognerebbe
indovinarla, se non si trovasse in una lettera del tribunale della sanità al
governatore, che si conserva nell'archivio detto di san Fedele; dalla quale
l'abbiamo cavata, e della quale sono le parole che abbiam messe in corsivo. La
mattina seguente, un nuovo e più strano, più significante spettacolo colpì gli
occhi e le menti de' cittadini. In ogni parte della città, si videro le porte
delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di non so che
sudiceria, giallognola, biancastra, sparsavi come con delle spugne. O sia stato
un gusto sciocco di far nascere uno spavento più rumoroso e più generale, o sia
stato un più reo disegno d'accrescer la pubblica confusione, o non saprei che
altro; la cosa è attestata di maniera, che ci parrebbe men ragionevole
l'attribuirla a un sogno di molti, che al fatto d'alcuni: fatto, del resto, che
non sarebbe stato, né il primo né l'ultimo di tal genere. Il Ripamonti, che
spesso, su questo particolare dell'unzioni, deride, e più spesso deplora la
credulità popolare, qui afferma d'aver veduto quell'impiastramento, e lo
descrive. Nella lettera sopraccitata, i signori della Sanità raccontan la cosa
ne' medesimi termini; parlan di visite, d'esperimenti fatti con quella materia
sopra de' cani, e senza cattivo effetto; aggiungono, esser loro opinione, che
cotale temerità sia più tosto proceduta da insolenza, che da fine scelerato :
pensiero che indica in loro, fino a quel tempo, pacatezza d'animo bastante per
non vedere ciò che non ci fosse stato. L'altre memorie contemporanee,
raccontando la cosa, accennano anche, essere stata, sulle prime, opinion di
molti, che fosse fatta per burla, per bizzarria; nessuna parla di nessuno che
la negasse; e n'avrebbero parlato certamente, se ce ne fosse stati; se non
altro, per chiamarli stravaganti. Ho creduto che non fosse fuor di proposito il
riferire e il mettere insieme questi particolari, in parte poco noti, in parte
affatto ignorati, d'un celebre delirio; perché, negli errori e massime negli
errori di molti, ciò che è più interessante e più utile a osservarsi, mi pare
che sia appunto la strada che hanno fatta, l'apparenze, i modi con cui hanno
potuto entrar nelle menti, e dominarle. La città già agitata ne fu sottosopra:
i padroni delle case, con paglia accesa, abbruciacchiavano gli spazi unti; i
passeggieri si fermavano, guardavano, inorridivano, fremevano. I forestieri,
sospetti per questo solo, e che allora si conoscevan facilmente al vestiario,
venivano arrestati nelle strade dal popolo, e condotti alla giustizia. Si
fecero interrogatòri, esami d'arrestati, d'arrestatori, di testimoni; non si
trovò reo nessuno: le menti erano ancor capaci di dubitare, d'esaminare,
d'intendere. Il tribunale della sanità pubblicò una grida, con la quale
prometteva premio e impunità a chi mettesse in chiaro l'autore o gli autori del
fatto. Ad ogni modo non parendoci conueniente , dicono que' signori nella
citata lettera, che porta la data del 21 di maggio, ma che fu evidentemente
scritta il 19, giorno segnato nella grida stampata, che questo delitto in
qualsiuoglia modo resti impunito, massime in tempo tanto pericoloso e
sospettoso, per consolatione e quiete di questo Popolo, e per cauare indicio
del fatto, habbiamo oggi publicata grida, etc . Nella grida stessa però, nessun
cenno, almen chiaro, di quella ragionevole e acquietante congettura, che
partecipavano al governatore: silenzio che accusa a un tempo una preoccupazione
furiosa nel popolo, e in loro una condiscendenza, tanto più biasimevole, quanto
più poteva esser perniciosa. Mentre il tribunale cercava, molti nel pubblico,
come accade, avevan già trovato. Coloro che credevano esser quella un'unzione
velenosa, chi voleva che la fosse una vendetta di don Gonzalo Fernandez de
Cordova, per gl'insulti ricevuti nella sua partenza, chi un ritrovato del
cardinal di Richelieu, per spopolar Milano, e impadronirsene senza fatica;
altri, e non si sa per quali ragioni, ne volevano autore il conte di Collalto,
Wallenstein, questo, quell'altro gentiluomo milanese. Non mancavan, come abbiam
detto, di quelli che non vedevano in quel fatto altro che uno sciocco scherzo,
e l'attribuivano a scolari, a signori, a ufiziali che s'annoiassero all'assedio
di Casale. Il non veder poi, come si sarà temuto, che ne seguisse addirittura
un infettamento, un eccidio universale, fu probabilmente cagione che quel primo
spavento s'andasse per allora acquietando, e la cosa fosse o paresse messa in
oblìo. C'era, del resto, un certo numero di persone non ancora persuase che
questa peste ci fosse. E perché tanto nel lazzeretto, come per la città, alcuni
pur ne guarivano, "si diceua" (gli ultimi argomenti d'una opinione
battuta dall'evidenza son sempre curiosi a sapersi), "si diceua dalla
plebe, et ancora da molti medici partiali, non essere vera peste, perché tutti
sarebbero morti". Per levare ogni dubbio, trovò il tribunale della sanità
un espediente proporzionato al bisogno, un modo di parlare agli occhi, quale i
tempi potevano richiederlo o suggerirlo. In una delle feste della Pentecoste,
usavano i cittadini di concorrere al cimitero di San Gregorio, fuori di Porta
Orientale, a pregar per i morti dell'altro contagio, ch'eran sepolti là; e,
prendendo dalla divozione opportunità di divertimento e di spettacolo, ci
andavano, ognuno più in gala che potesse. Era in quel giorno morta di peste,
tra gli altri, un'intera famiglia. Nell'ora del maggior concorso, in mezzo alle
carrozze, alla gente a cavallo, e a piedi, i cadaveri di quella famiglia
furono, d'ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto, sur un carro,
ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della
pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore, s'alzava per tutto dove passava
il carro; un lungo mormorìo regnava dove era passato; un altro mormorìo lo
precorreva. La peste fu più creduta: ma del resto andava acquistandosi fede da
sé, ogni giorno più; e quella riunione medesima non dové servir poco a
propagarla. In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto:
proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l'idea
s'ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste
sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa
trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma
già ci s'è attaccata un'altra idea, l'idea del venefizio e del malefizio, la
quale altera e confonde l'idea espressa dalla parola che non si può più mandare
indietro. Non è, credo, necessario d'esser molto versato nella storia dell'idee
e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazia del
cielo, che non sono molte quelle d'una tal sorte, e d'una tale importanza, e
che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali si possano
attaccare accessòri d'un tal genere. Si potrebbe però, tanto nelle cose
piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e
così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d'osservare,
ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così
sola, è talmente più facile di tutte quell'altre insieme, che anche noi, dico
noi uomini in generale, siamo un po' da compatire. |