Publio Virgilio Marone Le Georgiche Opera in quattro libri composta in esametri, dedicata al
rapporto con la natura, le Georgiche di Virgilio, uno dei massimi poeti della
Roma antica, hanno la particolarità di narrare non una epidemia tra gli uomini,
ma bensì tra gli animali: le cui conseguenze però, dal punto di vista dell’equilibrio
ecologico, sono per l’uomo parimenti devastanti. Forse anche per questo il
terzo libro, quello che affronta la pestilenza, non è avulso né dall’attonito stupore
di matrice lucreziana, né dal sentimento della pìetas. (…) In questi luoghi orribile già nacque Da l’äer guasto contagiosa peste, Che incrudelì nel caldo autunno, e tutte Infettò l’acque, e i pascoli corruppe, E armenti, e gregge, e fin le belve uccise. Nè conosciuto, o naturale il modo Era in lor di morir: chè ove ignea sete, Dentro le vene penetrando, attratte E inaridite avea le membra, un nuovo Quindi umor generavasi che pregno D’acre veleno in putrida sciogliea Liquida tabe le midolle e l’ossa.
Spesso appiè de l’altar, mentre a le corna Le sacre s’avvolgean candide bende Per offrirla a gli dei; l’ostia si vide Fra le man de gli attoniti ministri Moribonda cader; o se taluna Il sacerdote ne uccidea col ferro, Nè le viscere imposte ardean su l’ara, Nè il consultato aruspice risposta Trarne incerto potea: di sangue appena Eran tinti i coltelli, e poche stille D’atra tabe macchiavano il terreno. Presi dal morbo rio su i paschi erbosi, E ne i presepii, e ne gli ovili a torme Muoiono agnelli e buoi; mordace rabbia Assale i cani, e vïolenta tosse Agita e strozza soffocando i porci.
Langue il destrier già vincitore, e i fonti Sdegna e l’erbe svogliato, e raspa e batte Con piè frequente il suol, chine ha le orecchie, E un interrotto, e ne i vicini a morte Freddo sudor gronda dal corpo, ed aspra Resiste al tatto l’indurita pelle.
Questi ne i primi dì precoci segni Di morte si palesano, e se poi Segue il morbo a inasprir, ardenti allora Son gli occhi, e grave, e dal profondo petto Tratto a stento il respir: teso è da i lunghi Singulti il fianco palpitante, un nero Sangue giù cola da le nari, e chiude L’asciutte fauci l’ingrossata lingua. Dapprincipio giovò l’arida gola D’infuso vino ristorare, e parve Questo lo scampo sol, ma poi del male Fu il rimedio peggior; poichè, riprese Quindi le forze, da feroce rabbia Ardevano invasi, e nel morir (ah lungi Da i buoni, a i soli rei serbate, o numi Tanto furor) contro di se volgendo I nudi denti, in sanguinosi brani Lacerando mordevansi le membra.
Ecco ahi! fumante di
sudor sul campo, Mentre il vomero trae, cade gemendo L’esangue toro, ed a la spuma misto Vomita il sangue: l’arator dolente Vassene, e lagrimando il bue compagno, Mesto lui pur de la fraterna morte, Dal timone distacca, e a mezzo il solco Confitto lascia e in abbandon l’aratro.
Non l’ombra più de gli alti boschi, o l’erba De i molli prati or possono, nè l’onda, Che scorre limpidissima qual ambra Di sasso in sasso a zampillar su i campi, L’egro armento allettar: ansa dimesso Il cavo fianco, istupiditi e immoti Stan gli occhi in fronte, e dal suo peso tratta Chinasi al suol la languida cervice.
Ahi! questo dunque de i sudori sparsi, Questo di tante a pro de l’uom fatiche E’ dunque il frutto? E che giovò la terra Con assiduo lavor svolgere, e il collo Sotto il giogo incallir? Eppur fumosi Vini ad essi non
nocquero, o mal sane Ricercate vivande: usato cibo Erano l’erbe semplici e le frondi, Sola bevanda le scorrevoli acque Di fonte o fiume, e i placidi lor sonni Mai non ruppe, o turbò cura inquïeta. Fama è, che in tutti
quei contorni allora A i sagrificii di Giunone e i tori Mancarono, e le solite giovenche, E i cocchi a trarne con le offerte al tempio Silvestri buoi si ritrovaro appena. Quindi la terra a lavorar costretti Fur quelle genti senz’aratro, e i solchi Con zappe aprire, ed incastrarvi il seme Co l’unghie, e il collo sopponendo al giogo I carri a stento strascinar su i monti.
Non più a la greggia insidïando, il lupo Notturno esplora il chiuso ovil, da cura Più grave oppresso: e le fugaci damme E i päurosi cervi in mezzo a i cani Vanno ora errando, e a le capanne intorno. Nè il rio contagio a lo squammoso armento 845Del mar perdona; in su l’estremo lido Quasi naufraghi corpi i pesci esangui Rigetta il fiotto, e
dentro ai fiumi ignoti Corron le foche a ricovrarsi: invano Nel suo covil la vipera s’appiatta, E l’irte squame attonito drizzando Spira il serpente; velenosa è pure L’aria a gli augelli, e a mezzo vol cadendo Sotto le nubi lasciano la vita. (…) |