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Lunario dei giorni di paura


Quarantaseiesima settimana

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I viceré

Federico De Roberto

Tiemme ed.

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«Il castigo di Dio!... Tutta colpa dei nostri peccati!... Erano più di dieci anni che vivevamo tranquilli! Assassini del governo!...» La povera gente seguiva a piedi i carrettelli carichi di due magri sacconi e di quattro seggiole sciancate; e nelle brevi soste fatte per riprender fiato, per asciugar il sudore grondante dalle fronti terrose, scambiava commenti sulle notizie del colera, sull’origine della pestilenza, sulla fuga universale che spopolava la città. I più credevano al malefizio, al veleno sparso per ordine delle autorità; e si scagliavano contro gl’«italiani», untori quanto i borboni. Al Sessanta, i patrioti avevano dato a intendere che non ci sarebbe stato più colera, perché Vittorio non era nemico dei popoli come Ferdinando; e adesso, invece, si tornava da capo! Allora, perché s’era fatta la rivoluzione? Per veder circolare pezzi di carta sporca, invece delle belle monete d’oro e d’argento che almeno ricreavano la vista e l’udito, sotto l’altro governo? O per pagar la ricchezza mobile e la tassa di successione, inaudite invenzioni diaboliche dei nuovi ladri del Parlamento? Senza contare la leva, la più bella gioventù strappata alle famiglie, perita nella guerra, quando la Sicilia era stata sempre esente, per antico privilegio, dal tributo militare? Erano questi tutti i vantaggi dell’Italia una?... E i più scontenti, i più furiosi, esclamavano: «Bene han fatto i palermitani, a prendere i fucili!...» Ma la rivolta di Palermo era stata vinta, anzi la pestilenza, secondo i pochi che non credevano al veleno, veniva di lì, importata dai soldati accorsi a sedare l’insorta città... E sui monticelli di breccia disposti lungo la via, al filo d’ombra proiettata dai muri, dalla cui cresta sporgevano le pale spinose dei fichi d’India, i fuggenti sedevano un poco, discutendo di queste cose, mentre continuava la sfilata delle carrozze, dei carri e dei pedoni non ancora stanchi. Alcuni tra questi, i più poveri, avevano caricato tutta la loro roba sopra un asinello, e uomini, donne e bambini seguivano a piedi, con fagotti di cenci in capo, o sotto il braccio, o infilati ad un bastone, la bestia lenta e paziente. I conoscenti si fermavano, notizie e commenti erano scambiati anche tra sconosciuti, con la solidarietà del pericolo nella comune miseria. Le donne ripetevano ciò che avevano udito dire dai preti: il colera era la pena dei tempi peccaminosi: gli scomunicati non avevano fatto la guerra al Papa? La Chiesa non era perseguitata? E adesso, per colmar lo staio, c’era la legge che spogliava i conventi! La fine del mondo! L’anno calamitoso! Chi avrebbe creduto una cosa simile! Tanti poveri monaci buttati in mezzo a una via? I luoghi santi sconsacrati? Non c’è più dove arrivare!... Queste erano sciocchezze, giudicavano invece gli uomini. I monaci avevano assai scialato senza far nulla! Mangiavano a ufo! E i muri dei conventi, se avessero potuto parlare, ne avrebbero dette di belle. Era tempo che finisse la cuccagna!

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