Io sono leggenda Richard Matheson (...) La donna giaceva immobile sul letto di Neville, addormentata.
Erano passate le quattro del pomeriggio. Lui aveva fatto capolino in camera
almeno venti volte per guardarla e vedere se fosse sveglia. In quel momento era
seduto in cucina a bere caffè e ad allarmarsi. Ma se poi è infetta? si chiese
dubbioso. L’allarme era iniziato qualche ora prima, mentre Ruth dormiva. Adesso
non riusciva a togliersi di dosso quella paura. Per quanto ci ragionasse, non
c’era niente da fare. D’accordo, era abbronzata dal sole, aveva camminato a
lungo sotto la luce del giorno. Anche il cane aveva vissuto alla luce del
giorno. Neville tamburellava incessantemente con le dita sul tavolo. La
semplicità se ne era andata una volta per tutte: il sogno era sfumato in una
complessità inquietante. Non c’era stato nessun abbraccio portentoso, non erano
state pronunciate parole magiche. A parte il nome, non era riuscito a tirarle
fuori altro. Portarla fino a casa era stata una lotta. Convincerla a entrare
era stato anche peggio. Aveva pianto e lo aveva supplicato di non ucciderla.
Qualunque cosa lui le dicesse, lei continuava a piangere e a supplicarlo. Si
era raffigurato una scena degna di un film hollywoodiano: sguardi languidi, un
ingresso in casa abbracciati l’un l’altra, dissolvenza. Invece era stato
costretto a tirarla e ammansirla e discutere e rimproverarla mentre lei puntava
i piedi. L’ingresso era stato tutt’altro che romantico. Aveva dovuto
trascinarla dentro. Una volta in casa, la sua paura non era certo diminuita.
Lui aveva cercato di comportarsi in modo da rassicurarla, ma lei si era
rintanata in un angolo proprio come aveva fatto il cane. Non aveva mangiato né
bevuto niente di quello che le aveva dato. Alla fine era stato costretto a
portarla in camera da letto e chiuderla dentro. Ora dormiva. Emise un sospiro
stanco e passò il dito sul manico della tazza. Tutti questi anni passati a
sognare una persona che potesse farmi compagnia, pensò. Ora che ne incontro una,
la prima cosa che faccio è perdere la sua fiducia, trattandola in modo rozzo e
spietato. Eppure non c’era molto altro che potesse fare. Aveva accettato già da
tempo l’ipotesi di essere l’unica persona rimasta. Non importava che avesse
anche lei un aspetto normale. Ne aveva visti fin troppi in stato comatoso
eppure con la stessa aria sana che aveva lei. Ma sani non erano, e lui lo
sapeva. Il fatto che avesse camminato alla luce del sole non bastava a far
inclinare l’ago della bilancia in favore di una fiduciosa accettazione.
Dubitava da troppo tempo. La sua concezione della società era ormai ferrea. Gli
era quasi impossibile credere che ci fossero altri come lui. E dopo che lo
shock iniziale si era affievolito, le certezze assolute dei tanti anni passati
da solo si erano riconfermate. Con il respiro fiacco si alzò e tornò in camera
da letto. Lei era ancora nella stessa posizione. Forse, pensò, era di nuovo
caduta in coma. Si fermò accanto al letto, a fissarla. Ruth. C’erano così tante
cose di lei che voleva sapere. Eppure aveva quasi paura di scoprirle. Perché,
se era come tutti gli altri, per lui si prospettava un’unica strada. Ed era
meglio non sapere niente di chi si doveva uccidere. Mosse nervosamente le mani
lungo i fianchi, i suoi occhi azzurri la guardarono senza emozione. Possibile
che fosse solo un episodio casuale? Che si fosse risvegliata dal coma per un
po’ e avesse cominciato a vagare? Sembrava plausibile. Eppure, a quanto ne
sapeva, la luce del giorno era l’unica cosa a cui il germe non poteva resistere.
Ma perché non bastava a convincerlo della sua normalità? Be’, c’era solo un
modo per esserne certi. Si chinò e le mise una mano sulla spalla. «Svegliati»
le disse. Lei non si mosse. Neville serrò le labbra e con le dita percorse la
sua spalla morbida. Fu allora che vide la catenina d’oro intorno al collo.
Avvicinandosi con le dita ruvide, la sollevò dal corpetto del vestito. Stava
guardando la minuscola croce d’oro quando lei si svegliò e si girò verso il
cuscino. Non è in coma: fu il suo unico pensiero. «Cosa stai f-facendo?» chiese
con un filo di voce. Quando parlava era più difficile non fidarsi di lei. Il
suono della voce umana era così strano alle sue orecchie da esercitare su di
lui un potere che non aveva mai avuto prima. «Io… niente» rispose. Indietreggiò
maldestramente e si appoggiò alla parete. La guardò per un istante ancora. Poi
le chiese: «Da dove vieni?». Lei rimase distesa a guardarlo con aria
inespressiva. «Ti ho chiesto da dove vieni» le disse. Di nuovo, lei non
rispose. Si allontanò dalla parete con uno sguardo duro sul viso. «Ing…
Inglewood» si affrettò a dire. Lui la guardò con freddezza per un attimo, poi
si addossò di nuovo al muro. «Capisco» disse. «Vivevi… vivevi sola?» «Ero
sposata.» «Dov’è tuo marito?» Le vide un movimento in gola. «È morto.» «Da
quanto?» «La settimana scorsa.» «E cosa hai fatto dopo che è morto?» «Ho
corso.» Si morse il labbro inferiore. «Sono scappata.» «Vuoi dire che sei
rimasta in giro per tutto questo tempo?» «… Sì.» La guardò senza dire una
parola. Poi si girò di scatto e i suoi passi pesanti rimbombarono sul pavimento
mentre si dirigeva in cucina. Aperto lo sportello di un pensile, tirò giù una
manciata di spicchi d’aglio. Li mise su un piatto, li fece a pezzetti, li
ridusse in poltiglia. Una zaffata acre gli assalì le narici. Quando tornò in
camera, lei si era tirata su, appoggiandosi su un gomito. Senza aspettare un
minuto, le spinse il piatto quasi in faccia. Lei girò la testa con un flebile
grido. «Cosa stai facendo?» gli chiese, dando un colpo di tosse. «Perché ti
giri dall’altra parte?» «Ti prego…» «Perché ti giri dall’altra parte?» «Puzza!»
La sua voce si ruppe in un singhiozzo. «Per favore! Mi fai venire la nausea!»
Lui spinse il piatto ancora più vicino alla faccia. Accennando un conato di
vomito, lei arretrò e si schiacciò contro il muro, le gambe tirate a sé sul
letto. «Smettila! Per favore!» lo supplicò. Lui tirò via il piatto e vide il
corpo contorcersi sotto gli spasmi dello stomaco. «Sei una di loro» le sussurrò
astioso. Lei scattò a sedere e lo superò di corsa per entrare in bagno. Chiuse
la porta sbattendola e lui la sentì vomitare ferocemente. Perplesso, posò il
piatto sul comodino. Deglutì a fatica. Infetta. Quello era un segnale
inequivocabile. Aveva appreso più di un anno prima che l’aglio causava una
reazione allergica in ogni sistema contagiato dal bacillo vampiris. Quando il
sistema veniva esposto all’aglio, i tessuti così stimolati sensibilizzavano le
cellule, causando una reazione anomala a ogni ulteriore contatto con l’aglio.
Ecco perché iniettarlo loro nelle vene era servito a poco. Dovevano essere
esposti all’odore. Si abbandonò a sedere sul letto. E la donna aveva reagito
nel modo sbagliato. Un istante di pausa, poi Robert Neville si accigliò. Se
quello che aveva detto la donna era vero, doveva aver vagato per una settimana.
Sarebbe stato naturale sentirsi sfinita e debole, e in quelle condizioni
l’odore di una tale quantità d’aglio poteva averla fatta vomitare. Batté i
pugni sul materasso. Non poteva esserne certo, dunque non ancora. E,
obiettivamente, sapeva di non avere il diritto di arrivare a una conclusione
partendo da prove inadeguate. Lo aveva imparato a sue spese, ne era convinto e
ci credeva ciecamente. Era ancora seduto sul letto quando lei uscì dalla porta
del bagno che aveva chiuso a chiave. Si fermò un istante nel corridoio a
guardarlo, poi entrò in soggiorno. Lui si alzò e la seguì. Quando raggiunse il
soggiorno, lei era seduta sul divano. «Sei contento?» gli chiese. «Lascia
perdere» le rispose. «Sei tu quella che deve dimostrare qualcosa, non io.» Alzò
gli occhi con aria rabbiosa, come se volesse parlare. Poi abbandonò il corpo
sul divano e scosse il capo. Per un attimo, lui provò un guizzo di compassione.
Aveva un’aria così impotente, con le mani esili posate in grembo. Sembrava non
le importasse più di avere il vestito strappato. Neville guardò la lieve
rotondità del suo seno. Aveva una corporatura molto snella, quasi senza curve.
Per niente simile alle donne che un tempo gli occupavano la mente. Lascia
perdere, si disse, ora non ha più importanza. Si sedette in poltrona e la
osservò. Lei non ricambiò lo sguardo. «Ascoltami» le disse allora. «Ho tutti i
motivi per sospettare che tu sia infetta. Soprattutto visto come hai reagito
all’aglio.» Lei non rispose nulla. «Non hai niente da dire?» le chiese. Lei
alzò gli occhi. «Pensi che sia una di loro» disse. «Penso che potresti
esserlo.» «E che mi dici di questa?» gli chiese prendendo in mano il crocifisso
che portava al collo. «Non significa niente» disse lui. «Sono sveglia» proseguì
la donna. «Non sono in coma.» Lui non rispose. Era qualcosa a cui non poteva
controbattere, anche se non placava i suoi dubbi. «Sono stato a Inglewood molte
volte» disse lui alla fine. «Perché non hai sentito la mia auto?» «Inglewood è
grande» rispose. La studiò con attenzione, tamburellando con le dita sul
bracciolo della poltrona. «Vorrei… vorrei tanto crederti» le disse. «Davvero?»
gli chiese lei. Fu assalita da un altro spasmo allo stomaco e dovette piegarsi
trattenendo il fiato e stringendo i denti. Robert Neville rimase immobile a
chiedersi come mai non provasse più compassione nei suoi confronti. Difficile,
però, che i morti potessero suscitare emozioni. Le aveva consumate tutte e
ormai si sentiva vuoto, senza sentimenti. Dopo un istante, lei alzò gli occhi.
Aveva uno sguardo duro. «Sono sempre stata debole di stomaco» disse. «La
settimana scorsa ho visto uccidere mio marito. Smembrato pezzo a pezzo. L’ho
visto proprio davanti ai miei occhi. L’epidemia mi ha portato via due figli. E
nell’ultima settimana non ho smesso di vagare. Mi nascondevo di notte, mangiavo
solo qualche rimasuglio di cibo. La paura mi divorava, non riuscivo a dormire
più di due ore di seguito. Poi sento qualcuno che mi chiama. Mi rincorri per un
campo, mi colpisci, mi trascini in casa tua. Poi mi sento male perché mi piazzi
davanti alla faccia un piatto di aglio puzzolente, e mi dici che sono infetta!»
Le sue mani, in grembo, si muovevano a scatti. «Che cosa ti aspettavi?»
aggiunse rabbiosa. Si abbandonò di nuovo all’indietro sullo schienale del
divano e chiuse gli occhi. Con le mani tormentava nervosamente l’orlo del
vestito. Per un attimo cercò di rimboccare il pezzo stracciato, ma ricadde giù
e lei singhiozzò stizzita. Neville si allungò in avanti dalla poltrona. Ora cominciava
a sentirsi in colpa, nonostante i dubbi e i sospetti. Era più forte di lui.
Aveva dimenticato cosa si provava davanti a una donna in lacrime. Alzò
lentamente una mano verso la barba e se la lisciò mentre la osservava, confuso.
«Mi faresti…» iniziò. Deglutì. «Mi faresti prendere un campione del tuo
sangue?» le chiese. «Potrei…» Lei si alzò di scatto e barcollò verso la porta.
Lui fu in piedi all’istante. «Cosa stai facendo?» le chiese. Lei non rispose.
Cominciò ad armeggiare goffamente con la serratura. «Non puoi uscire» le disse,
sorpreso. «Tra poco loro saranno dappertutto, là fuori.» «Non voglio restare
qui» disse tra i singhiozzi. «Che differenza fa se mi uccidono?» Le bloccò il
braccio con le mani. Lei cercò di ritrarlo. «Lasciami stare!» gridò. «Non ti ho
chiesto di portarmi qui. Sei stato tu a trascinarmi a casa tua. Perché non mi
lasci in pace?» Lui le rimase accanto in imbarazzo, senza sapere cosa dire.
«Non puoi uscire» le ripeté. La riportò al divano. Poi andò a prenderle un
bicchiere con due dita di whisky al mobile bar. Chi se ne importa se è infetta
o no, si disse, chi se ne importa. Le porse il bicchiere. Lei fece no con la
testa. «Bevilo» le disse. «Ti aiuterà a calmarti.» Lei alzò lo sguardo con aria
rabbiosa. «Così puoi mettermi altro aglio davanti alla faccia?» Neville scosse
il capo. «Bevilo, avanti» ripeté. Dopo qualche istante, lei prese il bicchiere
e diede un sorso. Il whisky la fece tossire. Posò il bicchiere sul bracciolo
del divano e fu scossa da un respiro profondo. «Perché vuoi che resti?» gli
chiese mesta. Lui la guardò senza avere una risposta chiara in mente. Poi
rispose: «Anche se sei infetta, non posso lasciarti andare là fuori. Non sai
cosa ti farebbero». Lei chiuse gli occhi. «Non mi importa» disse. (...) |