Wuhan – Diari da una città chiusa Fang Fang II Il 20 gennaio, quando il dottor Zhong Nanshan, medico
specializzato in malattie infettive, ha rivelato che il nuovo coronavirus
poteva trasmettersi da uomo a uomo, e quando è uscita la notizia che quattordici
dottori erano già stati contagiati, di primo acchito sono rimasta sconvolta,
poi mi sono arrabbiata. Era un’informazione in netto contrasto con ciò che ci
avevano detto fino ad allora. Gli organi di stampa ufficiali continuavano a
dire che il virus «non si trasmette tra gli esseri umani; l’infezione si può
controllare e prevenire». Nel frattempo, circolavano sempre più voci su un
altro coronavirus simile a quello della SARS. Quando ho saputo che il periodo
di incubazione del virus si aggirava intorno ai quattordici giorni, ho iniziato
a fare la lista delle persone con cui ero entrata in contatto nelle due
settimane precedenti, per capire se correvo il rischio di essere stata
contagiata. Con terrore mi sono ricordata che in quel periodo ero stata in
ospedale tre volte per fare visita a dei colleghi malati. Avevo indossato la
mascherina solamente in due occasioni. Il 7 gennaio avevo partecipato a una
festa organizzata da un amico e in seguito ero andata a cena con la famiglia.
Il 16 gennaio un operaio era venuto a casa mia a installare la nuova caldaia.
Il 19 mia nipote era arrivata a Wuhan da Singapore, perciò mio fratello
maggiore e sua moglie ci avevano portato fuori a cena, e con noi c’erano anche
un altro mio fratello e sua moglie. Per fortuna stavano già circolando voci di
un nuovo virus, simile a quello della SARS, perciò avevo sempre indossato la
mascherina. Considerato il mio lavoro, è raro per me uscire così tante volte in
un breve lasso di tempo. Ma del resto era il periodo che precede il Capodanno lunare,
quello in cui le persone tendono a dare feste e a riunirsi. Una volta messe
insieme tutte le informazioni, non sono riuscita a capire se rischiassi oppure
no di essere stata contagiata. L’unica cosa che potevo fare era contare i
giorni, finché non fossero passate due settimane. Ero davvero sconfortata. Mia
figlia è tornata dal Giappone il 22 gennaio, la sera prima dell’imposizione
della quarantena. Sono andata a prenderla in aeroporto alle dieci di sera. A
quell’ora non c’erano molte macchine in giro, né gente a piedi. Quando sono
arrivata, quasi tutti quelli che erano lì in attesa del passaggio indossavano
la mascherina; c’era un’atmosfera pesante e tutti sembravano piuttosto agitati.
Nessuno faceva baccano, non si sentivano le persone chiacchierare o ridere come
di solito accade. Erano i giorni del grande panico e terrore per Wuhan. Prima
di uscire, avevo mandato un messaggio a un’amica per dirle che mi era tornato
in mente il verso di una vecchia poesia, «il vento fischia mentre il gelo cala
su Yishui». Poiché il volo era in ritardo, mia figlia è spuntata dal terminal
soltanto verso le undici di sera. Il mio ex marito aveva cenato insieme a lei
la settimana precedente. Qualche giorno prima che l’andassi a prendere, lui mi
aveva chiamato per dirmi che aveva dei problemi ai polmoni. Io mi sono subito
allarmata; se aveva contratto il coronavirus, c’era la possibilità che anche
nostra figlia fosse stata contagiata. Ne ho parlato con lei e abbiamo deciso
che avrebbe fatto meglio a mettersi in quarantena per almeno una settimana
prima di uscire. Questo significava che non avremmo trascorso il Capodanno
insieme. Le ho detto che le avrei portato qualcosa da mangiare (dal momento che
era stata in vacanza all’estero, non aveva niente di fresco in casa). Entrambe
abbiamo indossato la mascherina in macchina e, nonostante di solito lei non
veda l’ora di raccontarmi dei suoi viaggi, non ha detto una parola sul Giappone
durante il tragitto. Siamo rimaste in silenzio per tutto il tempo. L’ansia e lo
stress che permeavano la città erano anche lì con noi, nella nostra macchina.
Ho accompagnato mia figlia al suo appartamento e poi, rientrando, mi sono
fermata a fare benzina. Sono tornata a casa all’una di notte. Non appena sono
entrata, ho acceso il computer e ho visto subito la notizia: era stata ordinata
la quarantena con effetto immediato. Qualcuno aveva già proposto di chiudere la
città, ma io ricordo di aver pensato: come si fa a chiudere una grande città
come Wuhan? Perciò non mi sarei mai aspettata di vederlo succedere.
L’applicazione della misura della quarantena mi ha anche fatto capire che la
malattia infettiva che si stava diffondendo doveva avere già raggiunto un
livello critico. Il giorno dopo sono uscita per comprare qualche mascherina e
per fare la spesa. Le strade erano deserte. Non credo di averle mai viste così
vuote a Wuhan. Quella desolazione mi ha fatto sentire molto triste; il mio
cuore era vuoto al pari delle strade. Era una sensazione che non avevo mai
provato – una sensazione di incertezza riguardo al futuro della mia città,
incertezza dovuta al fatto di non sapere se io e i miei famigliari eravamo
stati infettati. Mi sentivo molto confusa e in ansia. Nei due giorni successivi
sono uscita di nuovo in cerca di altre mascherine, e lungo quelle vie deserte
ho incontrato soltanto qualche solitario netturbino. Essendoci così poche
persone in giro, le strade non erano sporche, ma loro continuavano imperterriti
a pulirle. Per qualche motivo vederli mi ha confortata, mi ha fatto sentire
bene. Tornando a casa continuavo a chiedermi perché, se già si parlava del
virus il 31 dicembre, tutti avevamo continuato a comportarci con tanta
negligenza per venti giorni. Non avremmo dovuto avere imparato la lezione, dopo
l’epidemia di SARS del 2003? Era una domanda che tante persone si stavano
facendo. Perché? Il motivo è che siamo stati troppo superficiali, e poi sono
entrate in ballo anche le normali modalità di vivere la vita. Ma soprattutto ci
siamo fidati troppo del nostro governo. Eravamo convinti che i funzionari dell’Hubei
non avrebbero mai adottato un atteggiamento tanto negligente e irresponsabile
nel caso in cui le nostre vite fossero a rischio. Eravamo convinti che non
sarebbero stati così attenti al «politicamente corretto» di fronte a un
pericolo che minacciava la vita di milioni di cittadini. Ed eravamo convinti
che fossero dotati di buon senso e migliori capacità decisionali. È per questo
che in una chat di gruppo ho persino scritto: «Il governo non oserebbe mai
nascondere una cosa così enorme». Ma in realtà, come poi si è visto, parte di
questa catastrofe è riconducibile all’errore umano. Comportamenti abituali,
radicati nel tempo, come divulgare le buone notizie e nascondere le cattive,
proibire alle persone di dire la verità, impedire al popolo di comprendere la
realtà degli eventi ed esprimere disprezzo per la vita umana hanno condotto a
rappresaglie di massa contro la nostra società, hanno provocato danni al popolo
e hanno persino causato terribili ripercussioni contro gli stessi funzionari
(alcuni dirigenti dell’Hubei sono stati rimossi dal loro incarico, mentre
altri, pur essendo responsabili, sono rimasti al loro posto). Tutto questo, a
sua volta, ha costretto Wuhan a una quarantena di settantasei giorni, con
conseguenze che hanno danneggiato un grande numero di persone. Dobbiamo a tutti
i costi continuare a lottare, finché tutti non si saranno presi le proprie
responsabilità. (…) |