L’esercito italiano durante il colera del 1867 Edmondo De Amicis In
questo racconto – saggio sull’intervento dell’Esercito italiano in Sicilia,
pubblicato nel 1869 nella raccolta La
vita militare: bozzetti per i tipi di Le Monnier, il grande scrittore
ligure, convinto socialista ma anche propenso a scivolare negli inganni
ideologici del positivismo, descrive la forsennatezza dei
siciliani di fronte al colera. Una visione già viziata dal pregiudizio sulla “ignoranza
quasi selvaggia del volgo”, incapace di comprendere un fenomeno descritto in
modo altrettanto realistico dal Verga e dal
Capuana, che però furono capaci, come De Roberto, di far trasparire tra le
righe le cause storiche e sociali di una paura e di un sospetto senza limiti. Ogniqualvolta io ripenso a quanto l’esercito ha fatto
e patito per il paese durante il colèra del mille ottocento sessanta sette, e
riprovo quel vivo senso d’ammirazione e di gratitudine che mi si destava in
quei giorni alla notizia d’ogni nuovo suo atto di carità e di coraggio civile,
mi prende il dubbio che la maggior parte di quegli atti siano già dai più
dimenticati, che molti non siansi saputi mai, che tutti poi, o quasi tutti,
sien noti troppo vagamente per essere, come e quanto si conviene, estimati e
lodati. Forse i ricordi di tutti que’ begli atti individuali il popolo li ha
già confusi in un solo concetto, — l’esercito ha fatto del bene, — come dopo
una battaglia vinta esprime ed esalta nel nome d’un generale le gesta e le
glorie di centomila soldati. E maggiormente mi confermo in codesto timore
quando considero che il paese, il quale delle guerre non è che spettatore e può
e suole notar molte cose, essendo stato invece, in questa occorrenza del
colèra, attore e vittima ad un tempo del terribile dramma, è naturale che poco
badasse a quei tanti e sfuggevoli fatti parziali di cui, benchè altamente
generoso lo scopo, eran pur sempre lievi e quasi insensibili gli effetti
rispetto alla grandezza dei mali onde egli stesso era in gran parte travagliato.
Ora non è chi non comprenda come il sentimento di ammirazione e di gratitudine
che deriva dalla notizia vaga dell’opera che prestò l’esercito a vantaggio del
paese in quell’occasione, debba essere assai meno profondo e durevole, e
l’esempio assai meno efficace, che non sarebbe ove si conoscesse il modo con
cui quell’opera fu individualmente prestata, e i sacrifizi che costò, e i
pericoli che l’accompagnarono, così da averne scolpita l’immagine nella mente,
e poter rivolgere l’ammirazione a fatti determinati e legare la gratitudine a
dei nomi. Alcuni di questi fatti e di questi nomi ho appunto in animo di
ravvivare nella memoria di chi gli abbia scordati o non intesi mai; e m’induce
a quest’opera non tanto il pensiero della dolce ed altera compiacenza ch’io
proverò, come cittadino e come soldato, scrivendo una pagina tanto gloriosa per
l’esercito italiano, quanto il sentimento, che è in me vivissimo, di compiere
un dovere di giustizia col mettere in luce molte virtù, molti sacrifizi
dimenticati od oscuri, e, oltre a ciò, il convincimento che non sia cosa
inutile il porgere uno splendido esempio del come s’abbia a condurre l’uomo e
il cittadino di fronte alle sventure nazionali. Sullo scorcio del mille ottocento sessantasei, si
sperava in Italia che il colèra, da cui molte provincie erano state invase in
quell’anno, non sarebbe ritornato nell’anno successivo. Ritornò invece, come
tutti sanno, e più fiero e più ostinato di prima, e fra tutte le provincie
italiane quella che ne patì più gravi danni fu la Sicilia, della quale scriverò
quasi esclusivamente, per riuscire più ordinato e più breve. Nei mesi di gennaio e febbraio del sessantasette il
colèra mietè qualche vittima nelle vicinanze di Girgenti, e specialmente in
Porto Empedocle; d’onde, nel mese di marzo, si sparse per tutta la
provincia, e da questa, nell’aprile, in quella di Caltanissetta, e crebbe poi
fierissimamente in entrambe durante il mese di maggio, favorito dai calori
estivi che si fecero sentire un mese prima a cagione della lunga siccità. Nè
scemò punto nel giugno, se se ne tolga la sola città di Caltanissetta, in cui
decrebbe rapidamente; chè anzi, nei primi giorni di quell’istesso mese, invase
la provincia di Trapani, quella di Catania, quella di Siracusa, e sul cominciar
di luglio Palermo, e sul cominciar d’agosto Messina. Intanto si era propagato
per quasi tutte l’altre provincie d’Italia, e particolarmente in quelle del
mezzogiorno, e più che in ogni altra in quella di Reggio, dove menò la sua
ultima e più spaventevole strage sul cadere dell’anno. Fin dai primi indizi che si manifestarono nelle
provincie di Girgenti e di Caltanissetta, il generale Medici, comandante la
divisione di Palermo, quasi antivedendo il terribile corso dell’epidemia,
rimise in vigore tutte le cautele igieniche prescritte dal Ministero della
guerra nel sessantacinque; divise i corpi in un numero maggiore di
distaccamenti perchè nessuna città e nessun villaggio ne rimanessero privi;
ordinò che dappertutto si aprissero ospedali militari pei colerosi, infermerie
pei sospetti e case di convalescenza nei punti più appartati e salubri; istituì
in ogni presidio una commissione di sorveglianza sanitaria; prescrisse nettezza
rigorosa e accurate e frequenti disinfezioni in tutte le caserme; sospese ogni
movimento di truppa dai luoghi infetti agli immuni; impose ad ogni corpo, ad
ogni distaccamento di prestarsi prontamente e largamente a qualunque richiesta
delle autorità civili per il servizio dei cordoni sanitari e per sussidiare le
guardie nazionali nella tutela della pubblica sicurezza; ingiunse che si
cercassero e si preparassero nelle vicinanze delle città principali i luoghi
più adatti ad accamparvi le truppe nel caso che se ne fosse presentata la
necessità; migliorò il vitto dei soldati con distribuzioni quotidiane di vino e
di caffè; infine esortò gli ufficiali a preparare gli animi dei soldati a
quella vita di sacrifizi, di pericoli e di stenti che ciascuno in cuor suo già
presentiva ed aspettava coll’animo rassegnato e fortificato dall’esperienza
dell’anno antecedente. Altrettali provvedimenti prendevano nello stesso tempo
la più parte dei comandanti divisionali dell’altre provincie italiane, e
dappertutto si allestivano ospedali, si disinfettavano caserme, ed era un
affaccendarsi continuo di medici e d’ufficiali, un continuo dare e ricever
ordini, un insolito rimescolìo d’uomini e di cose come all’aprirsi d’una
guerra; in una parola, quella viva agitazione degli animi che suol precedere i
grandi avvenimenti, e che ognuno esprime così bene a se stesso colle parole: —
Ci siamo! Ma per quanto fossero disposti a fare pel bene del
paese l’esercito e i cittadini animosi ed onesti, tre grandi forze nemiche
dovevano rendere per molta parte e per lungo tempo inefficace l’opera loro: la
superstizione, la paura, la miseria, assidue compagne della morìa presso tutti
i popoli e in tutti i tempi. Nel maggior numero dei paesi, e particolarmente nei più
piccoli, i sindaci e molti altri pubblici officiali abbandonavano il proprio
posto al primo apparir del colèra, e da qualche paese disertavano tutti ad un
tempo colle famiglie e gli averi. I ricchi, gli agiati, tutti coloro che
avrebbero potuto soccorrere più efficacemente le plebi, fuggivano dalla città e
si rifugiavano nelle ville. In pochi giorni tutte le case della campagna erano
ingombre di cittadini fuggiaschi, e non solo di ricchi, ma di chiunque
possedesse tanto da poter vivere qualche giorno senza lavorare, e prendere a
pigione, anche a costo di gravissimi sacrifici, un abituro, una capanna,
un qualunque bugigattolo, pur che fosse lontano dalla città e appartato, quanto
era possibile, da ogni abitazione. Abbandonata a se stessa e impaurita dall’altrui paura
e dalla solitudine in cui veniva lasciata, la povera gente fuggiva anch’essa ed
errava a frotte per la campagna, traendo miseramente la vita fra i languori
della fame. Il generale terrore veniva accresciuto dal ricordo delle grandi
sventure patite negli anni andati; se ne predicevano, come sempre accade, delle
peggiori; si reputavano già tali fin dal loro cominciamento; in ciascuna
provincia si esageravano favolosamente le stragi delle altre; in campagna si
narravano orrori della morìa delle città; in città, altrettanto della campagna. Come si trovasse ridotta la popolazione che rimaneva
ne’ paesi è facile immaginarlo. Tranne poche città, essendo dappertutto
abbandonate o disordinate le amministrazioni comunali, si trascuravano i
provvedimenti igienici di più imperiosa necessità. Talora le popolazioni,
reputando fermamente che quei provvedimenti fossero inutili, ricusavano di
prestarvi l’opera propria, senza la quale essi riuscivano inefficaci, per
quanto fosse il buon volere delle Autorità e lo zelo dei pochi cittadini che
pensavano ed operavano dirittamente. S’aggiunga che molti paesi erano rimasti
senza medici, senza farmacisti, e tutti poi, anche i più grandi, erano desolati
dalla miseria che la carestia dell’anno precedente aveva prodotto, e lo scarso
ricolto di quell’anno, e l’enorme mortalità avvenuta negli armenti,
accresciuto. Falliti gran parte dei negozianti; sospesa la costruzione delle
strade ferrate; interrotte molte opere pubbliche provinciali e comunali; molte
fabbriche chiuse; gli operai senza lavoro; serrate dapprima le botteghe di
oggetti di lusso, da ultimo moltissime delle più necessarie; le officine
abbandonate; centinaia di famiglie ridotte a non vivere d’altro che d’erbe e di
fichi d’India; in ogni parte la fame, lo scoraggiamento e lo squallore. Per colmo di sventura si propagava ogni di più e
metteva radici profonde nel popolo l’antica superstizione che il colèra fosse
effetto di veleni sparsi per ordine del governo, che il volgo di gran parte dei
paesi del mezzogiorno, per uso contratto sotto l’oppressione del governo
cessato, tiene in conto d’un nemico continuamente e nascostamente inteso a
fargli danno per necessità di sua conservazione. In Sicilia, codesta superstizione
era avvalorata dal convincimento che il governo si volesse vendicare della
ribellione del settembre, e però una gran parte delle misure sanitarie prese
dalle Autorità governative incontravano nella plebe un’opposizione accanita,
ogni provvedimento aveva il colore d’un attentato, in ogni ordine si sospettava
una mira scellerata, da ogni menomo indizio si traeva argomento a conferma del
veneficio, in ogni nonnulla se ne vedeva una prova. Gli ospedali, le
disinfezioni, le visite dei pubblici officiali, tutto era oggetto di
diffidenza, di paura, di abborrimento. I poveri non si risolvevano a lasciarsi
trasportare negli spedali che nei momenti estremi, quando ogni cura riusciva
inefficace. Morivano la più parte, e per ciò appunto si credeva più fermamente
dal volgo che le medicine fossero veleni, e i medici assassini. Preferivano
morire abbandonati, senza soccorsi, senza conforti. Non credevano al contagio,
e però abitavano insieme alla rinfusa sani ed infermi, famiglie numerose in
angusti e immondi abituri, terribili focolari di pestilenza. Occultavano i
cadaveri per non esser posti in isolamento, o perchè ripugnavano dal vederli
seppelliti nei campisanti, non nelle chiese com’è la costumanza di molti paesi;
o per la stolta opinione che sovente gli attaccati dal colèra paiano, ma
non siano morti davvero, e rinvengano dopo qualche tempo. Si poneva ogni cura a
deludere le ricerche delle Autorità. Spesso si resisteva colla forza agli
agenti pubblici che venivano per trarre dalle case i cadaveri corrotti; si
gettavano questi cadaveri nei pozzi, si sotterravano segretamente nell’interno
delle case. In alcuni paesi, per trascuranza delle Autorità o per difetto di
gente che si volesse prestare al pietoso ufficio, i cadaveri, comunque non
contesi dai parenti, si lasciavano più giorni abbandonati nelle case, o
venivano gettati e lasciati scoperti nei cimiteri, o si ricoprivano di poche
palate di terra, così che intorno intorno ne riusciva ammorbata l’atmosfera, e
non si trovava più chi volesse avvicinarsi a que’ luoghi, e bisognava scegliere
altri terreni alle sepolture. I pregiudizi volgari venivano segretamente
fomentati dai borbonici e dai clericali. Eran sospetti di veneficio tutti gli
agenti della forza pubblica, i carabinieri, i soldati, i percettori delle
dogane, gli officiali governativi. In alcuni paesi della Sicilia era sospetto
di avvelenamento qualunque italiano del continente; in qualche luogo tutti
indistintamente gli stranieri erano sospetti. Si spargevano e si affiggevano per
le vie proclami sediziosi, eccitanti alla vendetta ed al sangue. Tratto tratto
le popolazioni armate di falci, di picche, di fucili, si assembravano,
percorrevano tumultuosamente le vie del paese cercando a morte gli
avvelenatori; minacciavano o assalivano le caserme dei carabinieri e dei
soldati; irrompevano nelle case dei medici, e le mettevano a sacco; si
gettavano nelle farmacie e vi distruggevano e disperdevano ogni cosa;
invadevano l’ufficio del comune, laceravano la bandiera nazionale, abbruciavano
i registri e le carte; costringevano le guardie nazionali a batter con loro la
campagna in traccia degli avvelenatori; andavano a cercarli nelle case;
credevano d’averli rinvenuti, li costringevano coi pugnali alla gola a immaginare
e confessare dei complici, li trucidavano, ne straziavano i cadaveri e li
abbruciavano nelle vie e nelle piazze del paese. Intere famiglie, accusate di
veneficio, venivano improvvisamente aggredite di notte da turbe di popolani, e
vecchi, donne, bambini cadevano sgozzati gli uni ai piedi degli altri senza
aver tempo di scolparsi o di supplicare; si ardevano le case e se ne
disperdevano le rovine. A Via Grande, a Bel passo, a Gangi, a Menfi, a
Monreale, a Rossano, a Morano, a Frassineto, a Porcile, nel Potentino,
nell’Avellinese, in cento altri luoghi, continui assembramenti e ribellioni e
delitti orrendi di sangue. Ogni giorno il popolo trovava una pietra, un cencio,
un oggetto qualsiasi, che credeva intriso di veleno. Si recava in folla dal
sindaco portando l’oggetto avvelenato, faceva venir medici e farmacisti a
sperimentarlo, e voleva che i resultati dell’esperimento fossero com’ei
riteneva che dovessero essere, o dava in minaccio e in violenze. In alcuni
paesi la forsennatezza del volgo era giunta a tal segno, che gran parte dei
cittadini, dal continuo pericolo di venir accusati come avvelenatori ed uccisi,
s’eran trovati costretti a barricarsi in casa con qualche provvisione di cibo,
vivendo così nascosti e rinchiusi come prigionieri. Ciò destava più forti i
sospetti, si assalivan le case, ne seguiva una lotta. Nei luoghi e ne’ giorni
in cui per la mitezza del morbo il volgo era meno brutalmente feroce, gli
accusati di veneficio eran soltanto vituperati e percossi, e poi trascinati,
lordi di sangue, al cospetto del sindaco. Alle volte i funzionari municipali,
impauriti dall’esasperazione della folla, non ardivano tentar di distorla dai
suoi propositi di sangue ed esortarla a risparmiare quegli infelici, e
rispondevano, come fecero nel villaggio di San Nicola, che «se ciò che ne
facesse pareva più opportuno.» E la risposta non era ancor detta intera, che
quegli sventurati giacevano a terra immersi nel sangue, e non serbavano più
traccia di sembianza umana. I municipi, dove se ne eccettuino quei delle città
principali, minacciati com’erano e violentati ogni giorno, avevan perduto ogni
autorità, e riuscivano impotenti a mettere in atto le misure più rigorosamente
necessarie alla pubblica sanità; chè anzi erano costretti a prevenire e
compiere ogni desiderio o volere della plebe, a fine di evitare più deplorabili
danni. Dapprima il popolo imponeva che non si lasciasse entrare in paese anima
viva, e il municipio stabiliva un rigoroso cordone attorno al paese, e ogni
commercio cessava; ma appena si cominciavano a risentire i danni di questa
cessazione di commercio, il popolo voleva che il cordone fosse tolto;
rincrudiva il morbo, e un’altra volta si doveva porre il cordone. E lo stesso
accadeva per tutti gli altri provvedimenti, ora voluti, ora disvoluti, secondo
che la morìa cresceva o descresceva, secondo che la stravolta fantasia del
volgo, per il vario manifestarsi di qualche indizio supposto, li reputava
salutari o venefici. Insomma ogni cosa era sossopra; in ogni luogo un
desolante spettacolo di miseria e di spavento; le campagne corse da turbe
d’accattoni e sparse d’infermi abbandonati e di cadaveri; i villaggi mezzo
spopolati; nelle città cessata ogni frequenza di popolo, deserto ogni luogo di
pubblico ritrovo, spento in ogni parte lo strepito allegro della vita operaia,
le strade quasi deserte, le porte e le finestre in lunghissimi tratti sbarrate,
l’aria impregnata del puzzo nauseabondo delle materie disinfettanti di cui le
strade erano sparse; da per tutto un silenzio cupo, o un interrotto rammarichìo
di poveri e d’infermi, o guai di moribondi o grida di popolo sedizioso. A tale
si trovaron ridotte le popolazioni di molte provincie della Sicilia e del basso
Napoletano, e fors’anco il quadro ch’io n’ho fatto non ritrae che assai
pallidamente i terribili colori della verità. Ma il sentimento doloroso che ci si desta in cuore
alla memoria di quei giorni funesti, più che dalla notizia degl’immensi danni
che il colèra produsse, vien forse dal pensare come la parte maggiore di
cedesti danni sia derivata dall’ignoranza quasi selvaggia dei volghi, e in
generale dalla pochezza d’animo dei cittadini di tutte le classi. L’effetto più
sconsolante, quantunque non inutile, di codesta sventura del colèra, è forse
stato quello di averci mostrato che nella via della civiltà siamo assai più
addietro che non si soglia pensare, e che il cammino che resta a farsi è assai
più lungo che non paresse dapprima, e che bisogna procedere più solleciti e più
risoluti. Sarebbe, in vero, assai difficile il dimostrare che in occasioni
consimili di tempi assai meno civili dei nostri la forsennatezza volgare sia
andata più oltre e abbia dato di sè più deplorabili prove, e che, nella
generalità del popolo, oggi più che allora, dinanzi alle sventure e ai pericoli
comuni la ragione l’abbia avuta vinta sull’istinto, la carità sull’egoismo, il
dovere sulla paura. (…) |