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Lunario dei giorni di paura


Trentaquattresima settimana

lapelle

 

Curzio Malaparte

La pelle

  

La «peste» era scoppiata a Napoli il 1° ottobre 1943, il giorno stesso in cui gli eserciti alleati erano entrati come liberatori in quella sciagurata città. Il 1° ottobre 1943 è una data memorabile nella storia di Napoli: perché segna l’inizio della liberazione dell’Italia e dell’Europa dall’angoscia, dalla vergogna, e dalle sofferenze della schiavitù e della guerra, e perché proprio in quel giorno scoppiò la terribile peste, che da quell’infelice città si sparse a poco a poco per tutta l’Italia e per tutta l’Europa. L’atroce sospetto, che lo spaventoso morbo fosse stato portato a Napoli dagli stessi liberatori, era certamente ingiusto: ma divenne certezza nell’animo del popolo quando si accorse, con meraviglia confusa a superstizioso terrore, che i soldati alleati rimanevano stranamente immuni dal contagio. Essi si aggiravano rosei, tranquilli, sorridenti, in mezzo alla folla degli appestati, senza contrarre lo schifoso morbo: che mieteva le sue vittime unicamente fra la popolazione civile, non soltanto della città, ma delle stesse campagne, allargandosi come una macchia d’olio nel territorio liberato, di mano in mano che gli eserciti alleati andavano faticosamente ricacciando i tedeschi verso il Nord. Ma era severamente proibito, con la minaccia delle più gravi pene, insinuare in pubblico che la peste era stata portata in Italia dai liberatori. Ed era pericoloso ripeterlo in privato, sia pure a bassa voce, poiché fra i tanti e schifosi effetti di quella peste, il più schifoso era la matta furia, la voluttà golosa della delazione. Appena toccato dal morbo, ognuno diventava la spia del padre e della madre, dei fratelli, dei figli, dello sposo, dell’amante, dei congiunti e degli amici più cari; ma non mai di se medesimo. Uno tra i caratteri più sorprendenti e ributtanti di quella straordinaria peste, era infatti quello di trasformare la coscienza umana in un orrido e fetido bubbone. Per combattere il morbo, le autorità militari inglesi e americane non avevano trovato altro rimedio, se non quello di proibire ai soldati alleati le zone più infette della città. Su tutti i muri si leggevano le scritte Off limits, Out of bounds, sormontate dall’aulico emblema della peste: un cerchio nero dentro il quale erano dipinte due nere sbarre incrociate, simili alle due tibie incrociate sotto il teschio nelle gualdrappe dei carri funebri. In breve tempo, tranne poche strade del centro, tutta la città fu dichiarata Off limits. Ma le zone più frequentate dai liberatori erano proprio quelle Off limits, cioè quelle più infette e perciò vietate, poiché è nella natura dell’uomo, specie dei soldati di tutti i tempi e di qualunque esercito, preferire le cose proibite a quelle permesse. Talché il contagio, o che fosse stato portato a Napoli dai liberatori, o che da questi fosse trasportato da un luogo all’altro della città, dalle zone infette a quelle sane, raggiunse ben presto una violenza terribile, cui davano un carattere nefando, quasi diabolico, i suoi grotteschi, laidi aspetti di macabra festa popolare, di kermesse funebre: quelle danze di negri ubbriachi e di donne quasi nude, o nude addirittura, nelle piazze e nelle strade, fra le rovine delle case distrutte dai bombardamenti; quel furor di bere, di mangiare, di godere, di cantare, di ridere, di scialare e di far baldoria, nel lezzo orrendo che esalavano le centinaia e centinaia di cadaveri sepolti sotto le macerie. Era, quella, una peste profondamente diversa, ma non meno orribile, dalle epidemie che nel medioevo devastavano di quando in quando l’Europa. Lo straordinario carattere di tal nuovissimo morbo era questo: che non corrompeva il corpo, ma l’anima. Le membra rimanevano, in apparenza, intatte, ma dentro l’involucro della carne sana l’anima si guastava, si disfaceva. Era una specie di peste morale, contro la quale non pareva vi fosse difesa alcuna. Le prime ad essere contagiate furon le donne, che, presso ogni nazione, sono il riparo più debole contro il vizio, e la porta aperta ad ogni male. E ciò parve cosa meravigliosa e dolorosissima, poiché durante gli anni della schiavitù e della guerra, fino al giorno della promessa e attesa liberazione, le donne, non a Napoli soltanto, ma in tutta l’Italia, in tutta l’Europa, avevano dato prova, nell’universale miseria e sciagura, di maggior dignità e di maggiore forza d’animo che non gli uomini. A Napoli, ed in ogni altro paese d’Europa, le donne non s’erano date ai tedeschi. Soltanto le prostitute avevano avuto commercio con i nemici: e neppure pubblicamente, ma di nascosto, sia per non dover subire le dure reazioni del sentimento popolare, sia perché tale commercio appariva a loro stesse il delitto più obbrobrioso che una donna potesse commettere in quegli anni. Ed ecco che, per effetto di quella schifosa peste, che per prima cosa corrompeva il senso dell’onore e della dignità femminile, la più spaventosa prostituzione aveva portato la vergogna in ogni tugurio e in ogni palazzo. Ma perché dir vergogna? Tanta era l’iniqua forza del contagio, che prostituirsi era divenuto un atto degno di lode, quasi una prova di amor di patria, e tutti, uomini e donne, lungi dall’arrossirne, parevano gloriarsi della propria e della universale abbiezione. Molti, è vero, che la disperazione faceva ingiusti, quasi scusavano la peste: insinuando che le donne prendevano pretesto dal morbo per prostituirsi, che cercavano nella peste la giustificazione della loro vergogna. Ma una più profonda conoscenza del morbo rivelò in seguito che un tale sospetto era maligno. Poiché le prime a disperarsi della loro sorte eran le donne: e molte ne ho udite io stesso piangere, e maledire quella crudelissima peste che le spingeva con invincibile violenza, contro la quale nulla poteva la loro debole virtù, a prostituirsi come cagne. Così son fatte, ahimè, le donne. Le quali spesso cercano di comprare con le lacrime la giustificazione delle loro vergogne, e la pietà. Ma questa volta è forza giustificarle, e averne pietà. Se tale era la sorte delle donne, non meno pietosa e orribile era la sorte degli uomini. Non appena contagiati, essi perdevano ogni rispetto di se medesimi: si davano ai più ignobili commerci, commettevano le più sudice viltà, si trascinavano carponi nel fango baciando le scarpe dei loro «liberatori» (disgustati di tanta, e non richiesta, abbiezione), non solo per essere perdonati delle sofferenze e delle umiliazioni sofferte negli anni della schiavitù e della guerra, ma per aver l’onore d’essere calpestati dai nuovi padroni; sputavano sulle bandiere della propria patria, vendevano pubblicamente la propria moglie, le proprie figlie, la propria madre. Tutto ciò, dicevano, per salvare la patria. E pur quelli che, all’aspetto, sembravano immuni dal morbo, si ammalavano di una nauseante malattia, che li spingeva ad arrossire di essere italiani, e perfino di appartenere al genere umano. Bisogna riconoscere che facevan di tutto per essere indegni del nome di uomini. Pochissimi erano coloro che si serbavano intatti, come se il morbo nulla potesse contro la loro coscienza: e si aggiravano timidi, spauriti, disprezzati da tutti, quali importuni testimoni dell’universale vergogna. Il sospetto, divenuto poi certezza, che la peste fosse stata portata in Europa dagli stessi liberatori, aveva suscitato nel popolo un profondo e sincero dolore. Sebbene sia antica tradizione dei vinti odiare i vincitori, il popolo napoletano non odiava gli Alleati. Li aveva attesi con ansia, li aveva accolti con gioia. La sua millenaria esperienza di guerre e d’invasioni straniere gli aveva insegnato che è costume dei vincitori ridurre i vinti in schiavitù. In luogo della schiavitù, gli Alleati gli avevano portato la libertà. E il popolo aveva subito amato quei magnifici soldati, così giovani, così belli, così ben pettinati, dai denti così bianchi e dalle labbra così rosse. In tanti secoli d’invasioni, di guerre vinte e perdute, l’Europa non aveva mai visto soldati così eleganti, puliti, cortesi, sempre rasati di fresco, dalle uniformi impeccabili, dalle cravatte annodate con perfetta cura, dalle camicie sempre di bucato, dalle scarpe eternamente nuove e lucide. Non uno strappo nei calzoni o nei gomiti, non un bottone mancante, in quei meravigliosi eserciti, nati, come Venere, dalla spuma del mare. Non un soldato che avesse un foruncolo, un dente guasto, una semplice bollicina sul viso. Non s’eran mai visti, in tutta Europa, soldati così disinfettati, senza il più piccolo microbo né fra le pieghe della pelle, né fra le pieghe della coscienza. E che mani! Bianche, ben curate, sempre protette da immacolati guanti di pelle scamosciata. Ma quel che più commuoveva il popolo napoletano era la gentilezza di modi dei liberatori, specie degli americani, la loro disinvolta urbanità, il loro senso di umanità, il loro sorriso innocente e cordiale di onesti, buoni, ingenui ragazzoni. Se è mai stato un onore perdere la guerra, era certamente un grande onore, per i napoletani, e per tutti gli altri popoli vinti dell’Europa, aver perduto la guerra di fronte a soldati così cortesi, eleganti, lindi, così buoni e generosi. Eppure, tutto ciò che quei magnifici soldati toccavano, subito si corrompeva. Gli infelici abitanti dei paesi liberati, non appena stringevano la mano ai loro liberatori, cominciavano a marcire, a puzzare. Bastava che un soldato alleato si sporgesse dalla sua jeep per sorridere a una donna, per accarezzarle fugacemente il viso, perché quella donna, serbatasi fino a quel momento dignitosa e pura, si cambiasse in una prostituta. Bastava che un bambino si mettesse in bocca una caramella offertagli da un soldato americano, perché la sua anima innocente si corrompesse. Gli stessi liberatori erano atterriti e commossi da tanto flagello. «Umana cosa è aver compassione degli afflitti» scrive il Boccaccio nella sua introduzione al Decamerone, parlando della terribile peste di Firenze del 1348. Ma i soldati alleati, specialmente gli americani, davanti al miserando spettacolo della peste di Napoli, non avevano compassione soltanto dell’infelice popolo napoletano: avevano compassione anche di se stessi. Poiché già da qualche tempo s’era insinuato nel loro animo ingenuo e buono il sospetto che il terribile contagio era nel loro sorriso onesto e timido, nel loro sguardo pieno di umana simpatia, nelle loro affettuose carezze. La peste era nella loro pietà, nel loro stesso desiderio di aiutare quello sventurato popolo, di alleviare le sue miserie, di soccorrerlo in quella tremenda sciagura. Il morbo era nella loro stessa mano tesa fraternamente a quel popolo vinto. Forse era scritto che la libertà dell’Europa dovesse nascere non dalla liberazione, ma dalla peste. Forse era scritto che, come la liberazione era nata dalle sofferenze della schiavitù e della guerra, la libertà dovesse nascere dalle sofferenze, nuove e terribili, della peste portata dalla liberazione. La libertà costa caro. Molto più caro della schiavitù. E non si paga né con l’oro, né col sangue, né con i più nobili sacrifici: ma con la vigliaccheria, la prostituzione, il tradimento, con tutto il marciume dell’animo umano.

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