Jane Eyre Charlotte Bronte
(…) La vallata boscosa, ove era situata Lowood, era un
focolaio di nebbia e di miasmi, che, sviluppandosi con la primavera, invasero
l'orfanotrofio e diffusero il tifo nell'affollata aula scolastica e nel
dormitorio, così che, arrivato il maggio, il collegio si trasformò in un
ospedale. La cattiva nutrizione e i raffreddori trascurati avevano predisposto
la maggior parte delle allieve al contagio. Quarantacinque su ottanta ragazze
caddero ammalate contemporaneamente. Le lezioni furono interrotte e la
disciplina si allentò. Le poche che si mantenevano sane ebbero una libertà
quasi illimitata; perché il medico insisteva sulla necessità di molto esercizio
fisico per preservarle dalla malattia; e anche se fosse stato altrimenti,
nessuno aveva il tempo di sorvegliarle. La signorina Temple era completamente
assorbita dalle cure intorno alle ammalate. Viveva nell'infermeria, non
lasciando mai le ammalate, eccetto di notte per concedersi qualche ora di
riposo. Le maestre erano completamente occupate a far bagagli e a preparare la
partenza di quelle ragazze che avevano la fortuna di avere amici e parenti che
le togliessero da quel luogo d'infezione. Molte, che avevano già presa
l'infezione, andarono a casa solamente per morire. Altre morirono nella scuola,
e furono sepolte subito e senza pompa, poiché la natura della malattia non
permetteva rinvìi. Mentre la malattia era diventata un'abitante fissa di
Lowood, e la morte una visitatrice frequente, mentre entro le sue mura
regnavano tristezza e paura, mentre le sue stanze e i suoi corridoi puzzavano
di ospedale, e le medicine tentavano invano di vincere il dilagare della
mortalità, maggio brillava fuori sotto un cielo senza nuvole per le colline
ripide e per i boschi ameni. Anche il giardino era splendente di fiori: i
malvoni si drizzavano come alberi, i gigli si erano aperti, i tulipani e le
rose erano in boccio; le bordure delle aiuole erano ravvivate da staticee rosa
e da margherite doppie color cremisi; le rose canine spandevano notte e giorno
il loro profumo di spezie e mele. E tutti questi tesori odorosi erano inutili
alla maggior parte delle ospiti di Lowood, se non per fornire di tanto in tanto
un mazzetto di erbe e fiori per una bara. Ma io, come le altre che stavano
bene, godevo in pieno le bellezze della stagione. Avevamo il permesso di vagare
per il bosco come zingare dalla mattina alla sera; facevamo quel che ci pareva,
andavamo dove ci piaceva. Ora il signor Brocklehurst e la sua famiglia non
venivano più a Lowood; l'amministrazione non era più tanto controllata; la
bisbetica amministratrice era partita, spaventata dalla paura del contagio, e
quella che le era successa, ch'era stata sorvegliante al dispensario di Lowton,
e che non era al corrente delle abitudini della sua nuova residenza, ci dava da
mangiare con relativa prodigalità. Inoltre c'erano meno persone da mantenere;
le malate mangiavano poco, e i nostri piatti erano più colmi. Quando non c'era
tempo per preparare un pasto normale, come avveniva spesso, ci davano un grosso
pezzo di pasticcio, o una buona porzione di pane e formaggio, che portavamo con
noi nel bosco, dove cercavamo il luogo che più ci piaceva per pranzare
sontuosamente. Il mio posto favorito era una pietra larga e liscia, che
emergeva bianca e asciutta proprio nel mezzo del torrente e che si poteva
raggiungere solo passando a guado, impresa che compivo a piedi nudi. Era
abbastanza larga per accogliere comodamente me e un'altra ragazza, e in quei
giorni la mia compagna era una certa Mary Ann Wilson, una creatura fine e
osservatrice, la cui compagnia gustavo sia perché era spiritosa e originale,
sia perché con lei mi trovavo a mio agio. Era maggiore di me di qualche anno, e
aveva maggiore conoscenza del mondo, per cui godevo ascoltare quel che mi
raccontava. In sua compagnia sentivo appagata la mia curiosità. Era indulgente
coi miei errori e non mi contraddiceva. Essa aveva il gusto del raccontare, io
dell'analizzare. A lei piaceva spiegare e a me chiedere; e così andavamo
d'amore e d'accordo, ricavando dalla nostra amicizia, se questa non servì a
migliorarci, soddisfazione reciproca. E nel frattempo dov'era Helen Burns?
Perché non trascorrevo con lei quelle dolci giornate di libertà? L'avevo
dimenticata? O avevo così poco carattere da essermi stancata della sua eletta
compagnia? Certamente Mary Ann Wilson era inferiore alla mia prima amica.
Poteva solo raccontarmi delle storie divertenti e riferirmi delle chiacchiere
interessanti; mentre, come ho detto, Helen aveva il dono di offrire, a quelli
che godevano il privilegio della sua conversazione, il piacere di cose assai
più spirituali. Lo capivo e sentivo; e benché fossi un essere imperfetto, con
molti difetti e pochi meriti, non mi stancai mai di Helen Burns, non cessai mai
di sentire per lei un affetto tenero e rispettoso quale il mio cuore non ha mai
sentito per nessuno. Come poteva essere altrimenti, quando Helen sempre e in
ogni circostanza mi dimostrò un'amicizia tranquilla e fedele, che non fu mai
turbata né da capricci né da discordie? Ma in quel momento Helen era ammalata.
Da alcune settimane era stata sottratta alla mia vista e portata in non so
quale camera di sopra. Non si trovava, mi era stato detto, nell'infermeria
insieme alle ammalate febbricitanti, perché era ammalata di tubercolosi, e non
di tifo. E, nella mia ignoranza, immaginavo la tubercolosi un male benigno che
il tempo e le cure avrebbero guarito. Ero confermata in questa idea dal fatto
che una o due volte era venuta da basso in qualche caldo pomeriggio di sole,
accompagnata in giardino dalla signorina Temple. Ma in queste occasioni non
avevo il permesso di andare a parlarle. La vedevo soltanto dalla finestra
dell'aula scolastica, e non la distinguevo bene perché era tutta infagottata e
sedeva lontano sotto la veranda. Una sera, al principio di giugno, ero rimasta
fino a tardi nel bosco con Mary Ann. Separate dalle altre, come era nostro
solito, c'eravamo allontanate; tanto allontanate che avevamo perduto la strada,
e avevamo dovuto chiederla a un uomo e una donna che vivevano in una casa solitaria,
e custodivano un branco di porci quasi selvaggi, che si nutrivano delle bacche
del bosco. Al ritorno, la luna era già spuntata. Scorgemmo il cavallino del
dottore fermo dinanzi alla porta del giardino. Mary Ann mi fece notare che
doveva esserci qualcuna molto grave, per essere andati a chiamare il signor
Bates a quell'ora tarda. Essa entrò in casa, io rimasi indietro alcuni minuti
in giardino, per piantare un mazzo di radici che avevo strappate nella foresta,
e che, temevo, sarebbero appassite se le avessi lasciate fino al mattino. Fatto
questo mi attardai ancora un poco; i fiori, al cadere della rugiada,
profumavano più intensamente. Era una serata così dolce, così serena e calda!
L'occidente, ancora tutto in fiamme, prometteva per il domani un'altra bella
giornata. La luna sorgeva maestosa sul solenne oriente. Stavo osservando questo
spettacolo, e godendone come può fare una bambina, allorché un pensiero
completamente nuovo mi colpì la mente. «Che tristezza in questo momento stare
in un letto ammalati ed essere in pericolo di morire! Al mondo si sta bene...
ed è terribile doverlo lasciare per andare chissà dove!» E poi il mio spirito
fece il suo primo grande sforzo per comprendere quello che gli era stato
insegnato sul cielo e sull'inferno, e per la prima volta indietreggiò deluso,
per la prima volta, guardando intorno, non vide da ogni parte che un abisso
insondabile. Sentiva solo un punto fermo... il presente; tutto il resto era
informe e vuoto; e tremò al pensiero di andar barcollando, e affondare nel
caos. Mentre stavo così meditando, sentii aprire la porta di fronte, e vidi
uscire il signor Bates accompagnato da un'infermiera. Questa rimase a guardarlo
che saliva a cavallo e partiva, e stava chiudendo la porta; ma io corsi da lei.
«Come sta Helen Burns?» «Non molto bene», fu la risposta. «Il signor Bates è
venuto per vederla?» «Sì.» «E che cosa ha detto?» «Ha detto che non rimarrà qui
a lungo.» Questa frase, pronunciata il giorno avanti, mi avrebbe soltanto detto
che sarebbe stata mandata nel Northumberland, a casa sua. Non avrei sospettato
che significava che stava per morire. Ma in quel momento la capii
immediatamente. Appariva chiaro al mio spirito che Helen Burns viveva i suoi
ultimi giorni su questa terra, e che stava per essere trasportata nel regno
delle anime, se tal regno esisteva. Tremai d'orrore, poi provai la trafittura
del dolore, poi il desiderio... il bisogno di vederla; e chiesi in quale stanza
si trovava. «È nella stanza della signorina Temple», disse l'infermiera. «Posso
venir su a parlarle?» «Oh, no, bambina! Non è possibile; e ormai è tempo che tu
rientri, ti buscherai la febbre, se ti attardi fuori quando la rugiada è
caduta.» L'infermiera chiuse la porta. Mi diressi per un passaggio laterale che
conduceva nell'aula. Arrivai giusto in tempo; erano le nove, e la signorina
Miller stava facendo l'appello delle allieve prima di andare a letto. Circa due
ore dopo - potevano essere quasi le undici -, non riuscendo a prendere sonno e
supponendo, dal gran silenzio che regnava nel dormitorio, che le mie compagne
fossero tutte profondamente addormentate, mi alzai senza far rumore, infilai il
vestito sopra la camicia da notte e, scalza, uscii dalla stanza, e mi diressi
verso la camera della signorina Temple. Era situata esattamente all'altra estremità
dell'edificio; ma conoscevo la strada, e il chiarore della luna estiva mi
metteva in grado di trovarla senza difficoltà. Un odore di canfora e di aceto
bruciato mi avvertì che passavo vicino all'infermeria; passai dinanzi alla
porta di corsa, temendo che l'infermiera di guardia la notte mi sentisse.
Temevo che, se mi avesse scoperta, mi avrebbe rimandata indietro. Invece dovevo
a ogni costo vedere Helen... dovevo abbracciarla prima che morisse... dovevo
darle l'ultimo bacio... scambiare con lei un'ultima parola. Discesi una scala,
attraversai una parte del pianterreno, riuscii ad aprire e a chiudere due porte
senza far rumore, e raggiunsi un'altra rampa di scale; salii e mi trovai
proprio di fronte alla camera della signorina Temple. Dal buco della serratura
e da sotto la porta filtrava la luce; una profonda tranquillità regnava
all'intorno. Avvicinandomi, vidi che la porta era leggermente socchiusa,
probabilmente per far entrare un po' di aria fresca nella camera dell'ammalata.
Combattuta fra l'esitazione e l'impazienza, e con l'animo e i sensi tesi sotto
un'acuta angoscia, spinsi la porta e guardai dentro. I miei occhi cercavano
Helen, e temevano di trovare la morte. Accanto al letto della signorina Temple,
e per metà velato da tende bianche, v'era un lettino. Vidi i contorni di una
forma sotto le coperte, ma il viso mi era nascosto dalle tendine. L'infermiera
che mi aveva parlato in giardino stava in una poltrona addormentata. Una
candela non smoccolata bruciava languidamente sul tavolino. La signorina Temple
non c'era. Seppi dopo che era stata chiamata in infermeria per un'ammalata in
delirio. Avanzai, poi mi fermai accanto al lettino. Avevo la mano posata sulla
tenda, ma decisi di parlare prima di tirarla. Indietreggiai ancora nella paura
di vedere un cadavere. «Helen!», sussurrai a bassa voce, «sei sveglia?» Essa si
mosse, spinse indietro la tendina, e vidi il suo volto pallido, consunto, ma
perfettamente calmo; mi sembrava così poco cambiata che le mie paure si
dissiparono istantaneamente. «Possibile che sia tu Jane?», chiese con la sua
voce dolce. «Oh!», pensai, «non sta per morire; si sono sbagliati; se stesse
per morire non potrebbe parlare e aver l'aria così calma!» Salii sul suo
lettino e la baciai. Aveva la fronte fredda, e le guance fredde fredde e
scarne, e così le mani e i polsi: ma sorrideva come una volta. «Perché sei
venuta qui, Jane? Sono passate le undici; ho sentito suonare l'ora da qualche
minuto.» «Sono venuta a vederti, Helen; ho sentito che sei molto ammalata, e
non potevo addormentarmi se prima non ti parlavo.» «Sei venuta a dirmi addio,
allora; forse sei giusto in tempo.» «Stai per andare in qualche luogo, Helen?
Stai per andare a casa?» «Sì; alla dimora tanto sospirata... la mia ultima
dimora.» «No, no, Helen!» Mi fermai angosciata. Mentre cercavo di ingoiare le
lacrime, Helen fu presa da un accesso di tosse; ciononostante l'infermiera non
si destò. Quando fu finito, rimase alcuni minuti spossata; poi mormorò: «Jane,
hai i piedini nudi; sdraiati e copriti con la mia imbottita». Mi sdraiai; essa
mi circondò con il braccio, e mi strinse vicino a sé. Dopo un lungo silenzio
riprese, sempre in un bisbiglio: «Sono molto felice, Jane; e quando saprai che
sono morta, devi essere tranquilla e non addolorarti; non v'è nessuna ragione
di addolorarsi. Tutti dobbiamo morire un giorno, e la malattia che mi spegne
non fa soffrire; è lenta e dolce. Sento lo spirito in pace. Non c'è nessuno che
mi rimpiangerà molto. Non ho che mio padre, che si è risposato da poco, e non
sentirà la mia mancanza. Col morire giovane, eviterò delle grandi sofferenze.
Non avevo le qualità o l'ingegno per riuscire nel mondo. Avrei sbagliato
continuamente». «Ma dove andrai, Helen? Puoi vederlo, saperlo?» «Io credo; ho
la fede. Vado da Dio.» «Dov'è Dio? Chi è Dio?» «Colui che ha creato me e te,
che non distruggerà mai quel che ha creato. Mi rimetto completamente alla sua
potenza, e confido interamente nella sua bontà. Conto le ore nell'attesa di
quella che mi porterà a Lui, e me Lo rivelerà.» «Allora, sei sicura, Helen, che
il paradiso esista, e che le nostre anime vi andranno, quando moriremo?» «Sono
sicura che c'è uno stato futuro; credo che Dio è buono. Posso affidare a Lui la
parte immortale del mio essere, senza alcuna apprensione. Dio è mio Padre; Dio
è mio amico. Io L'amo, credo che Egli mi ami.» «E ti rivedrò quando morirò?»
«Verrai nello stesso regno di felicità. Senza dubbio sarai accolta dallo stesso
Padre universale, cara Jane.» Feci un'altra domanda; ma questa volta solo
mentalmente. «Dov'è questo regno? Esiste?» E strinsi le braccia intorno a
Helen; essa mi sembrava più cara che mai; mi sembrava di non poterla lasciare
andare. Stavo con la faccia nascosta contro la sua spalla. Un momento dopo essa
disse in un tono dolcissimo: «Come mi sento bene! L'ultimo accesso di tosse mi
ha stancata un poco; ho voglia di dormire; ma non lasciarmi, Jane, mi fa
piacere sentirti vicina». «Rimarrò con te, cara Helen. Nessuno mi manderà via.»
«Hai caldo, cara?» «Sì.» «Buona notte, Jane.» «Buona notte, Helen.» Ci
baciammo, e cademmo tutte e due addormentate. Quando mi destai era giorno. Un
movimento insolito mi scosse dal mio torpore. Guardai. Ero sulle braccia di
qualcuno. L'infermiera mi sorreggeva. Mi trasportava attraverso il corridoio di
nuovo nel dormitorio. Non fui rimproverata per aver lasciato il letto; c'erano
altre cose a cui pensare. Non fu data allora alcuna spiegazione alle mie
domande; ma un paio di giorni dopo seppi che la signorina Temple, nel ritornare
nella sua camera all'alba, mi aveva trovata distesa sul lettino. Avevo il viso
contro la spalla di Helen Burns, e le braccia intorno al suo collo. Io ero
addormentata e Helen era morta. (…) |