fr2

Lunario dei giorni di paura


Trentaduesima settimana

eyre

 

Jane Eyre

Charlotte Bronte


(…) La vallata boscosa, ove era situata Lowood, era un focolaio di nebbia e di miasmi, che, sviluppandosi con la primavera, invasero l'orfanotrofio e diffusero il tifo nell'affollata aula scolastica e nel dormitorio, così che, arrivato il maggio, il collegio si trasformò in un ospedale. La cattiva nutrizione e i raffreddori trascurati avevano predisposto la maggior parte delle allieve al contagio. Quarantacinque su ottanta ragazze caddero ammalate contemporaneamente. Le lezioni furono interrotte e la disciplina si allentò. Le poche che si mantenevano sane ebbero una libertà quasi illimitata; perché il medico insisteva sulla necessità di molto esercizio fisico per preservarle dalla malattia; e anche se fosse stato altrimenti, nessuno aveva il tempo di sorvegliarle. La signorina Temple era completamente assorbita dalle cure intorno alle ammalate. Viveva nell'infermeria, non lasciando mai le ammalate, eccetto di notte per concedersi qualche ora di riposo. Le maestre erano completamente occupate a far bagagli e a preparare la partenza di quelle ragazze che avevano la fortuna di avere amici e parenti che le togliessero da quel luogo d'infezione. Molte, che avevano già presa l'infezione, andarono a casa solamente per morire. Altre morirono nella scuola, e furono sepolte subito e senza pompa, poiché la natura della malattia non permetteva rinvìi. Mentre la malattia era diventata un'abitante fissa di Lowood, e la morte una visitatrice frequente, mentre entro le sue mura regnavano tristezza e paura, mentre le sue stanze e i suoi corridoi puzzavano di ospedale, e le medicine tentavano invano di vincere il dilagare della mortalità, maggio brillava fuori sotto un cielo senza nuvole per le colline ripide e per i boschi ameni. Anche il giardino era splendente di fiori: i malvoni si drizzavano come alberi, i gigli si erano aperti, i tulipani e le rose erano in boccio; le bordure delle aiuole erano ravvivate da staticee rosa e da margherite doppie color cremisi; le rose canine spandevano notte e giorno il loro profumo di spezie e mele. E tutti questi tesori odorosi erano inutili alla maggior parte delle ospiti di Lowood, se non per fornire di tanto in tanto un mazzetto di erbe e fiori per una bara. Ma io, come le altre che stavano bene, godevo in pieno le bellezze della stagione. Avevamo il permesso di vagare per il bosco come zingare dalla mattina alla sera; facevamo quel che ci pareva, andavamo dove ci piaceva. Ora il signor Brocklehurst e la sua famiglia non venivano più a Lowood; l'amministrazione non era più tanto controllata; la bisbetica amministratrice era partita, spaventata dalla paura del contagio, e quella che le era successa, ch'era stata sorvegliante al dispensario di Lowton, e che non era al corrente delle abitudini della sua nuova residenza, ci dava da mangiare con relativa prodigalità. Inoltre c'erano meno persone da mantenere; le malate mangiavano poco, e i nostri piatti erano più colmi. Quando non c'era tempo per preparare un pasto normale, come avveniva spesso, ci davano un grosso pezzo di pasticcio, o una buona porzione di pane e formaggio, che portavamo con noi nel bosco, dove cercavamo il luogo che più ci piaceva per pranzare sontuosamente. Il mio posto favorito era una pietra larga e liscia, che emergeva bianca e asciutta proprio nel mezzo del torrente e che si poteva raggiungere solo passando a guado, impresa che compivo a piedi nudi. Era abbastanza larga per accogliere comodamente me e un'altra ragazza, e in quei giorni la mia compagna era una certa Mary Ann Wilson, una creatura fine e osservatrice, la cui compagnia gustavo sia perché era spiritosa e originale, sia perché con lei mi trovavo a mio agio. Era maggiore di me di qualche anno, e aveva maggiore conoscenza del mondo, per cui godevo ascoltare quel che mi raccontava. In sua compagnia sentivo appagata la mia curiosità. Era indulgente coi miei errori e non mi contraddiceva. Essa aveva il gusto del raccontare, io dell'analizzare. A lei piaceva spiegare e a me chiedere; e così andavamo d'amore e d'accordo, ricavando dalla nostra amicizia, se questa non servì a migliorarci, soddisfazione reciproca. E nel frattempo dov'era Helen Burns? Perché non trascorrevo con lei quelle dolci giornate di libertà? L'avevo dimenticata? O avevo così poco carattere da essermi stancata della sua eletta compagnia? Certamente Mary Ann Wilson era inferiore alla mia prima amica. Poteva solo raccontarmi delle storie divertenti e riferirmi delle chiacchiere interessanti; mentre, come ho detto, Helen aveva il dono di offrire, a quelli che godevano il privilegio della sua conversazione, il piacere di cose assai più spirituali. Lo capivo e sentivo; e benché fossi un essere imperfetto, con molti difetti e pochi meriti, non mi stancai mai di Helen Burns, non cessai mai di sentire per lei un affetto tenero e rispettoso quale il mio cuore non ha mai sentito per nessuno. Come poteva essere altrimenti, quando Helen sempre e in ogni circostanza mi dimostrò un'amicizia tranquilla e fedele, che non fu mai turbata né da capricci né da discordie? Ma in quel momento Helen era ammalata. Da alcune settimane era stata sottratta alla mia vista e portata in non so quale camera di sopra. Non si trovava, mi era stato detto, nell'infermeria insieme alle ammalate febbricitanti, perché era ammalata di tubercolosi, e non di tifo. E, nella mia ignoranza, immaginavo la tubercolosi un male benigno che il tempo e le cure avrebbero guarito. Ero confermata in questa idea dal fatto che una o due volte era venuta da basso in qualche caldo pomeriggio di sole, accompagnata in giardino dalla signorina Temple. Ma in queste occasioni non avevo il permesso di andare a parlarle. La vedevo soltanto dalla finestra dell'aula scolastica, e non la distinguevo bene perché era tutta infagottata e sedeva lontano sotto la veranda. Una sera, al principio di giugno, ero rimasta fino a tardi nel bosco con Mary Ann. Separate dalle altre, come era nostro solito, c'eravamo allontanate; tanto allontanate che avevamo perduto la strada, e avevamo dovuto chiederla a un uomo e una donna che vivevano in una casa solitaria, e custodivano un branco di porci quasi selvaggi, che si nutrivano delle bacche del bosco. Al ritorno, la luna era già spuntata. Scorgemmo il cavallino del dottore fermo dinanzi alla porta del giardino. Mary Ann mi fece notare che doveva esserci qualcuna molto grave, per essere andati a chiamare il signor Bates a quell'ora tarda. Essa entrò in casa, io rimasi indietro alcuni minuti in giardino, per piantare un mazzo di radici che avevo strappate nella foresta, e che, temevo, sarebbero appassite se le avessi lasciate fino al mattino. Fatto questo mi attardai ancora un poco; i fiori, al cadere della rugiada, profumavano più intensamente. Era una serata così dolce, così serena e calda! L'occidente, ancora tutto in fiamme, prometteva per il domani un'altra bella giornata. La luna sorgeva maestosa sul solenne oriente. Stavo osservando questo spettacolo, e godendone come può fare una bambina, allorché un pensiero completamente nuovo mi colpì la mente. «Che tristezza in questo momento stare in un letto ammalati ed essere in pericolo di morire! Al mondo si sta bene... ed è terribile doverlo lasciare per andare chissà dove!» E poi il mio spirito fece il suo primo grande sforzo per comprendere quello che gli era stato insegnato sul cielo e sull'inferno, e per la prima volta indietreggiò deluso, per la prima volta, guardando intorno, non vide da ogni parte che un abisso insondabile. Sentiva solo un punto fermo... il presente; tutto il resto era informe e vuoto; e tremò al pensiero di andar barcollando, e affondare nel caos. Mentre stavo così meditando, sentii aprire la porta di fronte, e vidi uscire il signor Bates accompagnato da un'infermiera. Questa rimase a guardarlo che saliva a cavallo e partiva, e stava chiudendo la porta; ma io corsi da lei. «Come sta Helen Burns?» «Non molto bene», fu la risposta. «Il signor Bates è venuto per vederla?» «Sì.» «E che cosa ha detto?» «Ha detto che non rimarrà qui a lungo.» Questa frase, pronunciata il giorno avanti, mi avrebbe soltanto detto che sarebbe stata mandata nel Northumberland, a casa sua. Non avrei sospettato che significava che stava per morire. Ma in quel momento la capii immediatamente. Appariva chiaro al mio spirito che Helen Burns viveva i suoi ultimi giorni su questa terra, e che stava per essere trasportata nel regno delle anime, se tal regno esisteva. Tremai d'orrore, poi provai la trafittura del dolore, poi il desiderio... il bisogno di vederla; e chiesi in quale stanza si trovava. «È nella stanza della signorina Temple», disse l'infermiera. «Posso venir su a parlarle?» «Oh, no, bambina! Non è possibile; e ormai è tempo che tu rientri, ti buscherai la febbre, se ti attardi fuori quando la rugiada è caduta.» L'infermiera chiuse la porta. Mi diressi per un passaggio laterale che conduceva nell'aula. Arrivai giusto in tempo; erano le nove, e la signorina Miller stava facendo l'appello delle allieve prima di andare a letto. Circa due ore dopo - potevano essere quasi le undici -, non riuscendo a prendere sonno e supponendo, dal gran silenzio che regnava nel dormitorio, che le mie compagne fossero tutte profondamente addormentate, mi alzai senza far rumore, infilai il vestito sopra la camicia da notte e, scalza, uscii dalla stanza, e mi diressi verso la camera della signorina Temple. Era situata esattamente all'altra estremità dell'edificio; ma conoscevo la strada, e il chiarore della luna estiva mi metteva in grado di trovarla senza difficoltà. Un odore di canfora e di aceto bruciato mi avvertì che passavo vicino all'infermeria; passai dinanzi alla porta di corsa, temendo che l'infermiera di guardia la notte mi sentisse. Temevo che, se mi avesse scoperta, mi avrebbe rimandata indietro. Invece dovevo a ogni costo vedere Helen... dovevo abbracciarla prima che morisse... dovevo darle l'ultimo bacio... scambiare con lei un'ultima parola. Discesi una scala, attraversai una parte del pianterreno, riuscii ad aprire e a chiudere due porte senza far rumore, e raggiunsi un'altra rampa di scale; salii e mi trovai proprio di fronte alla camera della signorina Temple. Dal buco della serratura e da sotto la porta filtrava la luce; una profonda tranquillità regnava all'intorno. Avvicinandomi, vidi che la porta era leggermente socchiusa, probabilmente per far entrare un po' di aria fresca nella camera dell'ammalata. Combattuta fra l'esitazione e l'impazienza, e con l'animo e i sensi tesi sotto un'acuta angoscia, spinsi la porta e guardai dentro. I miei occhi cercavano Helen, e temevano di trovare la morte. Accanto al letto della signorina Temple, e per metà velato da tende bianche, v'era un lettino. Vidi i contorni di una forma sotto le coperte, ma il viso mi era nascosto dalle tendine. L'infermiera che mi aveva parlato in giardino stava in una poltrona addormentata. Una candela non smoccolata bruciava languidamente sul tavolino. La signorina Temple non c'era. Seppi dopo che era stata chiamata in infermeria per un'ammalata in delirio. Avanzai, poi mi fermai accanto al lettino. Avevo la mano posata sulla tenda, ma decisi di parlare prima di tirarla. Indietreggiai ancora nella paura di vedere un cadavere. «Helen!», sussurrai a bassa voce, «sei sveglia?» Essa si mosse, spinse indietro la tendina, e vidi il suo volto pallido, consunto, ma perfettamente calmo; mi sembrava così poco cambiata che le mie paure si dissiparono istantaneamente. «Possibile che sia tu Jane?», chiese con la sua voce dolce. «Oh!», pensai, «non sta per morire; si sono sbagliati; se stesse per morire non potrebbe parlare e aver l'aria così calma!» Salii sul suo lettino e la baciai. Aveva la fronte fredda, e le guance fredde fredde e scarne, e così le mani e i polsi: ma sorrideva come una volta. «Perché sei venuta qui, Jane? Sono passate le undici; ho sentito suonare l'ora da qualche minuto.» «Sono venuta a vederti, Helen; ho sentito che sei molto ammalata, e non potevo addormentarmi se prima non ti parlavo.» «Sei venuta a dirmi addio, allora; forse sei giusto in tempo.» «Stai per andare in qualche luogo, Helen? Stai per andare a casa?» «Sì; alla dimora tanto sospirata... la mia ultima dimora.» «No, no, Helen!» Mi fermai angosciata. Mentre cercavo di ingoiare le lacrime, Helen fu presa da un accesso di tosse; ciononostante l'infermiera non si destò. Quando fu finito, rimase alcuni minuti spossata; poi mormorò: «Jane, hai i piedini nudi; sdraiati e copriti con la mia imbottita». Mi sdraiai; essa mi circondò con il braccio, e mi strinse vicino a sé. Dopo un lungo silenzio riprese, sempre in un bisbiglio: «Sono molto felice, Jane; e quando saprai che sono morta, devi essere tranquilla e non addolorarti; non v'è nessuna ragione di addolorarsi. Tutti dobbiamo morire un giorno, e la malattia che mi spegne non fa soffrire; è lenta e dolce. Sento lo spirito in pace. Non c'è nessuno che mi rimpiangerà molto. Non ho che mio padre, che si è risposato da poco, e non sentirà la mia mancanza. Col morire giovane, eviterò delle grandi sofferenze. Non avevo le qualità o l'ingegno per riuscire nel mondo. Avrei sbagliato continuamente». «Ma dove andrai, Helen? Puoi vederlo, saperlo?» «Io credo; ho la fede. Vado da Dio.» «Dov'è Dio? Chi è Dio?» «Colui che ha creato me e te, che non distruggerà mai quel che ha creato. Mi rimetto completamente alla sua potenza, e confido interamente nella sua bontà. Conto le ore nell'attesa di quella che mi porterà a Lui, e me Lo rivelerà.» «Allora, sei sicura, Helen, che il paradiso esista, e che le nostre anime vi andranno, quando moriremo?» «Sono sicura che c'è uno stato futuro; credo che Dio è buono. Posso affidare a Lui la parte immortale del mio essere, senza alcuna apprensione. Dio è mio Padre; Dio è mio amico. Io L'amo, credo che Egli mi ami.» «E ti rivedrò quando morirò?» «Verrai nello stesso regno di felicità. Senza dubbio sarai accolta dallo stesso Padre universale, cara Jane.» Feci un'altra domanda; ma questa volta solo mentalmente. «Dov'è questo regno? Esiste?» E strinsi le braccia intorno a Helen; essa mi sembrava più cara che mai; mi sembrava di non poterla lasciare andare. Stavo con la faccia nascosta contro la sua spalla. Un momento dopo essa disse in un tono dolcissimo: «Come mi sento bene! L'ultimo accesso di tosse mi ha stancata un poco; ho voglia di dormire; ma non lasciarmi, Jane, mi fa piacere sentirti vicina». «Rimarrò con te, cara Helen. Nessuno mi manderà via.» «Hai caldo, cara?» «Sì.» «Buona notte, Jane.» «Buona notte, Helen.» Ci baciammo, e cademmo tutte e due addormentate. Quando mi destai era giorno. Un movimento insolito mi scosse dal mio torpore. Guardai. Ero sulle braccia di qualcuno. L'infermiera mi sorreggeva. Mi trasportava attraverso il corridoio di nuovo nel dormitorio. Non fui rimproverata per aver lasciato il letto; c'erano altre cose a cui pensare. Non fu data allora alcuna spiegazione alle mie domande; ma un paio di giorni dopo seppi che la signorina Temple, nel ritornare nella sua camera all'alba, mi aveva trovata distesa sul lettino. Avevo il viso contro la spalla di Helen Burns, e le braccia intorno al suo collo. Io ero addormentata e Helen era morta.

(…)




















rotusitala@gmail.com