L'Iliade
L'Ira di Achille
L’ira canta, o dea, l’ira di Achille figlio di Peleo, l’ira funesta che
ha inflitto agli Achei infiniti dolori, che tante anime forti ha gettato
nell’Ade, tanti corpi di eroi ha dato in pasto ai cani e agli uccelli. Si
compiva il piano di Zeus dal giorno in cui la contesa divise fra loro
Agamennone, signore di popoli, e il divino Achille. Chi mai, fra gli dei, li
provocò alla contesa? Il figlio di Zeus e di Latona: irato con Agamennone,
seminò tra l’esercito una morbo mortale; morivano gli uomini perché il figlio
di Atreo aveva offeso il sacerdote Crise, che era venuto alle veloci navi dei
Danai per liberare sua figlia portando moltissimi doni; intorno allo scettro
dorato aveva la bianca benda di Apollo, signore dell’arco, e supplicava tutti
gli Achei ma soprattutto gli Atridi, condottieri di eserciti: «Figli di Atreo,
e voi, Achei dalle belle armature, io spero che gli dei che in Olimpo hanno
dimora vi concedano di distruggere la città di Priamo e di tornare felicemente
a casa; ma liberate mia figlia, accettate il riscatto e abbiate rispetto di
Apollo, il signore dei dardi, il figlio di Zeus». Approvarono a una voce tutti
gli Achei: il sacerdote fosse onorato, si accettassero gli splendidi doni. Ma
la cosa non piacque al figlio di Atreo, Agamennone, che lo scacciò brutalmente
con minacciose parole: «Che non ti colga più, vecchio, presso le concave navi,
non indugiare ora e non ritornare più tardi; a nulla ti serviranno lo scettro e
l’insegna del dio. Tua figlia, non te la darò: invecchierà prima ad Argo, nella
mia casa, lontano dalla sua patria, lavorando al telaio e dividendo il letto
con me. Vattene ora, e non irritarmi, se vuoi salva la vita». Disse, obbedì il
vecchio atterrito. In silenzio si avviò lungo la riva del mare sonoro; ma poi,
in un luogo appartato, fervidamente pregava Apollo, il dio sovrano, figlio di
Latona dai bei capelli: «Ascoltami, dio dall’arco d’argento, che proteggi Crisa
e la divina Cilla, che regni su Tenedo, o Sminteo, se ti è gradito il tempio
che un giorno ho costruito per te, se per te un tempo ho bruciato grasse cosce
di tori e di capre, esaudisci il mio desiderio: scontino i Danai queste mie
lacrime con le tue frecce». Così pregava e Febo Apollo lo udì. Dalle vette
d’Olimpo, discese, con l’ira nel cuore; sulle spalle portava l’arco e la chiusa
faretra; risuonavano i dardi sulle sue spalle mentre avanzava in preda alla
collera; veniva avanti, simile alla notte. Si fermò lontano dalle navi e scagliò
una freccia: emise un suono sinistro l’arco d’argento; prima colpiva i muli e i
cani veloci, ma poi prese di mira gli uomini con il suo dardo acuto. Fitti e
senza tregua ardevano i fuochi dei roghi. Per nove giorni volarono per il campo
le frecce del dio. Il decimo giorno Achille raccolse l’esercito in assemblea.
Era, la dea dalle bianche braccia, gli ispirò questo consiglio: soffriva per
gli Achei che vedeva morire. Quando furono tutti raccolti e riuniti, fra di
loro si alzò a parlare Achille dai piedi veloci: «Figlio di Atreo, penso che
ora davvero dovremo tornarcene indietro, se mai sfuggiremo alla morte, se
guerra e peste insieme non piegheranno gli Achei. Interroghiamo un profeta, un
sacerdote, uno che interpreta i sogni – il sogno è inviato da Zeus – che ci
riveli perché Febo Apollo è tanto adirato – se lamenta un voto mancato o
un’ecatombe – e se vuole accettare in cambio l’offerta di agnelli e di capre
perfette, e allontanare da noi questo flagello». Così disse, e si mise a
sedere. Si alzò allora Calcante figlio di Testore, il più famoso fra gli indovini. Lui conosceva presente passato e futuro e con la sua arte profetica, dono di Apollo, aveva guidato fino a Ilio le navi dei Danai. A loro parlò con saggezza e disse: «Tu mi dai ordine, Achille amato da Zeus, di rivelare la causa dell’ira di Apollo, signore dell’arco; io te la dirò. Ma tu giura e prometti che sarai pronto a difendermi con le parole e coi fatti. Perché io credo che un uomo si adirerà, un uomo che su tutti gli Achei ha potere e al quale gli Achei obbediscono. Un re ha sempre la meglio quando si adira con chi gli è inferiore. E se pure al momento reprime la collera, mantiene il rancore nell’animo finché non l’ha soddisfatto. Dimmi dunque se salverai la mia vita». A lui rispose Achille dai piedi veloci: «Non aver timore e dì quello che sai. Nessuno – in nome di Apollo caro a Zeus col favore del quale tu, Calcante, riveli ai Danai i voleri divini – nessuno, finché avrò vita su questa terra, nessuno fra tutti gli Achei oserà alzare la mano su di te presso le concave navi, neppure Agamennone, se è a lui che alludi, lui che si vanta di essere il più forte di tutti gli Achei». Allora il nobile profeta si fece coraggio e
disse: «Non per un voto né per un’ecatombe è irato il dio, ma a causa del sacerdote
che Agamennone ha offeso: non ne ha liberato la figlia, non ha accettato il
riscatto; per questo il signore dell’arco ci infligge dolori e altri ancora ce
ne darà. E non allontanerà dagli Achei il tremendo flagello prima che la
fanciulla dagli occhi lucenti sia restituita al padre senza nessun riscatto e
prima che sia condotta a Crisa una sacra ecatombe. Solo allora potremo
placarlo». Disse e si mise a sedere. Si alzò allora, pieno di collera, il
figlio di Atreo, il potente Agamennone: un nero furore gli riempiva l’animo,
gli occhi mandavano lampi di fuoco; e subito, guardando Calcante con odio,
disse: «Profeta di sciagure, mai mi predici qualcosa di buono; sempre il male
ti piace svelare, di bene niente, non una parola, mai, che vada a compimento; anche
adesso vai dicendo fra i Danai che il signore dell’arco ci infligge dolori
perché non ho voluto accettare il favoloso riscatto della fanciulla Criseide.
Ma io voglio tenerla in casa mia, mi è più cara di Clitennestra, mia sposa
legittima, a lei non è inferiore né per aspetto, né per intelligenza e bravura.
La renderò, tuttavia, se è la cosa migliore; voglio che l’armata si salvi, non
che si perda. Ma preparatemi subito un dono: non è giusto che solo io fra gli
Achei rimanga privo del premio, che, come tutti vedete, mi viene tolto». Gli rispose allora il divino Achille dai piedi veloci: «Figlio di Atreo, fra tutti il più illustre e il più avido, come potranno, gli Achei generosi, assegnarti un dono? In nessun luogo vi sono più beni comuni: quelli delle città che abbiamo bruciate sono stati divisi. Non è giusto che si rimetta tutto insieme di nuovo. Tu, ora, rendi al dio la fanciulla: e noi Achei ti ripagheremo tre quattro volte tanto, se mai Zeus ci concederà di abbattere Troia dalle belle mura». Gli rispose il potente Agamennone: «No, per quanto valoroso tu sia, divino Achille, non celare il tuo pensiero, perché non potrai ingannarmi e non potrai persuadermi. Vuoi tenerti il tuo dono mentre io resto privo del mio, e pretendi da me che restituisca Criseide? Lo farò se gli Achei generosi mi daranno un dono, scelto secondo il mio gusto, che sia pari a quello perduto; e se non me lo daranno, andrò a prenderlo io, andrò e prenderò il tuo, o quello di Aiace o quello di Odisseo – si adirerà di certo colui dal quale mi recherò! Ma a queste cose potremo pensare anche dopo, adesso mettiamo in mare una nave nera, raduniamo i rematori, carichiamo un’ecatombe e facciamo salire Criseide, la bella; alla guida sia posto uno dei principi, perché plachi con sacrifici il dio onnipotente: Aiace, Idomeneo o il divino Odisseo, oppure tu, figlio di Peleo, che sei il più forte di tutti gli eroi». Lo guardò con odio e gli disse Achille dai piedi veloci: «Uomo impudente e avido di guadagno, quale mai degli Achei sarà pronto a obbedirti, a seguirti nelle marce o nelle aspre battaglie? Non sono venuto qui a combattere a causa dei Teucri, a me nulla hanno fatto; non mi hanno rubato né buoi né cavalli, non mi hanno distrutto il raccolto nella fertile Ftia, terra di eroi: monti pieni d’ombra sono fra noi, e il mare dai molti echi. Te abbiamo seguito, uomo senza vergogna, per tua soddisfazione, per l’onore di Menelao e per il tuo onore, bastardo, nei confronti dei Teucri. Non pensi a questo, non te ne curi; e minacci di togliermi il dono, quello per cui tanto ho penato, quello che mi hanno donato i figli dei Danai. Mai io ricevo un premio eguale al tuo, quando gli Achei distruggono una popolosa città dei Troiani; eppure sono le mie braccia a reggere il peso maggiore della guerra violenta; ma quando è il momento di spartire il bottino, a te tocca il dono più grande mentre io torno alle navi con il mio, piccolo e caro, dopo la fatica della battaglia. Ora però me ne vado a Ftia, perché è molto meglio tornare a casa sulle concave navi piuttosto che rimanere qui senza onore a raccogliere tesori e ricchezze per te». Gli rispose Agamennone, signore di popoli: «Vattene, se lo desideri, non sarò io a pregarti di rimanere; altri ho con me che mi faranno onore, e soprattutto Zeus dalla mente accorta. Fra i re di stirpe divina tu mi sei il più odioso: ami le risse, lo scontro, la guerra; sei molto forte, ma questo è dono divino. Torna in patria con le tue navi e i tuoi uomini, regna sui tuoi Mirmidoni, di te non mi importa, la tua ira non mi turba. Anzi, ti dirò questo: poiché Febo Apollo mi toglie Criseide, la rimanderò indietro sulla mia nave, con i miei uomini. Ma verrò io stesso alla tua tenda e mi prenderò la bella Briseide, il tuo dono, perché tu sappia che sono più forte di te, e anche gli altri si guardino bene dal tenermi testa e parlarmi alla pari». Disse così. E il dolore colpì il figlio di Peleo; nel suo forte petto si divise il cuore: non sapeva se levare dal fianco la spada affilata, incitare gli altri alla rivolta e uccidere lui stesso l’Atride, o frenare l’impulso e calmare la collera. Mentre era così incerto nel cuore e nell’animo e stava già per estrarre dal fodero la grande spada, Atena scese dal cielo: la mandava Era dalle bianche braccia che amava entrambi gli eroi in modo eguale e aveva cura di entrambi. Si fermò alle sue spalle e lo afferrò per i capelli biondi – apparve a lui solo, nessuno degli altri la vide –; colto da sacro stupore Achille si volse e subito riconobbe Pallade Atena; gli occhi mandavano lampi terribili. Egli le rivolse la parola e le disse: «Perché sei venuta, figlia di Zeus signore dell’egida, per vedere l’arroganza di Agamennone figlio di Atreo? Ma io questo ti dico e credo che questo avverrà: per la sua insolenza tra breve egli perderà la vita». Gli disse allora la dea dagli occhi azzurri: «Sono discesa dal cielo per placare il tuo furore, se vorrai ascoltarmi; mi ha mandato Era dalle bianche braccia che vi ama entrambi e di entrambi si cura. Orsù, tronca la lite, non estrarre la spada; prendilo a parole, piuttosto e insultalo quanto ti pare. Perché questo ti dico e questo avrà compimento: un giorno ti offriranno splendidi doni, te ne daranno tre volte tanti, per la violenza subita. Ma adesso devi frenarti e obbedirmi». Le rispose Achille dai piedi veloci: «Conviene rispettare il vostro ordine, dea, anche se l’animo è pieno d’ira; è la cosa migliore; se uno obbedisce agli dei, allora essi lo ascoltano». Disse, e sull’elsa d’argento trattenne la forte mano, spinse di nuovo nel fodero la grande spada e obbedì alle parole di Atena: essa intanto era tornata all’Olimpo, alle dimore di Zeus, signore dell’egida, dov’erano tutti gli altri dei. Allora di nuovo il figlio di Peleo si rivolse all’Atride con dure parole, senza frenare la collera: «Ubriaco, faccia di cane, cuore di cervo, che non osi combattere in armi con il tuo esercito, né prendere parte agli agguati insieme agli Achei valorosi: lo temi come la morte. Certo è molto più facile, nel vasto campo dei Danai, strappare i doni di guerra a chi osa contraddirti; re che divori il tuo popolo, che regni su gente da nulla: altrimenti, figlio di Atreo, avresti offeso per l’ultima volta. Ma ora io dico e pronuncio un gran giuramento. Per questo scettro, che non metterà più fronde né rami da quando ha lasciato il tronco tagliato sui monti, che non fiorirà più perché la scure gli ha tolto fogliame e corteccia all’intorno, ed ora lo portano in mano i figli dei Danai, coloro che fanno giustizia e vegliano sulle leggi in nome di Zeus: questo sarà davvero un gran giuramento. Verrà un giorno in cui i figli degli Achei, tutti, rimpiangeranno Achille; e allora tu soffrirai e non potrai aiutarli, quando molti di loro cadranno colpiti da Ettore, uccisore di uomini; e l’animo ti roderai per la rabbia di non aver onorato il più forte di tutti gli Achei». Così disse il figlio di Peleo e scagliò a terra lo scettro, ornato di borchie d’oro. Poi si sedette. Dall’altra parte l’Atride era in preda al furore. Si alzò allora Nestore, oratore dei Pili dalla voce dolce e
sonora, le cui parole scorrevano dalle labbra più dolci del miele. Aveva già
visto sparire due generazioni di uomini, nati e cresciuti insieme a lui nella
divina Pilo, e sulla terza ora regnava. A loro parlò con saggezza e disse:
«Ahimè, una grave sciagura colpisce gli Achei; sarebbero lieti Priamo e i figli
di Priamo, e tutti gli altri Troiani godrebbero molto nel cuore, se sapessero
che voi due siete in lotta, voi che primi siete fra i Danai, primi in
assemblea, primi in battaglia. Ascoltatemi. Siete entrambi più giovani di me;
di me che un tempo fui compagno di guerrieri più forti di voi: ed essi non mi
disprezzavano. Uomini simili non li ho visti mai in nessun luogo, né li vedrò
mai – Piritoo, Driante signore di popoli, Ceneo, Essadio, Polifemo divino,
Teseo figlio di Egeo simile agli dei immortali –; erano gli uomini più forti di
tutta la terra, erano i più forti e combatterono con i più forti, con i
centauri dei monti, e ne fecero orrendo massacro. Per unirmi a loro, che mi
chiamarono, venni da Pilo lontana; con loro ho combattuto: nessuno degli uomini
d’oggi sarebbe capace di farlo; eppure essi ascoltavano i miei consigli,
obbedivano alle mie parole. Ascoltatemi anche voi, è la cosa migliore; per
quanto grande tu sia, Agamennone, non togliere a lui la fanciulla, lasciagli il
dono che gli diedero i figli dei Danai; e tu, figlio di Peleo, non contendere
con il tuo re, perché un re che porta lo scettro e a cui Zeus ha concesso la
gloria ha una parte d’onore diversa dagli altri. Tu sei forte, hai per madre
una dea, ma lui è più potente perché comanda su molti. Figlio di Atreo, placa
il tuo furore; ti supplico, desisti dall’ira verso Achille, che per tutti gli
Achei è difesa sicura in questa guerra crudele». E a lui di rimando il potente
Agamennone: «Sì, tutto questo, vecchio, è ben detto; ma quest’uomo vuole essere
sopra tutti gli altri, vuole dominare, comandare, dare ordini a tutti; penso
che qualcuno non gli obbedirà; se gli dei immortali hanno fatto di lui un
guerriero, gli hanno forse concesso anche di coprirmi di oltraggi?». Gli
rispose a sua volta il divino Achille: «Sarei un vile, davvero, un uomo da
nulla, se ti cedessi in tutto, qualunque cosa tu dica; agli altri comanda, non
dare ordini a me, perché non credo che ti presterò più obbedienza. E ti dirò
un’altra cosa e tu tienila a mente: non verrò alle mani con te, né con te né
con altri, per la fanciulla che mi togliete dopo avermela data; ma gli altri
doni che conservo sulla mia nera nave veloce, di quelli nulla potrai strapparmi
contro la mia volontà; provaci, e allora lo sappiano anche costoro: subito il
tuo nero sangue bagnerà la mia lancia». Così, dopo aver combattuto a parole, si
alzarono e sciolsero l’assemblea presso le navi dei Danai. Il figlio di Peleo
andava verso le tende e le belle navi insieme al figlio di Menezio e ai suoi compagni;
il figlio di Atreo invece mise in mare una nave veloce, scelse venti rematori,
fece imbarcare l’ecatombe per il dio, lui stesso condusse la bella Criseide;
alla guida si pose l’accorto Odisseo. E mentre solcavano le vie d’acqua,
l’Atride ordinò agli uomini di purificarsi; compiuto il rito gettarono in mare
i rifiuti e offrirono poi ad Apollo ecatombi di tori e capre perfette, sulle
rive del mare profondo: tra le spire di fumo l’odore del grasso saliva al
cielo. Di queste cose si occupavano dunque nel campo. Ma Agamennone non lasciò
cadere la sfida che aveva lanciato ad Achille; e disse a Taltibio ed Euribate
che erano suoi araldi e zelanti scudieri: «Andate alla tenda di Achille figlio
di Peleo; prendete per mano la bella Briseide per portarla via; e se non vuole
darvela, io stesso andrò a prenderla e non da solo: sarà molto più duro, per
lui». Con queste parole, con questo duro comando li mandava; a malincuore si
avviarono lungo la riva del mare profondo, finché giunsero alle tende e alle
navi dei Mirmidoni. Trovarono l’eroe seduto accanto alla tenda e alla nera
nave: non provò gioia, vedendoli, Achille. Si fermarono e non dissero nulla,
per rispetto e timore del re; ma egli comprese nell’animo suo e disse: «Vi
saluto, araldi, messaggeri di Zeus e degli uomini, avvicinatevi; non voi siete
colpevoli verso di me, ma Agamennone, che vi ha mandato per la fanciulla
Briseide. Orsù, Patroclo, amato da Zeus, portala fuori e consegnala a loro, che
la portino via; ma essi mi siano testimoni, davanti agli dei beati e agli
uomini mortali, davanti al re inflessibile, se mai un giorno ci sarà bisogno di
me per allontanare dagli altri il tremendo flagello: egli è folle davvero nella
sua mente perversa, non pensa al passato e insieme al futuro, a come potranno
salvarsi gli Achei combattendo presso le navi». Disse così, e Patroclo obbedì
all’amico, condusse fuori dalla tenda la bella Briseide e la consegnò agli
araldi che la portassero via; se ne andarono, lungo le navi dei Danai e li
seguiva a malincuore la donna. Achille invece piangendo andò a sedersi in
disparte, lontano dai suoi compagni, sulle rive del mare bianco di schiuma, lo
sguardo rivolto alla distesa infinita, e con le mani tese rivolse una fervida
preghiera a sua madre: «Poiché mi hai generato a breve vita, madre, vorrei che
l’Olimpio Zeus, signore del tuono, mi concedesse, almeno, l’onore; e invece non
c’è nessun onore per me; mi ha offeso il figlio di Atreo, il potente
Agamennone; si è preso il mio dono, lui stesso me l’ha strappato e l’ha fatto
suo». Così diceva piangendo; lo udì la nobile madre che negli abissi del mare
sedeva accanto al vecchio padre: rapida emerse dal mare bianco di schiuma, come
una nebbia, si sedette accanto a lui che piangeva, lo accarezzò con la mano e
chiamandolo per nome gli disse: «Figlio mio, perché piangi? Quale dolore ha
colpito il tuo cuore? Parla, non tenerlo per te, anch’io voglio saperlo».
L’eroe dai piedi veloci le rispose piangendo: «Lo sai. Perché devo dire tutto a
te che sai tutto? Quando giungemmo a Tebe, la sacra città di Eezione, la
distruggemmo e portammo qui tutto il bottino. Fra di loro in parti uguali se lo
divisero i figli dei Danai. Per il figlio di Atreo scelsero la bella Criseide.
Ma Crise, sacerdote di Apollo signore dei dardi, venne alle navi veloci dei
Danai armati di bronzo per liberare la figlia e portava moltissimi doni;
intorno allo scettro dorato aveva la bianca benda di Apollo signore dell’arco e
supplicava tutti gli Achei ma soprattutto gli Atridi condottieri di eserciti. Approvarono a una voce gli Achei: fosse onorato il sacerdote, si accettassero
gli splendidi doni; ma la cosa non piacque al figlio di Atreo, Agamennone, che
lo cacciò brutalmente, con minacciose parole. Il vecchio andò via, pieno d’ira;
ma Apollo che molto lo amava, ascoltò le sue suppliche e scagliò sugli Achei le
sue frecce malefiche. Morivano gli uomini uno sull’altro mentre i dardi del dio
volavano da ogni parte nel vasto campo dei Danai; a noi l’esperto indovino
rivelò la volontà dell’Arciere. E io per primo invitavo a placarlo; ma il
figlio di Atreo andò in collera, d’impeto si levò e proferì una minaccia che
ormai si è compiuta: sulla nave veloce gli Achei dagli occhi splendenti
conducono a Crisa la fanciulla e portano doni al dio sovrano; dalla mia tenda
se ne sono andati gli araldi portando via la giovane figlia di Brise, che mi
donarono i figli dei Danai. Ma tu, se puoi, soccorri tuo figlio; sali
all’Olimpo e supplica Zeus, se mai un tempo hai potuto essergli utile con le
parole o coi fatti. Nella reggia del padre spesso ti ho udito vantarti di aver
difeso il figlio di Crono, signore delle nuvole oscure, da un oltraggio
tremendo, tu, sola fra gli immortali, quando gli altri dei dell’Olimpo – Era
Poseidone e Pallade Atena – volevano incatenarlo: tu sola andasti da lui, dea,
e lo liberasti dai ceppi chiamando sul vasto Olimpo l’essere dalle cento
braccia che gli dei chiamano Briareo e gli uomini invece Egeone – la sua forza
è più grande di quella del padre –; superbo della sua gloria egli sedette
accanto al figlio di Crono e allora gli dei beati presi dalla paura non lo
legarono più. Ricordagli questo, ora, siedigli accanto e abbraccia le sue
ginocchia, chiedigli di dare aiuto ai Troiani e di respingere invece gli Achei
verso il mare contro le navi, facendone strage, perché godano tutti dell’azione
del re e anche il figlio di Atreo, l’onnipotente Agamennone, comprenda la sua
follia, lui che non ha onorato il più forte di tutti gli Achei». A lui disse
allora Teti, piangendo: «Figlio mio, perché ti ho cresciuto, io, madre
infelice? Almeno tu stessi presso le navi senza lacrime, senza dolore, perché
la tua vita è breve, non durerà a lungo. Sei votato a morte precoce e ora sei
anche infelice fra tutti: per un triste destino ti ho messo al mondo, nella
reggia di Peleo. Parlerò dunque a Zeus, signore dei fulmini, salirò io stessa
sull’Olimpo bianco di neve, sperando che voglia ascoltarmi. Ma tu, ora, rimani
presso le navi veloci, conserva l’ira verso gli Achei e non prendere parte alla
guerra. Ieri Zeus se n’è andato verso l’Oceano, tra i nobili Etiopi, per un
banchetto, e tutti gli dei lo hanno seguito; il dodicesimo giorno tornerà di
nuovo all’Olimpo e allora andrò per te alla dimora dalla soglia di bronzo, lo
supplicherò e penso che riuscirò a persuaderlo». Dopo aver parlato così se ne
andò e lo lasciò lì con l’animo pieno d’ira per la fanciulla dalla snella
figura che gli avevano strappato a forza e suo malgrado. Intanto Odisseo era
giunto a Crisa portando la sacra ecatombe. Quando furono dentro al porto dalle
acque profonde, ammainarono le vele e le deposero sulla nave nera, e dopo aver
sciolto in fretta le funi misero l’albero sul cavalletto; poi, a forza di remi,
spinsero la nave verso l’ormeggio. Gettarono le ancore e legarono i cavi di
poppa; poi scesero sulla battigia, fecero sbarcare l’ecatombe offerta ad
Apollo, signore dell’arco; anche Criseide scese dalla nave che solca il mare;
l’accorto Odisseo la condusse verso l’altare, la mise tra le mani del padre e
gli disse: «O Crise, Agamennone, signore di popoli, mi ha mandato per riportarti
la figlia e offrire a Febo una sacra ecatombe in nome dei Danai, per placare il
grande iddio che ora scaglia sugli Achei dolori e lacrime». Così disse e gliela
diede e il padre la accolse con gioia; subito, intorno all’altare ben costruito
collocarono la sacra ecatombe, si lavarono le mani e presero i grani d’orzo. In
mezzo a loro Crise, tendendo le mani, fervidamente pregava: «Ascoltami, dio
dall’arco d’argento, che proteggi Crisa e la divina Cilla e regni su Tenedo;
hai udito la mia invocazione e mi hai reso onore mettendo in ginocchio
l’esercito acheo. Esaudisci anche ora questo mio desiderio: allontana dai Danai
il tremendo flagello». Così pregava e Febo Apollo lo udì. |