Joan London L’età dell’oro Edizioni e/o (…) Sullivan
stava migliorando. Cominciò a trascorrere un po’ di tempo fuori dal polmone
d’acciaio. All’inizio cinque minuti, poi dieci, poi un giorno mezz’ora. Sedeva
in veranda, imbragato fino al collo su una poltrona reclinabile accanto alla
sedia a rotelle di Frank. Il sole splendeva. Se ne stavano lì, soddisfatti del
mondo, come due anziani. «Almeno sto imparando a vivere» disse Sullivan. Parlò
del giorno in cui era stato colpito dalla polio. Tutti avevano una storia da
raccontare. La sua iniziava durante la famosa regata Head of the River. Aveva i
brividi, ma pensava si trattasse di nervosismo. La sua barca era in lieve
vantaggio, e all’improvviso gli mancarono le forze. Era stato come tirare il
cordone di un campanello e non veder arrivare nessuno, spiegò. Arrivarono
terzi. Alla fine della gara si sentiva accaldato e tremante e pensò che una
nuotata gli avrebbe fatto bene. Non gli importava che fosse proibito: si buttò
dritto nel fiume. Poi scoprì di non riuscire a muovere le gambe. Alzò le mani,
e tutti pensarono che stesse scherzando. Quando lo issarono sul pontile faceva
fatica a respirare. Il suo ricordo di quel giorno era incredibilmente vivido, quasi
soffuso di una singolare bellezza. Era stato molto felice a scuola, e provava
un profondo affetto per due o tre compagni. Era convinto che sarebbero rimasti
amici per la vita. Lo adagiarono sul pontile e lo trasportarono a riva. Vide il
sole che brillava attraverso le palpebre e ne avvertì il calore sul corpo; udì
lo sciacquio dei ragazzi che lo trasportavano a guado. Il loro silenzio. E
proprio in quel momento gli balenò in mente una poesia che avrebbe espresso
tutto questo. Una poesia lunga, importante, dal titolo Il mio ultimo giorno
sulla Terra. Tutto ciò che stava scrivendo ora ne faceva parte. Per contrasto,
l’esordio della malattia di Frank era stato talmente impoetico da renderlo
restio a parlarne, convinto che rispecchiasse quella che lui avvertiva come la
fragorosa, dolorante e troppo intima tragicommedia della propria vita
familiare. Aveva un mal di testa accecante, si era rifiutato di alzarsi. Ida
gli aveva gridato che la stava facendo uscire in ritardo, col rischio di
perdere il nuovo lavoro dalla modista. Meyer se n’era già andato da un pezzo,
perché aveva il primo turno. Ida si precipitò fuori di casa, poi tornò indietro
dalla fermata dell’autobus per controllargli un’ultima volta la fronte. Il
rumore del suo ansimare frenetico invase la casetta minuscola mentre frugava
nelle tasche dei vestiti di Meyer in cerca di monete, maledicendolo per non
esserci mai quando aveva bisogno di lui. Lasciò la porta d’ingresso spalancata,
corse alla cabina telefonica e chiamò il dottor Cohen. Poi Meyer ricomparve
quasi per miracolo, e mentre lo portava verso l’ambulanza Frank si abbandonò
tra le sue braccia come un neonato. Il viso abbronzato di suo padre aveva
assunto un colorito grigiastro, quello di Ida era bianco come la farina. La
gente in strada li guardava: gli Zanetti, gli altri vicini di casa, i passanti,
una nebbia indistinta di volti visti da lontano, come in un sogno. (…) |