Jack London Guerra alla Cina – L’inaudita
invasione O barra O Edizioni Quando Jack London, il celeberrimo autore de Il richiamo della foresta e di Zanna Bianca, nel 1910, diede alle
stampe questo racconto, il cui titolo originale era L’impareggiabile invasione, l’Occidente intero e in particolare gli
Stati Uniti d’America guardavano con sospetto alla Cina, in preda a un rituale
apertamente razzista i cui tratti non ci sono sconosciuti neppure oggi.
Accusati di invadere gli States con troppi immigrati, di essere troppo numerosi in patria, cosa che
appariva terribilmente minacciosa di fronte alla decrescita delle nascite nei
paesi ritenuti, loro sì, civilizzati, ma soprattutto ritenuti inconoscibili e
insondabili nella loro società votata al caos di un impero in totale
disfacimento, i cinesi sono di irresistibile stimolo anche per gli scrittori.
Stimolo al quale London risponderà con questo racconto di fantascienza,
ambientato nel 1976, in cui l’intero Occidente troverà una soluzione finale,
secondo una ispirazione eugnetica, antelitteram, perfettamente nazista, con uno
sterminio di massa attuato con la diffusione delle peggiori malattie epidemiche.
Un colpo al cuore per tutti coloro che di Jack London hanno invece e profondamente
amato l’istinto alla giustizia e alla libertà. Ma il lettore, se si fosse trovato il primo maggio 1976 nella
città imperiale di Pechino, con la sua popolazione di 11 milioni di abitanti,
avrebbe assistito a un curioso spettacolo. Le strade gli sarebbero apparse
stipate di abitanti giallini intenti a chiacchierare, ogni testa con il codino
spinta all’indietro, ogni occhio a mandorla rivolto al cielo. E in alto,
nell’azzurro, avrebbe scorto un minuscolo punto nero che, per via delle sue
ordinate evoluzioni, avrebbe riconosciuto per un aeroplano. Da quell’aeroplano,
mentre curvava il suo volo avanti e indietro sulla città, cadevano dei
proiettili, strani, innocui tubi di fragile vetro che si frantumavano in
migliaia di schegge sulle strade e sui tetti. Ma non c’era nulla di letale in
quei tubi di vetro. Nulla accadde. Non ci furono esplosioni. Tre cinesi, è
vero, furono uccisi dai tubi caduti sulla loro testa da una simile altezza; ma
che cos’erano tre cinesi contro un tasso di natalità in eccesso pari a venti
milioni? Un tubo cadde in verticale in un laghetto per i pesci all’interno di
un giardino e non s’infranse. Il padrone di casa lo tirò a riva. Non osò
aprirlo ma, accompagnato dagli amici e circondato da una folla sempre
crescente, portò il misterioso tubo al magistrato del distretto. Costui era un
uomo coraggioso. Con tutti gli occhi su di lui, spaccò il tubo con un colpo del
fornello di ottone della sua pipa. Nulla accadde. Fra quanti si trovavano nei
pressi, uno o due credettero di veder volare fuori alcune zanzare. Questo fu
tutto. La folla esplose in una grande risata e si disperse. Come Pechino, tutta
la Cina fu bombardata con tubi di vetro. Ognuno dei minuscoli aeroplani inviati
dalle navi da guerra recava a bordo solo due uomini, e questi volteggiavano e
curvavano su ogni città, cittadina e villaggio, uno pilotando l’aeromobile,
l’altro gettando i tubi di vetro. Se si fosse trovato a Pechino sei settimane
più tardi, il lettore avrebbe cercato invano gli 11 milioni di abitanti. Un po’
ne avrebbe visti, forse non più di poche centinaia di migliaia, sotto forma di
carcasse in decomposizione nelle case e nelle strade deserte, o ammucchiati in
alte pile sui carri mortuari abbandonati. Ma gli altri avrebbe dovuto cercarli
fuori città, lungo le strade dell’Impero. E migliaia e migliaia di morti
lasciati insepolti sul ciglio delle strade gli avrebbero indicato il percorso
dei fuggiaschi. E come a Pechino, così era nelle città, le cittadine e i
villaggi di tutto l’impero. L’epidemia si abbatté ovunque. Né si trattava di
un’unica epidemia, e neppure di due; bensì di una dozzina di epidemie. Ogni
forma virulenta di infezione letale si propagava in tutto il paese. Troppo
tardi il governo cinese comprese il significato dei colossali preparativi, lo
schieramento delle armate mondiali, i voli dei minuscoli aeroplani e la pioggia
di tubi di vetro. I proclami del governo furono vani. Non poterono impedire
agli undici milioni di derelitti colpiti dall’epidemia di fuggire dalla città
di Pechino e diffondere le malattie per tutto il paese. I medici civili e
militari morirono nell’esercizio delle loro funzioni; e la morte, la suprema
conquistatrice, passò sopra i decreti dell’imperatore e di Li Tang Fwung. Passò
anche sopra di loro, perché Li Tang Fwung morì durante la seconda settimana, e
l’imperatore, nascosto nel Palazzo d’Estate, durante la quarta. Ci fosse stata solo un’epidemia, la Cina avrebbe potuto
affrontarla. Ma da una dozzina di epidemie nessuna creatura era immune. Chi
scampava al vaiolo cadeva davanti alla scarlattina. Chi era immune alla febbre
gialla veniva portato via dal colera; e se era immune anche a quello, allora lo
toglieva di mezzo la Morte Nera, la peste bubbonica. Perché erano questi
batteri, germi, microbi e bacilli, coltivati nei laboratori dell’Occidente, che
erano calati sopra la Cina nella pioggia di vetro. Ogni organizzazione si
dissolse. Il governo crollò. Decreti e proclami erano inutili, quando gli
uomini che li stilavano e li firmavano erano morti il momento dopo. Né i
milioni impazziti, spinti alla fuga dalla morte, potevano fermarsi a prestare
ascolto ad alcunché. Fuggivano dalle grandi città infettando il paese, e
ovunque fuggissero, portavano con sé le epidemie. L’estate era al colmo –
Jacobus Laningdale aveva scelto il periodo con sagacia – e ovunque l’epidemia
ingigantiva. Molte sono le supposizioni sull’accaduto, e molto si è appreso dai
racconti dei pochi sopravvissuti. Come una furia, le derelitte creature in fuga
attraversarono l’impero a milioni. I grandi eserciti radunati dalla Cina alle
frontiere si dissolsero. Le fattorie furono saccheggiate nella ricerca di cibo,
né si provvide a seminare altre piante, mentre quelle già seminate venivano
abbandonate all’incuria, così che non giunsero mai al raccolto. L’aspetto più
rilevante, forse, era costituito dai tentativi di fuga. Molti milioni si
impegnarono nello sforzo, precipitandosi verso i confini dell’impero, solo per
essere affrontati e ricacciati dai giganteschi eserciti dell’Occidente. Il
massacro delle moltitudini impazzite sui confini fu impensabile. Di tanto in
tanto, il cordone protettivo veniva ritirato di venti o trenta miglia, in modo
da evitare il contagio dagli innumerevoli morti. Una volta l’epidemia fece
breccia e ghermì i soldati tedeschi e austriaci che sorvegliavano i confini del
Turkestan. Erano stati fatti preparativi per una simile evenienza, e benché
sessantamila soldati europei perissero nel frangente, il corpo medico
internazionale isolò il contagio e riuscì ad arginarlo. (…) Tutti i superstiti vennero messi a morte ovunque venissero
trovati. Poi cominciò il grande compito, il risanamento della Cina. Cinque anni
e tesori per centinaia di milioni vennero utilizzati, dopo di che il mondo la
colonizzò, non in zone suddivise, secondo l’idea del barone Albrecht, ma in
modo eterogeneo, secondo il democratico programma americano. |