nuovafreccia

Lunario dei giorni di paura


Seconda settimana
pestecamus

 

La Peste
Albert Camus

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Il bambino, dal canto suo, fu trasferito all’ospedale ausiliario, in una ex aula scolastica dove erano stati sistemati dieci letti. Dopo una ventina di ore, Rieux giudicò il suo caso disperato. Il corpicino si lasciava invadere dall’infezione senza reagire. Piccoli bubboni, dolenti ma appena formati, bloccavano le articolazioni delle gracili membra. Era già spacciato. Per questo motivo Rieux pensò di provare su di lui il siero di Castel. La sera stessa, dopo cena, praticarono la lunga inoculazione ma il bambino non mostrò di reagire. L’indomani, all’alba, si recarono tutti dal piccolo per valutare quell’esperimento cruciale. Il bambino era emerso dal torpore e si rigirava convulsivamente fra le lenzuola. Il dottore, Castel e Tarrou erano accanto a lui dalle quattro del mattino e seguivano passo passo i progressi o le pause della malattia. Tarrou era al capezzale, il corpo massiccio un po’ ingobbito. In fondo al letto, accanto a Rieux in piedi, sedeva Castel intento a leggere un vecchio libro con l’aria della più assoluta tranquillità. Pian piano, mentre nella vecchia aula cominciava a far giorno, arrivavano gli altri. Il primo fu Paneloux, che andò a mettersi sul lato opposto rispetto a Tarrou, addossato alla parete. Gli si leggeva in volto un’espressione sofferente, e la stanchezza di tutti quei giorni in cui si era speso di persona gli aveva solcato di rughe la fronte congestionata. Arrivò poi anche Joseph Grand. Erano le sette e l’impiegato si scusò di essere di corsa. Sarebbe rimasto solo un momento, forse si sapeva già qualcosa di preciso. Senza dire una parola, Rieux gli indicò il bambino che con gli occhi chiusi sulla faccia stravolta, stringendo i denti con tutte le sue forze, il corpo immobile, agitava la testa sul guanciale senza federa. Quando infine ci fu abbastanza luce nella stanza perché in fondo alla corsia, sulla lavagna rimasta al suo posto, si potessero intravvedere le tracce di vecchie formule di equazioni, arrivò Rambert. Si appoggiò in fondo al letto vicino e tirò fuori un pacchetto di sigarette. Ma dopo uno sguardo al bambino si rimise il pacchetto in tasca. Castel, sempre seduto, guardava Rieux al di sopra degli occhiali: “Ha notizie del padre?” “No,” disse Rieux, “è al campo di isolamento.” Il dottore stringeva con forza la sbarra del letto dove il bambino gemeva. Non staccava gli occhi dal piccolo malato, che di colpo si irrigidì e serrando di nuovo i denti si incavò un po’ all’altezza della vita allargando lentamente le braccia e le gambe. Dal corpicino, nudo sotto la coperta militare, veniva un odore di lana e di sudore acido. Pian piano il bambino si distese, riportò le braccia e le gambe verso il centro del letto e, sempre cieco e muto, parve respirare più in fretta. Rieux incontrò lo sguardo di Tarrou e questi distolse gli occhi. Avevano già visto morire dei bambini, poiché da mesi ormai il terrore non faceva distinzioni, ma non ne avevano mai seguite le sofferenze momento per momento come accadeva loro dal mattino. Il dolore inflitto a quegli innocenti, va da sé, era sempre apparso loro per quel che era in realtà, cioè uno scandalo. Ma finora, in un certo senso, si scandalizzavano solo in maniera astratta, poiché non avevano mai guardato in faccia, così a lungo, l’agonia di un innocente. E adesso il bambino di nuovo si piegava, come morso allo stomaco, con un gemito acuto. Rimase incurvito così per lunghi secondi, scosso da brividi e da tremiti convulsi, come se la sua fragile carcassa fosse sferzata dal vento furioso della peste e cedesse sotto le ripetute vampate della febbre. Passata la tempesta, si distese un poco, la febbre parve ritirarsi e abbandonarlo ansante, su una riva umida e infetta dove il riposo era già simile alla morte. Quando di nuovo, per la terza volta, la marea rovente lo raggiunse e lo sollevò un poco, il bambino si rannicchiò, si raggomitolò nel letto in preda al terrore del fuoco che lo bruciava e agitò freneticamente la testa scostando la coperta. Grosse lacrime spuntarono sotto le palpebre infiammate per scorrere sul volto livido e, alla fine della crisi, esausto, il bambino contrasse le gambe ossute e le braccia da cui la carne in quarantotto ore si era dissolta e nel letto devastato prese la posa grottesca di una creatura crocifissa. Tarrou si chinò e con la sua grossa mano asciugò il volto inondato di lacrime e di sudore. Da un po’ Castel aveva chiuso il libro e guardava il malato. Cominciò una frase, ma fu costretto a tossire per poterla concludere, poiché d’un tratto la sua voce suonava stonata: “Non c’è stata la remissione mattutina, vero Rieux?” Rieux disse di no, ma aggiunse che il bambino resisteva più a lungo della norma. Paneloux, che sembrava quasi accasciato contro il muro, disse allora con voce sorda: “Se deve morire, avrà sofferto più a lungo.” Rieux si voltò di scatto verso di lui e aprì la bocca per parlare, poi però tacque, fece un evidente sforzo per dominarsi e tornò a guardare il bambino. La luce cresceva nella corsia. Negli altri cinque letti c’erano forme che si muovevano e gemevano, ma con una discrezione che pareva concertata. L’unico che gridava, all’altro capo dello stanzone, emetteva a intervalli regolari brevi esclamazioni che sembravano esprimere più lo stupore che il dolore. Anche per i malati, era come se non ci fosse più il terrore dei primi tempi. Nel modo in cui affrontavano la malattia, c’era adesso una specie di consenso. Il bambino era l’unico che si dibatteva con tutte le sue forze. Di tanto in tanto Rieux gli sentiva il polso, senza che del resto ve ne fosse la necessità, ma più che altro per rompere l’immobilità in cui si trovava, e chiudendo gli occhi avvertiva quell’agitazione confondersi al tumulto del proprio sangue. Diventava allora tutt’uno con il bambino suppliziato e cercava di sostenerlo con tutta la sua forza ancora intatta. Ma le pulsazioni dei due cuori, per un istante riunite, si disaccordavano, il bambino gli sfuggiva e il suo sforzo cadeva nel vuoto. Allora lasciava andare l’esile polso e tornava al suo posto. Lungo le pareti intonacate a calce la luce passava dal rosa al giallo. Oltre la vetrata cominciava a crepitare una mattinata di caldo. A stento si udì Grand che se ne andava dicendo che sarebbe tornato. Tutti aspettavano. Il bambino, con gli occhi sempre chiusi, pareva calmarsi un poco. Le mani, diventate simili ad artigli, graffiavano piano i fianchi del letto. Risalirono, grattarono la coperta vicino alle ginocchia, e poi di colpo il bambino piegò le gambe, raccolse le cosce sopra la pancia e si immobilizzò. In quel momento per la prima volta aprì gli occhi e guardò Rieux che gli stava davanti. Nel volto ormai rappreso in un’argilla grigia la bocca si aprì e ne uscì quasi subito un lungo grido ininterrotto, appena alterato a tratti dal respiro, che subito riempì la corsia di una protesta monotona, discordante, e così poco umana che sembrava venire da tutti gli uomini insieme. Rieux stringeva i denti e Tarrou distolse lo sguardo. Rambert si accostò al letto, vicino a Castel che chiuse il libro rimasto aperto sulle ginocchia. Paneloux guardò quella bocca di bambino, insudiciata dalla malattia, piena di quel grido senza età. E si lasciò scivolare in ginocchio e tutti trovarono naturale sentigli dire con voce un po’ soffocata, ma nitida dietro il lamento anonimo che non cessava: “Signore, salvate questo bambino.” Ma il bambino continuava a gridare, e i malati intorno a lui si agitarono. Quello che all’altro capo della corsia aveva seguitato a lanciare esclamazioni accelerò il ritmo del proprio lamento fino a farne anche lui un vero grido, mentre gli altri gemevano sempre più forte. Una marea di singhiozzi dilagò nello stanzone coprendo la preghiera di Paneloux, e Rieux, aggrappato alla sbarra del letto, chiuse gli occhi stordito dalla stanchezza e dall’orrore. Quando li riaprì, si trovò accanto Tarrou. “Devo uscire,” disse Rieux. “Non li sopporto più.” Ma di colpo gli altri malati tacquero. Allora il dottore si rese conto che il grido del bambino si era affievolito, che si affievoliva sempre di più e che poi era cessato. Intorno a lui riprendevano i lamenti, ma attutiti, e come un’eco lontana della lotta che si era appena conclusa. Poiché si era conclusa. Castel era andato dall’altro lato del letto e disse che era finita. Il bambino giaceva fra le coperte in disordine, con la bocca aperta, ma muta, improvvisamente rimpicciolito, con resti di lacrime sul viso. Paneloux si avvicinò al letto e fece i gesti della benedizione. Poi si raccolse la tonaca e uscì dal corridoio centrale. “Bisognerà ricominciare tutto daccapo?” domandò Tarrou a Castel. Il vecchio dottore scuoteva la testa. “Mah,” disse con un sorriso teso. “Dopo tutto, ha resistito a lungo.” Ma Rieux già usciva, con passo così precipitoso, e con una tale espressione in volto che quando oltrepassò padre Paneloux questi allungò il braccio per trattenerlo. “Andiamo, dottore,” gli disse. Con la stessa foga Rieux si girò e gli buttò lì con violenza: “Ah! quello se non altro era innocente, e lei lo sa!” Poi si voltò e, varcando la porta della corsia prima di Paneloux, si diresse in fondo al cortile della scuola. Si sedette su una panchina, fra gli alberelli polverosi, e si asciugò il sudore che già gli colava sugli occhi. Aveva voglia di gridare ancora per sciogliere finalmente il groppo violento che gli straziava il cuore. Il caldo scendeva lento fra i rami dei ficus. Il cielo azzurro del mattino si copriva velocemente di un velo biancastro che rendeva l’aria più soffocante. Rieux si abbandonò sulla panchina. Guardava i rami, il cielo, ritrovando piano il respiro, dominando poco a poco la stanchezza. “Perché tutta quella collera nei miei riguardi?” disse una voce dietro di lui. “Anche per me è stato uno spettacolo insopportabile.” Rieux si voltò verso Paneloux: “È vero,” disse. “Mi scusi. Ma la stanchezza fa perdere la testa. E ormai ci sono momenti in questa città in cui l’unica cosa che sento è la mia rivolta.” “Capisco,” mormorò Paneloux. “È qualcosa che oltrepassa la nostra misura, ecco perché ci rivolta. Ma forse dobbiamo amare quel che non possiamo capire.” Rieux si alzò di scatto. Guardava Paneloux con tutta la forza e la passione di cui era capace, e scuoteva la testa. “No, padre,” disse. “Io ho un’altra idea dell’amore. E rifiuterò fino alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati.” Sul viso di Paneloux passò un’ombra turbata. “Ah! dottore,” fece con tristezza, “adesso capisco che cos’è la grazia.” Ma Rieux si era di nuovo abbandonato sulla panchina. Dal profondo della stanchezza che riaffiorava, rispose in tono più mite: “È quel che io non ho, lo so. Ma non voglio discutere di questo con lei. Noi lavoriamo insieme per qualcosa che ci accomuna al di là delle bestemmie e delle preghiere. Solo questo conta.” Paneloux si sedette accanto a Rieux. Sembrava commosso. “Sì,” disse, “anche lei opera per la salvezza dell’uomo.” Rieux provava a sorridere. “La salvezza dell’uomo è una parola troppo grande per me. Io non mi spingo così lontano. È la sua salute che mi interessa, prima di tutto la sua salute.” Paneloux esitò. “Dottore,” disse. Ma si interruppe. Anche la sua fronte cominciava a grondare di sudore. Mormorò: “Arrivederci,” e quando si alzò gli luccicavano gli occhi. Stava per andarsene quando anche Rieux, che rifletteva, si alzò e fece un passo verso di lui. “Mi scusi ancora,” disse. “Una scena così non si ripeterà più.” Paneloux tese la mano e disse con tristezza: “E tuttavia non l’ho convinta!” “Che importanza ha?” disse Rieux. “Io odio la morte e il male, lei lo sa. E, che lo voglia o no, siamo insieme per sopportarli e combatterli.” Rieux tratteneva la mano di Paneloux. “Lo vede,” disse evitando di guardarlo, “adesso nemmeno Dio può separarci.” (...)




















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