La Peste (...) Il bambino,
dal canto suo, fu trasferito all’ospedale ausiliario, in una ex aula scolastica
dove erano stati sistemati dieci letti. Dopo una ventina di ore, Rieux giudicò
il suo caso disperato. Il corpicino si lasciava invadere dall’infezione senza
reagire. Piccoli bubboni, dolenti ma appena formati, bloccavano le
articolazioni delle gracili membra. Era già spacciato. Per questo motivo Rieux
pensò di provare su di lui il siero di Castel. La sera stessa, dopo cena,
praticarono la lunga inoculazione ma il bambino non mostrò di reagire.
L’indomani, all’alba, si recarono tutti dal piccolo per valutare
quell’esperimento cruciale. Il bambino era emerso dal torpore e si rigirava
convulsivamente fra le lenzuola. Il dottore, Castel e Tarrou erano accanto a
lui dalle quattro del mattino e seguivano passo passo i progressi o le pause
della malattia. Tarrou era al capezzale, il corpo massiccio un po’ ingobbito.
In fondo al letto, accanto a Rieux in piedi, sedeva Castel intento a leggere un
vecchio libro con l’aria della più assoluta tranquillità. Pian piano, mentre
nella vecchia aula cominciava a far giorno, arrivavano gli altri. Il primo fu
Paneloux, che andò a mettersi sul lato opposto rispetto a Tarrou, addossato
alla parete. Gli si leggeva in volto un’espressione sofferente, e la stanchezza
di tutti quei giorni in cui si era speso di persona gli aveva solcato di rughe
la fronte congestionata. Arrivò poi anche Joseph Grand. Erano le sette e
l’impiegato si scusò di essere di corsa. Sarebbe rimasto solo un momento, forse
si sapeva già qualcosa di preciso. Senza dire una parola, Rieux gli indicò il
bambino che con gli occhi chiusi sulla faccia stravolta, stringendo i denti con
tutte le sue forze, il corpo immobile, agitava la testa sul guanciale senza
federa. Quando infine ci fu abbastanza luce nella stanza perché in fondo alla
corsia, sulla lavagna rimasta al suo posto, si potessero intravvedere le tracce
di vecchie formule di equazioni, arrivò Rambert. Si appoggiò in fondo al letto
vicino e tirò fuori un pacchetto di sigarette. Ma dopo uno sguardo al bambino
si rimise il pacchetto in tasca. Castel, sempre seduto, guardava Rieux al di
sopra degli occhiali: “Ha notizie del padre?” “No,” disse Rieux, “è al campo di
isolamento.” Il dottore stringeva con forza la sbarra del letto dove il bambino
gemeva. Non staccava gli occhi dal piccolo malato, che di colpo si irrigidì e
serrando di nuovo i denti si incavò un po’ all’altezza della vita allargando
lentamente le braccia e le gambe. Dal corpicino, nudo sotto la coperta
militare, veniva un odore di lana e di sudore acido. Pian piano il bambino si
distese, riportò le braccia e le gambe verso il centro del letto e, sempre
cieco e muto, parve respirare più in fretta. Rieux incontrò lo sguardo di
Tarrou e questi distolse gli occhi. Avevano già visto morire dei bambini,
poiché da mesi ormai il terrore non faceva distinzioni, ma non ne avevano mai
seguite le sofferenze momento per momento come accadeva loro dal mattino. Il
dolore inflitto a quegli innocenti, va da sé, era sempre apparso loro per quel
che era in realtà, cioè uno scandalo. Ma finora, in un certo senso, si
scandalizzavano solo in maniera astratta, poiché non avevano mai guardato in
faccia, così a lungo, l’agonia di un innocente. E adesso il bambino di nuovo si
piegava, come morso allo stomaco, con un gemito acuto. Rimase incurvito così
per lunghi secondi, scosso da brividi e da tremiti convulsi, come se la sua
fragile carcassa fosse sferzata dal vento furioso della peste e cedesse sotto
le ripetute vampate della febbre. Passata la tempesta, si distese un poco, la
febbre parve ritirarsi e abbandonarlo ansante, su una riva umida e infetta dove
il riposo era già simile alla morte. Quando di nuovo, per la terza volta, la
marea rovente lo raggiunse e lo sollevò un poco, il bambino si rannicchiò, si
raggomitolò nel letto in preda al terrore del fuoco che lo bruciava e agitò
freneticamente la testa scostando la coperta. Grosse lacrime spuntarono sotto
le palpebre infiammate per scorrere sul volto livido e, alla fine della crisi,
esausto, il bambino contrasse le gambe ossute e le braccia da cui la carne in
quarantotto ore si era dissolta e nel letto devastato prese la posa grottesca
di una creatura crocifissa. Tarrou si chinò e con la sua grossa mano asciugò il
volto inondato di lacrime e di sudore. Da un po’ Castel aveva chiuso il libro e
guardava il malato. Cominciò una frase, ma fu costretto a tossire per poterla
concludere, poiché d’un tratto la sua voce suonava stonata: “Non c’è stata la
remissione mattutina, vero Rieux?” Rieux disse di no, ma aggiunse che il
bambino resisteva più a lungo della norma. Paneloux, che sembrava quasi
accasciato contro il muro, disse allora con voce sorda: “Se deve morire, avrà
sofferto più a lungo.” Rieux si voltò di scatto verso di lui e aprì la bocca
per parlare, poi però tacque, fece un evidente sforzo per dominarsi e tornò a
guardare il bambino. La luce cresceva nella corsia. Negli altri cinque letti
c’erano forme che si muovevano e gemevano, ma con una discrezione che pareva
concertata. L’unico che gridava, all’altro capo dello stanzone, emetteva a
intervalli regolari brevi esclamazioni che sembravano esprimere più lo stupore
che il dolore. Anche per i malati, era come se non ci fosse più il terrore dei
primi tempi. Nel modo in cui affrontavano la malattia, c’era adesso una specie
di consenso. Il bambino era l’unico che si dibatteva con tutte le sue forze. Di
tanto in tanto Rieux gli sentiva il polso, senza che del resto ve ne fosse la
necessità, ma più che altro per rompere l’immobilità in cui si trovava, e
chiudendo gli occhi avvertiva quell’agitazione confondersi al tumulto del
proprio sangue. Diventava allora tutt’uno con il bambino suppliziato e cercava
di sostenerlo con tutta la sua forza ancora intatta. Ma le pulsazioni dei due
cuori, per un istante riunite, si disaccordavano, il bambino gli sfuggiva e il
suo sforzo cadeva nel vuoto. Allora lasciava andare l’esile polso e tornava al
suo posto. Lungo le pareti intonacate a calce la luce passava dal rosa al
giallo. Oltre la vetrata cominciava a crepitare una mattinata di caldo. A
stento si udì Grand che se ne andava dicendo che sarebbe tornato. Tutti
aspettavano. Il bambino, con gli occhi sempre chiusi, pareva calmarsi un poco.
Le mani, diventate simili ad artigli, graffiavano piano i fianchi del letto.
Risalirono, grattarono la coperta vicino alle ginocchia, e poi di colpo il
bambino piegò le gambe, raccolse le cosce sopra la pancia e si immobilizzò. In
quel momento per la prima volta aprì gli occhi e guardò Rieux che gli stava
davanti. Nel volto ormai rappreso in un’argilla grigia la bocca si aprì e ne
uscì quasi subito un lungo grido ininterrotto, appena alterato a tratti dal
respiro, che subito riempì la corsia di una protesta monotona, discordante, e
così poco umana che sembrava venire da tutti gli uomini insieme. Rieux
stringeva i denti e Tarrou distolse lo sguardo. Rambert si accostò al letto,
vicino a Castel che chiuse il libro rimasto aperto sulle ginocchia. Paneloux
guardò quella bocca di bambino, insudiciata dalla malattia, piena di quel grido
senza età. E si lasciò scivolare in ginocchio e tutti trovarono naturale
sentigli dire con voce un po’ soffocata, ma nitida dietro il lamento anonimo
che non cessava: “Signore, salvate questo bambino.” Ma il bambino continuava a
gridare, e i malati intorno a lui si agitarono. Quello che all’altro capo della
corsia aveva seguitato a lanciare esclamazioni accelerò il ritmo del proprio
lamento fino a farne anche lui un vero grido, mentre gli altri gemevano sempre
più forte. Una marea di singhiozzi dilagò nello stanzone coprendo la preghiera
di Paneloux, e Rieux, aggrappato alla sbarra del letto, chiuse gli occhi
stordito dalla stanchezza e dall’orrore. Quando li riaprì, si trovò accanto
Tarrou. “Devo uscire,” disse Rieux. “Non li sopporto più.” Ma di colpo gli
altri malati tacquero. Allora il dottore si rese conto che il grido del bambino
si era affievolito, che si affievoliva sempre di più e che poi era cessato.
Intorno a lui riprendevano i lamenti, ma attutiti, e come un’eco lontana della
lotta che si era appena conclusa. Poiché si era conclusa. Castel era andato
dall’altro lato del letto e disse che era finita. Il bambino giaceva fra le
coperte in disordine, con la bocca aperta, ma muta, improvvisamente
rimpicciolito, con resti di lacrime sul viso. Paneloux si avvicinò al letto e
fece i gesti della benedizione. Poi si raccolse la tonaca e uscì dal corridoio
centrale. “Bisognerà ricominciare tutto daccapo?” domandò Tarrou a Castel. Il
vecchio dottore scuoteva la testa. “Mah,” disse con un sorriso teso. “Dopo
tutto, ha resistito a lungo.” Ma Rieux già usciva, con passo così precipitoso,
e con una tale espressione in volto che quando oltrepassò padre Paneloux questi
allungò il braccio per trattenerlo. “Andiamo, dottore,” gli disse. Con la
stessa foga Rieux si girò e gli buttò lì con violenza: “Ah! quello se non altro
era innocente, e lei lo sa!” Poi si voltò e, varcando la porta della corsia
prima di Paneloux, si diresse in fondo al cortile della scuola. Si sedette su
una panchina, fra gli alberelli polverosi, e si asciugò il sudore che già gli
colava sugli occhi. Aveva voglia di gridare ancora per sciogliere finalmente il
groppo violento che gli straziava il cuore. Il caldo scendeva lento fra i rami
dei ficus. Il cielo azzurro del mattino si copriva velocemente di un velo
biancastro che rendeva l’aria più soffocante. Rieux si abbandonò sulla
panchina. Guardava i rami, il cielo, ritrovando piano il respiro, dominando
poco a poco la stanchezza. “Perché tutta quella collera nei miei riguardi?”
disse una voce dietro di lui. “Anche per me è stato uno spettacolo
insopportabile.” Rieux si voltò verso Paneloux: “È vero,” disse. “Mi scusi. Ma
la stanchezza fa perdere la testa. E ormai ci sono momenti in questa città in
cui l’unica cosa che sento è la mia rivolta.” “Capisco,” mormorò Paneloux. “È
qualcosa che oltrepassa la nostra misura, ecco perché ci rivolta. Ma forse
dobbiamo amare quel che non possiamo capire.” Rieux si alzò di scatto. Guardava
Paneloux con tutta la forza e la passione di cui era capace, e scuoteva la
testa. “No, padre,” disse. “Io ho un’altra idea dell’amore. E rifiuterò fino
alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati.” Sul viso
di Paneloux passò un’ombra turbata. “Ah! dottore,” fece con tristezza, “adesso
capisco che cos’è la grazia.” Ma Rieux si era di nuovo abbandonato sulla
panchina. Dal profondo della stanchezza che riaffiorava, rispose in tono più
mite: “È quel che io non ho, lo so. Ma non voglio discutere di questo con lei.
Noi lavoriamo insieme per qualcosa che ci accomuna al di là delle bestemmie e
delle preghiere. Solo questo conta.” Paneloux si sedette accanto a Rieux.
Sembrava commosso. “Sì,” disse, “anche lei opera per la salvezza dell’uomo.”
Rieux provava a sorridere. “La salvezza dell’uomo è una parola troppo grande
per me. Io non mi spingo così lontano. È la sua salute che mi interessa, prima
di tutto la sua salute.” Paneloux esitò. “Dottore,” disse. Ma si interruppe.
Anche la sua fronte cominciava a grondare di sudore. Mormorò: “Arrivederci,” e
quando si alzò gli luccicavano gli occhi. Stava per andarsene quando anche
Rieux, che rifletteva, si alzò e fece un passo verso di lui. “Mi scusi ancora,”
disse. “Una scena così non si ripeterà più.” Paneloux tese la mano e disse con
tristezza: “E tuttavia non l’ho convinta!” “Che importanza ha?” disse Rieux.
“Io odio la morte e il male, lei lo sa. E, che lo voglia o no, siamo insieme
per sopportarli e combatterli.” Rieux tratteneva la mano di Paneloux. “Lo
vede,” disse evitando di guardarlo, “adesso nemmeno Dio può separarci.” (...)
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