I
sommersi e i salvati Primo
Levi (...)
Hai vergogna perché sei
vivo al posto di un altro? Ed in specie, di un uomo piú generoso, piú
sensibile, piú savio, piú utile, piú degno di vivere di te? Non lo puoi
escludere: ti esamini, passi in rassegna i tuoi ricordi, sperando di ritrovarli
tutti, e che nessuno di loro si sia mascherato o travestito; no, non trovi
trasgressioni palesi, non hai soppiantato nessuno, non hai picchiato (ma ne
avresti avuto la forza?), non hai accettato cariche (ma non ti sono state
offerte…), non hai rubato il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere. È
solo una supposizione, anzi, l’ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di
suo fratello, che ognuno di noi (ma questa volta dico «noi» in un senso molto
ampio, anzi universale) abbia soppiantato il suo prossimo, e viva in vece sua.
È una supposizione, ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo; non si vede
dal di fuori, ma rode e stride. Al mio ritorno dalla prigionia è venuto a
visitarmi un amico piú anziano di me, mite ed intransigente, cultore di una
religione sua personale, che però mi è sempre parsa severa e seria. Era
contento di ritrovarmi vivo e sostanzialmente indenne, forse maturato e
fortificato, certamente arricchito. Mi disse che l’essere io sopravvissuto non
poteva essere stata opera del caso, di un accumularsi di circostanze fortunate
(come sostenevo e tuttora sostengo io), bensí della Provvidenza. Ero un
contrassegnato, un eletto: io, il non credente, ed ancor meno credente dopo la
stagione di Auschwitz, ero un toccato dalla Grazia, un salvato. E perché
proprio io? Non lo si può sapere, mi rispose. Forse perché scrivessi, e
scrivendo portassi testimonianza: non stavo infatti scrivendo allora, nel 1946,
un libro sulla mia prigionia? Questa opinione mi parve mostruosa. Mi dolse come
quando si tocca un nervo scoperto, e ravvivò il dubbio di cui dicevo prima:
potrei essere vivo al posto di un altro, a spese di un altro; potrei avere
soppiantato, cioè di fatto ucciso. I «salvati» del Lager non erano i migliori,
i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e
vissuto dimostrava l’esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori,
gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della «zona grigia»,
le spie. Non era una regola certa (non c’erano, né ci sono nelle cose umane,
regole certe), ma era pure una regola. Mi sentivo sí innocente, ma intruppato
fra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti
agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i piú adatti; i
migliori sono morti tutti. È morto Chajim, orologiaio di Cracovia, ebreo pio,
che a dispetto delle difficoltà di linguaggio si era sforzato di capirmi e di
farsi capire, e di spiegare a me straniero le regole essenziali di
sopravvivenza nei primi giorni cruciali di cattività; è morto Szabó, il
taciturno contadino ungherese, che era alto quasi due metri e perciò aveva piú
fame di tutti, eppure, finché ebbe forza, non esitò ad aiutare i compagni piú
deboli a tirare ed a spingere; e Robert, professore alla Sorbona, che emanava
coraggio e fiducia intorno a sé, parlava cinque lingue, si logorava a
registrare tutto nella sua memoria prodigiosa, e se avesse vissuto avrebbe
risposto ai perché a cui io non so rispondere; ed è morto Baruch, scaricatore
del porto di Livorno, subito, il primo giorno, perché aveva risposto a pugni al
primo pugno che aveva ricevuto, ed è stato massacrato da tre Kapos coalizzati.
Questi, ed altri innumerevoli, sono morti non malgrado il loro valore, ma per
il loro valore. L’amico religioso mi aveva detto che ero sopravvissuto affinché
portassi testimonianza. L’ho fatto, meglio che ho potuto, e non avrei potuto
non farlo; e ancora lo faccio, ogni volta che se ne presenta l’occasione; ma il
pensiero che questo mio testimoniare abbia potuto fruttarmi da solo il
privilegio di sopravvivere, e di vivere per molti anni senza grossi problemi,
mi inquieta, perché non vedo proporzione fra il privilegio e il risultato. Lo
ripeto, non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. È questa una nozione
scomoda, di cui ho preso coscienza a poco a poco, leggendo le memorie altrui, e
rileggendo le mie a distanza di anni. Noi sopravvissuti siamo una minoranza
anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o
fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone,
non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i «mussulmani», i
sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto
significato generale. Loro sono la regola, noi l’eccezione.
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