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Lunario dei Giorni di Memoria


Appendice 3

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Un tallèt ad Auschwitz

Teo Ducci

(...) Firenze 8 marzo 1944

    A mio padre piaceva parlare soprattutto mentre passeggiavamo nel cortile del carcere durante l'ora d'aria che ci veniva concessa. Venni così a sapere particolari di avvenimenti dei quali avevo già avuto vago sentore. Ma in quelle parole scoprivo non solo risvolti della sua personalità che mi erano ignoti ma riuscivo finalmente a capire il lungo e complesso percorso della sua esistenza. Seppi finalmente come, mobilitato dall'esercito austro-ungarico quando io avevo giusto un anno, egli fosse andato in guerra da sottotenente col cavallo di sua proprietà ed avesse fatto quattro anni nel Genio trasporti sul fronte russo, guadagnandosi due promozioni e due medaglie al valore. Al collasso del fronte, assieme ad un amico aveva riportato a Budapest la cassa del Corpo d'armata. Al Ministero, un imboscato bellimbusto dai molti cognomi aristocratici, imbrillantinato e monocolato, si era chiesto di quanto i due ebrei che gli stavano davanti avessero alleggerito quei fondi a proprio vantaggio. Ne seguì una scazzottata generale conclusa con la minaccia di deferimento alla corte marziale non già di quel mascalzone, ma dei due ufficiali. Fu a questo punto che mio padre decise che in quel paese non avrebbe più messo piede.

Mia madre ed io ci trovavamo ad Abbazia per consolidare  la mia incerta salute. Ci raggiunse; ed essendo Abbazia nel frattempo diventata italiana, fu ovvia la decisione di rimanervi e di chiedere la cittadinanza italiana. Lo scopo primario  di  quella  decisione  fu quello  di assicurarmi un avvenire che non mettesse mai in pericolo il mio essere ebreo. Babbo e mamma ricostruirono da zero le loro esistenze. Solo quando io avevo ormai quasi dieci anni e la loro posizione economica sembrava rassicurante, essi decisero di darmi una sorellina, Eva. E quella fu un'altra motivazione per vivere la nuova vita, liberi e tranquilli. Ma, adesso, quel progetto rischiava nuovamente di frantumarsi. Non me lo ha mai detto, ma era chiaro che mio padre, in quei giorni, aveva netto il presentimento di ciò che stava per succederci. E non riuscì a nascondere il rammarico per l'inutilità delle decisioni prese. Evidentemente un ciclo del nostro destino stava per compiersi.

 Su questo punto egli restò sempre nel vago.  Era un credente, ma si sentiva defraudato nell'intimo dei suoi sentimenti. Se questo era il destino degli ebrei, ebbene, anche il suo personale destino doveva accettarlo. Ma con qualche riserva. Certo aveva sottostimato o non percepito certi segnali perché nessuno mai avrebbe immaginato il vergognoso voltagabbana italiano e fascista. Lui fascista non era mai stato e se ne vantava, ma a cosa era servito? Eravamo nelle mani dei nazisti e da questi non c'era da aspettarsi nulla di buono. Una cosa soprattutto lo angustiava: aver dovuto rinunziare alla musica, al suo quartetto col quale aveva brillantemente esordito.

    L'antisemitismo era il suo rovello. Lo detestava, cercava di capirlo, lo giudicava fuori del tempo, inspiegabile nelle sue manifestazioni viscerali, dovute all'ignoranza, ai pregiudizi, al fanatismo religioso. Ma ammetteva che talvolta anche gli ebrei, certi ebrei, li sentiva lontani dalla sua cultura, dalla sua educazione, dalle sue convinzioni, dal suo modo di essere ebreo. L'incidente di Budapest, certamente, aveva lasciato nel suo animo cicatrici e risentimenti profondi. In Ungheria non era più voluto tornare se non nel 1935, quando, sollecitato a far parte di una delegazione ufficiale del Governo italiano alla Fiera di Budapest, si lasciò persuadere ad accettare l'incarico.

    Ma altri fatti gli bruciavano. Mi parlò a lungo del nonno Carlo, di umili origini, diventato il più rinomato sarto di Budapest, fondatore di una innovativa azienda di abbigliamento, e di come questa fosse andata distrutta a causa di un incendio doloso per il quale la compagnia di assicurazioni s'era rifiutata di onorare la polizza  quando scoprì che il beneficiario era ebreo. Disgustato, il nonno si trasferì a Vienna iniziando una nuova attività in  tutt'altro  campo. Ma era tale la sua fiducia negli Asburgo che investì tutto il suo patrimonio nel prestito di guerra e lo perse ovviamente fino all'ultimo soldo. Il babbo si chiedeva se non avrebbe dovuto percepire il segnale che era venuto dalla vicenda del fratello minore, lo zio Ernesto, ingegnere, direttore di un grande cantiere navale in Germania, che aveva sposato la bellissima Ilse, figlia del Governatore della Banca di Stato. La Gestapo costrinse la moglie a divorziare per «difendere» i due figli nati dal precedente matrimonio perché, a detta dei nazisti, non potevano convivere con un patrigno ebreo. Zio Ernesto sparì senza lasciar traccia di sé e di lui non si è più saputo nulla. Era stato un segnale e non era stato recepito.

 È vero, ammetteva mio padre, nei nostri colloqui: è tutto senno di poi. Adesso eravamo in trappola. Forse non avrebbe dovuto fermarsi ad Abbazia, affascinato dalla possibilità di vivere in Italia, paese del quale amava soprattutto la cultura. Forse dopo l'incidente di Budapest avrebbe dovuto portare moglie e figlio lontano, in paesi sicuri, come l'Inghilterra o l'America. Forse un'altra occasione perduta fu quando il mio grande amore d'allora mi propose di trasferirci in Palestina, magari a fare i contadini. Forse... Ma cosa serviva oramai ipotizzare? Di questo e d'altro gli piaceva parlare, adesso che avevamo il tempo per farlo. Gli piaceva discutere sui problemi dell'anima, sull'essenza dell'ebraismo, come modo di vita, voluto da quel Dio al quale non ha mai cessato di credere, perché creatore della vita, di quella vita che, lo sentiva, stava per perdere.

Le sue parole aprivano in me spazi inconsueti, meravigliosi. «Vedrai, un giorno, ti ricorderai delle Murate». È vero, perché proprio lì ho conosciuto e ho perso per sempre il mio adorato papà.

(...)



















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