Non
dire di me che ho fuggito il mare Alberto
Melis Bacco e Strabacco e Cenere,
come li aveva chiamati la ragazzina, indossavano la divisa nera come se ci
fossero nati dentro. Cenere sembrava il più importante dei tre. Appena arrivati
alla caserma, sulla parte opposta dell’isola, aveva fatto entrare mia madre in
una stanza e aveva ordinato a me e a mia sorella di seguire Bacco e Strabacco
lungo un corridoio male illuminato. Ambedue si trascinavano dietro l’odore
pesante e acidognolo degli alcolizzati. Un misto di vino da quattro soldi e
sporcizia non lavata che gli stava appiccicata addosso insieme agli stemmi del
fascio sulle maniche e al teschio bianco sui berretti. – Entrate qui – ci
avevano detto. Avevano richiuso la porta della cella alle nostre spalle e per
lunghe ore non ci restò che aspettare che qualcos’altro succedesse. Così ebbi
tutto il tempo di riordinare i pensieri. Perché ci avevano presi? Dov’era
finita la zia Agata? E chi era l’uomo che avevo visto in cima al Faro? Era
stato lui che ci aveva visti arrivare e ci aveva denunciati? O era stata la
ragazzina? Mi presi la testa tra le mani. Non avrei mai creduto che qualcuno
potesse scambiarmi per giudeo. Anche se il professor Cipriani, quando ancora in
città si andava a scuola, ce l’aveva detto e ridetto che i giudei si
nascondevano fra noi travestiti da buoni cristiani, con gli stessi abiti, le
stesse facce, gli stessi occhi e tutto il resto, così che non era affatto
facile smascherarli. Il professor Cipriani sapeva tutto dei giudei. Diceva che
era per colpa loro che era scoppiata la guerra. Perché erano tutti demoplutocapitalisti
e bolscevichi4 della peggior risma, oltre che bugiardi e traditori. Così che il
mondo era andato sottosopra e ci sarebbe voluto un mucchio di tempo, per
rimettere a posto le cose. Al professor Cipriani, quando parlava dei giudei,
qualcosa si incendiava sul viso e negli occhi. Ogni settimana ci leggeva un
brano dei Protocolli dei Savi di Sion5, il patto segreto sottoscritto da tutti
i giudei di tutti i paesi per arrivare al dominio del mondo, marciando a grandi
passi nell’aula e battendo i talloni sul pavimento come se anche lui indossasse
una divisa. Lui che era mezzo cieco e piccolo e gobbo e storto, a furia di
stare chino sui libri. Poi ci faceva ripetere tutto ad alta voce, perché
nessuno si dimenticasse di quanta perfidia si nascondeva nelle sinagoghe, dove
ogni notte si malediceva Nostro Signore Gesù. Io, finché mio padre non era
tornato dal fronte, a quelle cose ci avevo creduto. Ma lui una sera trovò il
mio quaderno degli appunti e lo lesse da capo a fondo e senza dire niente lo
strappò e lo fece in mille pezzettini. Più tardi lo sentii parlare sottovoce
con mia madre, in camera da letto. Lei sembrava molto preoccupata. – È
pericoloso – disse. Lui prese a camminare a grandi passi avanti e indietro, e
poi affermò: – Non voglio che i miei figli s’imbevano di questo veleno! – Alzò
la voce: – SONO TUTTE MENZOGNE, SAI, NON È VERO NIENTE, NIENTE! Mia madre per
un po’ stette in silenzio, poi si rifece avanti con voce dolce ma decisa: – Che
dirà domani Matteo al professor Cipriani? Mio padre allora ebbe uno scatto
d’ira, uno dei suoi, come gli succedeva sempre più spesso, da quando era
tornato a casa. Strinse a pugno le due sole dita che gli erano rimaste nella
mano sinistra, con l’altra afferrò il paralume e lo scagliò contro la parete. –
TI HO DETTO CHE SONO TUTTE COGLIONATE!!! Seppi così che anche mio padre diceva
le parolacce. E che quelle che ci insegnava il professor Cipriani erano tutte
coglionate.
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