Tutte
le mie mamme Renata
Piatkowska Tutti la chiamavano così.
Jolanta cercava di aiutare tutti. Lei poteva entrare nel ghetto anche più volte
al giorno, riusciva a superare i controlli ai cancelli grazie a un permesso
speciale. Solo tanti anni dopo che la guerra era finita ho saputo che si chiamava
Irena Sendler e aveva un lasciapassare in quanto addetta al controllo delle
malattie infettive. È questo documento che le permetteva di entrare e uscire
dal ghetto senza insospettire le guardie. Proprio lei, un giorno, è venuta a
casa nostra, ci ha portato qualche fetta di pane ed è riuscita anche a trovare
le medicine per la mamma. “Vedo che ti prendi cura bene della tua mamma” mi ha
detto guardando con approvazione l’impacco che avevo fatto con la pezza come mi
aveva insegnato Chana. “Non ti preoccupare, andrà tutto bene, domani passerò di
nuovo a trovarvi” ha aggiunto con un sorriso. In seguito veniva a trovarci
molto spesso. Un giorno è venuta e ha detto: “Guarda, ti faccio vedere un
trucco”. E si è tolta il mantello. Sotto indossava tanti maglioni e tre gonne
pesanti. Ha dato alla mamma un maglione marrone con i bottoni e una gonna a
quadretti; gli altri indumenti sono rimasti nascosti sotto il mantello. “Sai,
io sono come un grande armadio ambulante” ha detto facendomi l’occhiolino. “Ma
prima di uscire dal ghetto distribuirò quello che è rimasto e tornerò di nuovo
magrolina” ha aggiunto sorridendo. L’infermiera Jolanta, cioè Irena Sendler,
aveva anche con sé le medicine e delle patate nascoste nelle tasche. A me
piaceva quando scherzava e mi faceva il solletico. Non sono mai riuscito a
capire di cosa parlava con la mamma, ma doveva avere qualcosa a che fare con
me, perché entrambe mi guardavano con attenzione e si sussurravano qualcosa
all’orecchio. Adesso penso che proprio in quei momenti decidevano che la
signora Sendler mi avrebbe portato via dal ghetto. Ovviamente io non ero ancora
al corrente di nulla, ma la mamma lo sapeva. Una volta, mentre nella nostra
stanza c’era un terribile freddo, perché non avevamo niente per accendere la
stufa, e come sempre eravamo molto affamati, la mamma, con mia grande sorpresa,
mi ha detto: “Sai, figlio mio, in realtà tu non ti chiami Szymon ma Staś.
Ricordati, tu sei Stanisław, il piccolo Staś” ripeteva. “E il tuo cognome è
Kalinowski”. In seguito, succedeva che a volte la mamma mi svegliava di notte,
mi scuoteva il braccio e mi domandava: “Come ti chiami?”. All’inizio mi
sbagliavo spesso e allora la mamma si innervosiva. Alla fine ho cominciato a
ricordare bene il nuovo nome e a rispondere sempre come voleva lei. “Mi chiamo
Staś Kalinowski” dicevo, e la mamma mi baciava, mi rimboccava le coperte e mi
lasciava dormire. Io non ci capivo niente ma lei sapeva che, dopo essere uscito
dal ghetto, avrei avuto un nuovo nome e un nuovo cognome. Non sarei più potuto
essere Szymon Bauman. Sarei dovuto diventare Staś Kalinowski, e la mia mamma mi
aiutava a impararlo a memoria. Mi ha anche insegnato a recitare senza errori il
Padre Nostro e l’Ave Maria. Tutti i bambini polacchi conoscevano queste
preghiere e, se un giorno i tedeschi mi avessero ordinato di pregare ad alta
voce, io avrei dovuto dirle senza commettere nemmeno il minimo sbaglio.
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