Il silenzio dei vivi Elisa Springer (…) Lentamente,
man mano che il tempo passava, anche a Belsen la situazione cominciò a
precipitare. Il nuovo comandante del lager, la «Belva di Belsen» – Joseph
Kramer, aveva portato con sé il terrore del lager femminile di Auschwitz: Irma
Greese, detta l’«Arpia di Belsen». Si diceva fossero amanti. Vedevamo la Greese
passeggiare spesso nel campo con un tailleur scuro, gli stivali lucidi, alti
fin sotto il ginocchio, mentre portava a guinzaglio il suo grosso cane lupo,
capace di sbranare in pochi attimi un uomo. Molte di noi terrorizzate,
guardavano quella donna e seguivano con lo sguardo il suo percorso, sperando
che si allontanasse, quanto prima, dalle baracche. Lei poteva decidere, come in
un gioco, della vita e della morte di ognuna di noi e le sue decisioni,
affidate ai suoi repentini cambi d’umore, portavano, spesso, alla camera a gas.
Una mattina dopo aver «scelto» delle compagne per il lavoro, e dopo l’appello,
rientrata nella stanzetta della baracca, mi misi a mangiare un pezzo di pane e
guardando attraverso la finestra, notai che, continuamente, carriole cariche di
cadaveri sfilavano davanti ai miei occhi: la vista di quei corpi consumati, di
quegli stracci «anonimi», accatastati l’uno sull’altro, incredibilmente,
assurdamente, amaramente, non mi toccava più. Mi resi conto che la mia
insensibilità, figlia della paura e dell’abitudine, stava prendendo il
sopravvento sui sentimenti che, in quel momento, iniziavano a non appartenermi
più, perché uno solo era il pensiero che attraversava la mia mente: quando
sarebbe giunto il mio momento? Non c’era tempo per la compassione, diminuivano
le condizioni per la pietà verso chi non ce l’aveva fatta a sopravvivere. In
ognuno di quei volti disperati, con gli occhi fuori dalle orbite e con gli
zigomi sporgenti, io immaginavo il mio e vedevo solo la paura: tutto ciò
toglieva spazio a qualsiasi altro sentimento.
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