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Lunario dei Giorni di Memoria


Nona settimana

tregua


La tregua

Primo Levi

(...) 

La tregua

Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
 Tornare; mangiare; raccontare.
 Finché suonava breve sommesso
 Il comando dell’alba:

«Wstawać»;
E si spezzava in petto il cuore.
Ora abbiamo ritrovato la casa,
 Il nostro ventre è sazio,
Abbiamo finito di raccontare.
 È tempo.
Presto udremo ancora
Il comando straniero:

«Wstawać».

(...)

Non posso dire di ricordare esattamente come e quando il mio greco scaturí dal nulla. In quei giorni e in quei luoghi, poco dopo il passaggio del fronte, un vento alto spirava sulla faccia della terra: il mondo intorno a noi sembrava ritornato al Caos primigenio, e brulicava di esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi; e ciascuno di essi si agitava, in moti ciechi o deliberati, in ricerca affannosa della propria sede, della propria sfera, come poeticamente si narra delle particelle dei quattro elementi nelle cosmogonie degli antichi. Travolto anch’io dal turbine, in una gelida notte, dopo una copiosa nevicata, molte ore prima dell’alba, mi trovai dunque caricato su di una carretta militare a cavalli, insieme con una decina di compagni che non conoscevo. Il freddo era intenso; il cielo, fittamente stellato, si andava schiarendo a levante, a promessa di una di quelle meravigliose aurore di pianura a cui, al tempo della nostra schiavitú, assistevamo interminabilmente dalla piazza dell’appello del Lager. Nostra guida e scorta era un soldato russo. Sedeva a cassetta cantando alle stelle con voce spiegata, e rivolgendosi ogni tanto ai cavalli in quel loro modo stranamente affettuoso, con inflessioni gentili e lunghe frasi modulate. Lo avevamo interrogato sulla nostra destinazione, naturalmente, ma senza cavarne nulla di comprensibile, salvo che, a quanto pareva da certi suoi sbuffi ritmici e dal movimento dei gomiti piegati a stantuffo, il suo compito doveva limitarsi a condurci fino ad una ferrovia. Cosí infatti avvenne. Al sorgere del sole, la carretta si arrestò al piede di una scarpata: sopra correvano i binari, interrotti e sconvolti per una cinquantina di metri da un recente bombardamento. Il soldato ci indicò uno dei due tronconi, ci aiutò a scendere dal carro (ed era necessario: il viaggio era durato quasi due ore, il carro era piccolo, e molti di noi, per la posizione incomoda e il freddo penetrante, erano talmente intorpiditi da non potersi muovere), ci salutò con gioviali parole incomprensibili, voltò i cavalli e se ne andò cantando dolcemente. Il sole, appena sorto, era scomparso dietro un velo di caligine; dall’alto della scarpata ferroviaria non si vedeva che una sterminata campagna piatta e deserta, sepolta nella neve, senza un tetto, senza un albero. Passarono altre ore: nessuno di noi aveva un orologio. Come ho detto, eravamo una decina. C’era un «Reichsdeutscher» che, come molti altri tedeschi «ariani», dopo la liberazione aveva assunto modi relativamente cortesi e francamente ambigui (era questa una divertente metamorfosi, che già in altri avevo visto avvenire: talora progressivamente, talora in pochi minuti, al primo apparire dei nuovi padroni dalla stella rossa, sui cui larghi visi era facile leggere la tendenza a non andare troppo per il sottile). C’erano due alti e magri fratelli, ebrei viennesi sulla cinquantina, silenziosi e cauti come tutti i vecchi Häftlinge; un ufficiale dell’esercito regolare jugoslavo, che pareva non fosse ancora riuscito a scuotersi di dosso la remissione e l’inerzia del Lager, e ci guardava con occhi vuoti. C’era una specie di rottame umano, dall’età indefinibile, che parlava senza tregua da solo in jiddisch: uno dei molti che la vita feroce del campo aveva distrutti a mezzo, lasciandoli poi sopravvivere involti (e forse protetti) da una spessa corazza di insensibilità o di aperta follia. E c’era finalmente il greco, con cui il destino doveva congiungermi per una indimenticabile settimana randagia. Si chiamava Mordo Nahum, e a prima vista non presentava nulla di notevole, salvo le scarpe (di cuoio, quasi nuove, di modello elegante: un vero portento, dato il tempo e il luogo), e il sacco che portava sul dorso, che era di mole cospicua e di peso corrispondente, come io stesso avrei dovuto constatare nei giorni che seguirono. Oltre alla sua lingua, parlava spagnolo (come tutti gli ebrei di Salonicco), francese, un italiano stentato ma di buon accento, e, seppi poi, il turco, il bulgaro e un po’ di albanese. Aveva quarant’anni: era di statura piuttosto alta, ma camminava curvo, con la testa in avanti come i miopi. Rosso di pelo e di pelle, aveva grossi occhi scialbi ed acquosi e un gran naso ricurvo; il che conferiva all’intera sua persona un aspetto insieme rapace ed impedito, quasi di uccello notturno sorpreso dalla luce, o di pesce da preda fuori del suo naturale elemento. Era convalescente di una malattia imprecisata, che gli aveva provocato accessi di febbre altissima, sfibrante; anche allora, nelle prime notti di viaggio, cadeva talvolta in uno stato di prostrazione, con brividi e delirio. Pur senza sentirci particolarmente attirati l’uno dall’altro, eravamo avvicinati dalle due lingue in comune, e dal fatto, assai sensibile in quelle circostanze, di essere i soli due mediterranei del piccolo gruppo. L’attesa era interminabile; avevamo fame e freddo, ed eravamo costretti a stare in piedi o a sdraiarci nella neve, perché a perdita d’occhio non si vedeva un tetto né un riparo. Doveva essere press’a poco mezzogiorno quando, annunciata di lontano dall’ansito e dal fumo, si tese caritatevolmente verso di noi la mano della civiltà, sotto forma di uno striminzito convoglio di tre o quattro carri merci trainati da una piccola locomotiva, di quelle che in tempi normali servono a manovrare i vagoni all’interno delle stazioni. Il convoglio si arrestò davanti a noi, al limite del tratto interrotto. Ne scesero alcuni contadini polacchi, da cui non riuscimmo a cavare alcuna informazione sensata: ci guardavano con facce chiuse, e ci evitavano come se fossimo stati appestati. In realtà lo eravamo, probabilmente anche in senso proprio, e comunque il nostro aspetto non doveva essere gradevole: ma dai primi «civili» che incontravamo dopo la nostra liberazione, ci eravamo illusi di ricevere un’accoglienza piú cordiale. (...)




















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