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Lunario dei Giorni di Memoria


Ottava settimana

scialle


Gioco di sabbia

Uri Orlev

(...) Un giorno immaginai una storia, e cioè che la guerra, la Shoah, tutto questo non stava succedendo veramente. Era soltanto un mio sogno. Io in realtà ero il figlio dell’imperatore della Cina e mio padre aveva ordinato di mettere il mio letto sopra un grande palco con intorno venti saggi mandarini (si chiamavano mandarini perché ciascuno di loro aveva un mandarino attaccato al cappello) e aveva comandato loro di farmi addormentare e farmi fare questo sogno così che un giorno, quando sarei salito al trono, mi sarei ricordato di che cosa brutta sono le guerre, che portano la fame e portano via i genitori, e non ne avrei fatte mai. Di questa storia mio fratello non si stancava mai. Mi implorava di raccontargliela ogni volta che succedeva qualcosa, che si creava una situazione pericolosa. In cambio era disposto persino a darmi uno dei suoi generali, a parte ovviamente Robin Hood. Se poi non c’era tempo per raccontarla tutta dall’inizio – dove si parlava del giardino dell’imperatore, di quello che mangiavo a ogni pasto, di quali ordini impartivo ai miei numerosissimi servitori – si accontentava della rassicurazione che noi in realtà vivevamo in un mio sogno. Una volta – io avevo dodici anni e mio fratello dieci – uscimmo dal ghetto e due gendarmi tedeschi in abiti civili ci presero. Ci portarono al muro del ghetto e sfoderarono le pistole, pronti a ucciderci. Mio fratello mi tirò per la manica. Sapevo che cosa voleva, e sussurrai: «Sì, sì, è solo un sogno». In situazioni del genere mio fratello era sicuro di vivere anche lui dentro il mio sogno. E come in ogni sogno anche lì, contrariamente a ogni ragionevole aspettativa, apparve l’angelo salvatore, sotto le spoglie di un ufficiale tedesco in uniforme seduto in carrozza, il quale ordinò a quei due di spedire i bambini secondo le regole, vale a dire sul treno per il «reinsediamento», a Treblinka. Passammo così di mano in mano, da poliziotti polacchi ad altri ebrei e infine riuscimmo a scappare e tornammo a casa. La mamma si ammalò e tutta la sua parte sinistra rimase paralizzata. La portarono all’ospedale ebraico del ghetto. Noi restammo con la zia Stefa. La sera prima che perdesse conoscenza, la mamma era seduta nel letto e la testa le faceva più male del solito. Lei e la zia credevano che io dormissi e parlavano. La mamma disse: «Che ne sarà dei bambini se non ne esco?» «Non preoccuparti, Zofia» disse la zia Stefa, «li prenderò io». Allora mamma disse: «Stefi, tienili sempre con te, nel bene e nel male». Zia Stefa promise e mantenne la promessa. Nel gennaio del 1943 i tedeschi uccisero tutti i malati dell’ospedale che non erano in grado di arrivare al treno. La zia Stefa non me ne disse nulla; io non domandai e non dissi nulla a mio fratello. Finché era vissuta mia madre, mi era sembrato che una presenza invisibile vegliasse costantemente su di me. La notavo di sfuggita, con la coda dell’occhio, senza però mai riuscire a vederla bene. Dopo un certo tempo mia madre sostituì quella figura misteriosa e divenne la custode mia e di mio fratello.
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