Gioco di sabbia Uri Orlev (...) Un giorno immaginai una storia, e cioè
che la guerra, la Shoah, tutto questo non stava succedendo veramente. Era
soltanto un mio sogno. Io in realtà ero il figlio dell’imperatore della Cina e
mio padre aveva ordinato di mettere il mio letto sopra un grande palco con
intorno venti saggi mandarini (si chiamavano mandarini perché ciascuno di loro
aveva un mandarino attaccato al cappello) e aveva comandato loro di farmi
addormentare e farmi fare questo sogno così che un giorno, quando sarei salito
al trono, mi sarei ricordato di che cosa brutta sono le guerre, che portano la
fame e portano via i genitori, e non ne avrei fatte mai. Di questa storia mio
fratello non si stancava mai. Mi implorava di raccontargliela ogni volta che
succedeva qualcosa, che si creava una situazione pericolosa. In cambio era
disposto persino a darmi uno dei suoi generali, a parte ovviamente Robin Hood.
Se poi non c’era tempo per raccontarla tutta dall’inizio – dove si parlava del
giardino dell’imperatore, di quello che mangiavo a ogni pasto, di quali ordini
impartivo ai miei numerosissimi servitori – si accontentava della
rassicurazione che noi in realtà vivevamo in un mio sogno. Una volta – io avevo
dodici anni e mio fratello dieci – uscimmo dal ghetto e due gendarmi tedeschi
in abiti civili ci presero. Ci portarono al muro del ghetto e sfoderarono le
pistole, pronti a ucciderci. Mio fratello mi tirò per la manica. Sapevo che
cosa voleva, e sussurrai: «Sì, sì, è solo un sogno». In situazioni del genere
mio fratello era sicuro di vivere anche lui dentro il mio sogno. E come in ogni
sogno anche lì, contrariamente a ogni ragionevole aspettativa, apparve l’angelo
salvatore, sotto le spoglie di un ufficiale tedesco in uniforme seduto in
carrozza, il quale ordinò a quei due di spedire i bambini secondo le regole,
vale a dire sul treno per il «reinsediamento», a Treblinka. Passammo così di
mano in mano, da poliziotti polacchi ad altri ebrei e infine riuscimmo a
scappare e tornammo a casa. La mamma si ammalò e tutta la sua parte sinistra
rimase paralizzata. La portarono all’ospedale ebraico del ghetto. Noi restammo
con la zia Stefa. La sera prima che perdesse conoscenza, la mamma era seduta
nel letto e la testa le faceva più male del solito. Lei e la zia credevano che
io dormissi e parlavano. La mamma disse: «Che ne sarà dei bambini se non ne
esco?» «Non preoccuparti, Zofia» disse la zia Stefa, «li prenderò io». Allora
mamma disse: «Stefi, tienili sempre con te, nel bene e nel male». Zia Stefa
promise e mantenne la promessa. Nel gennaio del 1943 i tedeschi uccisero tutti
i malati dell’ospedale che non erano in grado di arrivare al treno. La zia
Stefa non me ne disse nulla; io non domandai e non dissi nulla a mio fratello.
Finché era vissuta mia madre, mi era sembrato che una presenza invisibile
vegliasse costantemente su di me. La notavo di sfuggita, con la coda
dell’occhio, senza però mai riuscire a vederla bene. Dopo un certo tempo mia
madre sostituì quella figura misteriosa e divenne la custode mia e di mio
fratello. |