Forse sogno di vivere. Una bambina rom a Bergen Belsen
Ceija Stojka
(...)
Un giorno mia madre disse
a noi bambini: «Attenti, adesso non dovete rincorrervi! Oggi le russe hanno
ricevuto delle patate dai nazisti. Le cuoceranno in un grande bidone.
Guardate, stanno già accendendo il fuoco». Erano quattro bielorusse, donne forti
e belle. «Aspetteremo finché non saranno cotte e poi correremo! Tschiwe, ci
sei?». La Tschiwe era già più anziana, aveva le gambe gonfie. Hanno
atteso tutt'e due una mezz'ora e quando il pentolone ha cominciato a fumare
sono partite di corsa. Hanno dato una spinta al bidone e le patate sono
rotolate per il lager, ovunque, fino a raggiungere i morti. Le donne hanno
raccolto le patate con le guance, la faccia, la bocca, le hanno nascoste e sono tornate a casa, cioè da
noi, senza problemi. Con quelle patate siamo andati avanti altre tre settimane, anche se forse non erano
complessivamente più di cinque chili.
Quelle donne - la Tschiwe,
la Mimi e la mamma - sono state unite da un
legame molto forte. Erano tre austriache che, dalla Rossauerlande passando per Auschwitz e Ravensbrtick, e fino
a Bergen-Belsen, sono rimaste sempre insieme. Hanno capito
ben presto dove soffiava il vento e ciò che potevano fare
per schivare le
botte ed evitare
che i bambini venissero divisi.
A noi hanno sempre detto: «Non badate alle SS, cercate di
essere invisibili! E non piangete! Ma non dovete nemmeno ridere! Potete
ridere dentro, nella vostra pancia, ma fuori non potete ridere più!» Abbiamo
fatto proprio così. Ciononostante, però, io e Burli abbiamo riso parecchio,
anche coi morti. Abbiamo detto: «Guarda, quello ha la bocca tutta storta!
Avrà detto che non voleva andare in
cielo. Voleva andare
all'inferno perché ci fa caldo». Allora Burli ha riso. Così ci siamo
presi in giro, l'uno con l'altra. Poi lui ha detto: «No, Ceija, non voglio
andare da quello che è già putrefatto, è pure bagnato, lì non ci si
infila. Vieni, guardiamo dall'altra parte,
guardiamo come si presenta!». Per
la verità, poi, dopo la liberazione ci
sono mancati, i morti. Ci hanno protetto ed erano esseri umani.
Esseri umani che avevamo conosciuto. Ma abbiamo detto che ci appartengono anche
quelli che non avevamo conosciuto. Sono la nostra gente e non siamo soli. Non
eravamo soli pure perché eravamo circondati dal ronzio di moltissime anime.
Ho sempre saputo esattamente dove mi era possibile gironzolare. Davanti c'era il grande mucchio dei morti e dietro, più in
là, il piccolo. Di solito mi sono fermata nei pressi del piccolo, lì potevo nascondermi e giocare. Spesso ci ho parlato.
A uno ho detto: «Questo è Karli», agli altri: «Tu sei Mongo, tu sei la Mizzi». Poi
abbiamo giocato: avete una palla
voi e ho una palla pure io. Oppure ho detto: «Hai un bellissimo bottone,
regalamelo! Posso giocarci con la mamma, in
più ci serve solo un po'
di refe». Guardate
questo gioco che
si fa, con le mani, si torce il
filo e il bottone comincia a emettere suoni.
Qualche volta avrei avuto anche voglia di
fuggire, di avere altre esperienze, e mi sarebbe piaciuto giocare a campana
o saltare la corda. Però non avevo la corda. Poi ho pensato: ma
lì c'è un bosco! Una canzone su un cacciatore con un mantello esiste davvero! «Come fa la canzone,
mamma, come fa?». «Sono andata a scuola io o ci sei andata tu?» ha detto. «Non
lo so. Inventatela». Molti degli altri erano già molto deboli e malati, ma io e
Burli eravamo ancora vivacissimi. Avevamo voglia di fare qualcosa e se non
avevamo niente da fare rivoltavamo i morti in modo che non giacessero
capovolti. In modo che con la
faccia non guardassero in terra ma in alto, verso Dio. Oppure gli
abbiamo chiuso gli occhi. Così sono passate altre due settimane.
Siamo sopravvissuti divorando di tutto. Pezzi
di legno, erba, abbiamo masticato di tutto. La nostra fortuna è stata di non
aver avuto bisogno di molto. Se ti trovi in pericolo non avrai mai paura per
te, avrai paura per il tuo bambino o per
tua madre che è insieme a te. Questo ci
ha dato la forza e la volontà di resistere.
Spesso la mamma
mi ha detto: «Se vuoi morire, Ceija, è
semplicissimo. Ci sdraiamo, siamo così stanche che ci addormenteremo
facilmente e dormendo ce ne andremo. Non abbiamo bisogno d'altro, bambina mia.
Ma poi non vedrai più Mongo né Karli, non la Mizzi né Kathi, che forse però
saranno ancora vivi! Forse!».
In quel momento è nata la tua forza di volontà e hai guardato dove fosse
un po' d'ortica,
dove sul mio albero fosse spuntata una
foglia. La mamma ha detto: « Puoi fare tutto tranne spezzare il ramo del tuo
albero. In questo caso lo distruggerai. Invece, spunterà una nuova foglia
proprio lì!». La Ruppa e io abbiamo succhiato
dall'albero, dalla corteccia. Ci è scivolata in bocca, la
resina, come miele, ma non così dolce. È diventata sempre di più e le nostre
pance non hanno più sentito la fame. Non abbiamo avuto fame.
Là dentro si verifica in primo luogo un «crac»,
se sai che non c'è niente. Poi, nella testa e nel
corpo, cancelli tutte le possibilità, ogni brama e desiderio. Mangi
solo quello che trovi. Ecco che c'era un pezzetto di tessuto. La mamma
lo h scucito e la parte interna
era pulitissima. L'ho masticato fino a
quando non è diventato come una balla di paglia e quindi l'ho ingoiato. Un essere umano è davvero molto tenace e se,
come mia madre e la Tschiwe e quelle due persone là dentro, ha una grande forza
di volontà, ciò che ha nella pancia gli sarà completamente indifferente. Mia
madre, per esempio, se ne stava seduta vicino a un cadavere che aveva addosso
un pullover, e ha sfilato la lana. Qualche volta è stata costretta a tirarla
a sé energicamente e il filo si è spezzato. Ma lei ha continuato ad avvolgerlo
dallo stesso punto. E poi mi ha detto: «Chiudi la bocca! Masticalo e
inghiottilo!». In vita mia ho inghiottito tanta di quella stoffa! La fortuna è
stata che non esisteva ancora il nylon, era invece cotone o lana. Le donne
hanno mangiato anche oggetti di origine animale, per esempio un fermaglio di
osso o alcuni pettini. Li hanno spaccati, frantumati e sbriciolati. Naturalmente, di ritorno
dal campo di concentramento, sono arrivati i
doloretti. Ma chi li vede? Oppure, chi vuole saperne? Ci fossero stati solo i
quattro mesi a Bergen-Belsen! Ad Auschwitz ho dovuto buttare continuamente giù
dalle brande i cadaveri. Era il mio compito, che svolgevo su ordine del kapò.
Per la verità sarebbe stato compito del kapò, si trattava del kapò con l'abito
a strisce. Noi non abbiamo mai ricevuto un abito del genere. Se l'avessimo
avuto saremmo stati dei veri principi. Era di un tessuto spesso, forte, di
cotone. Noi abbiamo ricevuto solo stracci. Quello sì che sarebbe stato un
corredo! Un fazzolettino! Una giacca e un cappotto! E un vestitino! Il kapò con la frusta è
entrato e mi ha detto: «Devi ispezionare tutte
le brande e, se c'è un
morto, devi tirarlo fuori. E i corpi che stanno lassù devi buttarli giù, e li
trascini in avanti fino all'in gresso principale!». E io, io ho fatto rotolare i morti
verso il basso, li ho
fatti rotolare in
avanti, poi c'è
stato un paffete ed è caduto
giù. Se aveva addosso un indumento, gliel'ho strappato per poter trascinare più
facilmente il cadavere in
avanti. Ero fortunata se indossava i pantaloni che, se aveva le gambe
distese, potevo sfilare e infilarglieli poi sotto le braccia. Riuscivo così
a portarlo in avanti più facilmente fino all'ingresso principale.
Penoso, per me, era se erano presenti dei
bambini coi quali avevo giocato o parlato. Ma con l'andare. del tempo ci
si abitua e, del resto, devi farlo. Se
non lo fai e arriva quello, ti dà una botta in testa. Le mie orecchie erano completamente
gonfie, piene di pus a destra e a sinistra, per le bastonate ricevute da
distanza ravvicinata. Poi ho contato i morti e quando è arrivato
- «Quanti dici che sono?» - ho risposto: «Quindici» oppure «Venti», a seconda
di quanti erano.
Non sono stati mai meno
di dieci.
(...)
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