L'isola in via degli Uccelli
Uri Orlev (...)
Mi ricordo che mia mamma si rifiutava di scendere in strada perché non
tollerava la vista di tutti quei bambini che elemosinavano il pane
mentre lei non aveva nulla da dargli. Il suo primo pensiero era per me
e per mio fratello, e ogni fetta di pane che dava a un altro bambino
significava una di meno per noi. E mi ricordo come un giorno mentre
andavo a ‘scuola’, che era in realtà solo una stanzetta con tre scolari
e un maestro, un uomo mi strappò dalle mani il sacchetto con il mio
panino e ingoiò la carta e lo spago insieme al panino. Mi chiesi
stupefatto come fosse riuscito a mandar giù lo spago; la carta era una
cosa, ma lo spago? E poi arrivarono due uomini ben vestiti e lo
riempirono di botte perché aveva rubato il cibo a un bambino ben
vestito. Eppure, la gente si sposava, litigava e si amava. E faceva
anche bambini. E c’erano i compleanni e i negozi di giocattoli e una
pasticceria che apparteneva a una mia zia che mi regalava ogni giorno
una pasta. C’era un ragazzo che rimase per molto tempo steso sul
marciapiede davanti al suo negozio finché un giorno morì. Un giorno le
autorità di occupazione decisero di sbarazzarsi degli abitanti del
quartiere murato. Di mandarli lontano. Oggi sappiamo che essi venivano
inviati ai campi di sterminio. A un certo punto noi che vivevamo là lo
venimmo a sapere. Ma non subito, all’inizio. Era impossibile credere
che un popolo civile come quello tedesco potesse fare una cosa simile.
Era difficile crederlo anche dopo che dei testimoni fuggiti dai campi
vennero a raccontarcelo. La città in cui vivevo era Varsavia e il
quartiere murato veniva chiamato il ghetto. Abitavo là durante la
Seconda Guerra Mondiale.
|