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Lunario dei Giorni di Memoria


Cinquantaduesima settimana

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Frammenti di Isabella

Isabella Leitner

 

(...)  La Via Principale, Ungheria

 Kisvàrda era una piccola cittadina in Ungheria con una popolazione di solamente ventimila abitanti. Eppure si distingue nella mia memoria come una «città» molto sofisticata, visitata da compagnie operistiche e teatrali, con balli in maschera per i ricchi, caffè nei quali ingannare il tempo cercando di apparire intelligenti e mondani, e con corse di auto e di cavalli. Baroni, principi e abbienti proprietari terrieri, dalle signorili usanze e dagli abiti raffinati, si pavoneggiavano in giro per il paese sulle loro fantastiche carrozze. Questi aristocratici incidevano la loro impronta sulla città. nLa strada principale di Kisvarda, ricordo, odorava di profumi francesi, quando accompagnavo mia madre al mercato. Il loro aroma mi riempiva le narici mentre la osservavo tastare le oche ipernutrite per assicurarsi che queste fossero abbastanza grasse per cibare i suoi sei ragazzi che crescevano, i suoi brillanti, belli, sensibili fanciulli che un giorno avrebbero affrontato il mondo ben preparati da una madre, la cui intelligenza e limpidità di vedute erano leggendarie e la cui coscienza sociale fece sì che la soprannominassi «la signora Roosevelt dell'uomo povero».

  Lettrice avida, ogni venerdì mia madre metteva in marcia i suoi sei ragazzi verso la biblioteca perché prendessero in prestito il maggior numero di libri a noi consentito, che lei stessa avrebbe divorato, prima di doverli restituire. E quando comprava del pesce per il Sabbath o per le feste, non riusciva a buttar via i giornali in cui il pesce era avvolto prima di averne letto gli olezzanti fogli. E ricordo Teca, la zingara, che ogni giorno veniva da noi e gettava il suo triste sguardo su mia madre. La causa della sua tristezza era sempre la stessa: «i miei figli hanno fame, signora». E la «signora» le riempiva immancabilmente il sacco delle patate con qualunque cosa riuscisse a trovare. E chiunque capitasse a casa nostra all'ora dei pasti era automaticamente invitato a mangiare con noi. «Ce ne sarà abbastanza. Metterò un po' più di acqua nella zuppa.» Ma più di tutto ricordo le conversazioni che mia madre teneva abitualmente con i numerosi adulti che venivano a visitarci da tutte le parti d'Europa: uomini d'affari, amici, parenti. I sei ragazzi stavano intorno immergendosi in quelle parole grandissime, in quei grandissimi argomenti: politici, di arte, di libri, e, sempre, «la disumanità dell'uomo verso l'uomo». A volte mi offendevo. Deve preoccuparsi di tutti in questo modo? Guardami! Lodami! Voglio essere la più importante! Perché ti preoccupi così tanto di così tante cose? Ma adesso, dopo tanti anni, dico: grazie, mamma, per essere stata quello che fosti, per aver cercato di farmi crescere in tutti i sensi.

Kisvarda era solo una piccola cittadina di provincia. È dove ho cominciato e da dove ho anelato di essere lontana. Pensavo che lì non avrei potuto respirare con sufficiente profondità. Tuttavia, i ricordi della mia adolescenza non sono affollati solamente dai dolori di quell'epoca ma anche dalle ore preziose trascorse con amici cari in una casa così viva di interessi, pensieri, attività, conversazioni, danze, giochi e innamoramenti che andavano e venivano, che quella mia casa e l'intera cittadina sembravano esplodere.

Ma c'erano anche altre cose, cose sgradevoli. Non posso contare le volte che mi hanno chiamata «sporca ebrea» mentre passeggiavo lungo la Via Principale, Ungheria. Ignobili  mormorii:  «sporca  ebrea».  No,  «fetida ebrea», questo è quello che sentivo più  spesso. L'antisemitismo, da quando sono in grado di ricordare, era la cruda realtà. Era sempre  presente  nel  tessuto  della vita. Probabilmente era così dovunque, pensavamo,   ma  sicuramente  era  così  in  Ungheria,  ancor   più certamente a Kisvarda. Loro ci  odiano  davvero,  pensavo.  Di  sicuro lo  si  sentiva. Non potevi ripararti da questo. Non potevi sfuggire,  era  dovunque.  E  se era  velato,  lo  era  solo  leggermente.. Era subito sotto pelle. Era difficile conviverci. Ma noi lo facevamo. Non conoscevamo altro modo. Ogni discorso alla radio che inneggiava a Hitler peggiorava le cose. E tali discorsi erano trasmessi costantemente. Non erano molte le persone che capivano il tedesco in quella parte  dell'Ungheria, ma  la  radio mandava  in onda a  raffica i discorsi di Hitler, e la frenesia degli incessanti «Heil Hitler!» faceva sì che i Gentili ungheresi sentissero un cameratismo, un'affinità con il folle oratore. Essa faceva anche rannicchiare noi ebrei nel profondo delle  nostre  anime.  Ci faceva temere la gente quale avevamo condiviso questo paese per generazioni. Cosa potevamo fare?

Dateci un fazzoletto di terra che sia libero dall’antisemirismo.

Abbiamo paura. I nostri vicini, lo sappiamo, sarebbero volenterosi complici di Hitler se la campana dovesse suonare. E la campana suonò.

Il lunedì mattina del 29 maggio 1944, il ghetto fu evacuato. Ebrei, migliaia su migliaia di ebrei -  di ogni stampo e foggia, di ogni età, con ogni malattia, quelli il cui sangue ariano non era sufficientemente ariano, quelli che avevano cambiato la loro religione ormai da lungo tempo - si trascinavano giù per la strada principale verso la stazione ferroviaria per quello che i tedeschi chiamavano «deportazione». Sulle loro schiene, fagotti e sacchi: gli obbligatori «50 chili del vostro migliore vestiario e cibo» (che i tedeschi avrebbero potuto confiscare in seguito con una semplice operazione). E gli ungheresi della cittadina, i Gentili, anche loro erano lì. Erano allineati lungo le strade, molti di loro sorridendo, alcuni nascondendo i loro sorrisi. Non una lacrima. Non un addio. Loro erano la brava gente, la gente felice. Loro erano gli ariani. «Ci siamo liberati di loro, quei fetidi ebrei», si leggeva nelle loro facce. «La città è nostra!»

La Via Principale, Ungheria.

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