Frammenti di
Isabella Isabella
Leitner (...) La Via Principale,
Ungheria Lettrice avida, ogni venerdì mia madre
metteva in marcia i suoi sei ragazzi verso la biblioteca perché prendessero in
prestito il maggior numero di libri a noi consentito, che lei stessa avrebbe
divorato, prima di doverli restituire. E quando comprava del pesce per il
Sabbath o per le feste, non riusciva a buttar via i giornali in cui il pesce
era avvolto prima di averne letto gli olezzanti fogli. E ricordo Teca, la
zingara, che ogni giorno veniva da noi e gettava il suo triste sguardo su mia
madre. La causa della sua tristezza era sempre la stessa: «i miei figli hanno
fame, signora». E la «signora» le riempiva immancabilmente il sacco delle
patate con qualunque cosa riuscisse a trovare. E chiunque capitasse a casa
nostra all'ora dei pasti era automaticamente invitato a mangiare con noi. «Ce
ne sarà abbastanza. Metterò un po' più di acqua nella zuppa.» Ma più di tutto
ricordo le conversazioni che mia madre teneva abitualmente con i numerosi
adulti che venivano a visitarci da tutte le parti d'Europa: uomini d'affari,
amici, parenti. I sei ragazzi stavano intorno immergendosi in quelle parole
grandissime, in quei grandissimi argomenti: politici, di arte, di libri, e,
sempre, «la disumanità dell'uomo verso l'uomo». A volte mi offendevo. Deve
preoccuparsi di tutti in questo modo? Guardami! Lodami! Voglio essere la più
importante! Perché ti preoccupi così tanto di così tante cose? Ma adesso, dopo
tanti anni, dico: grazie, mamma, per essere stata quello che fosti, per aver
cercato di farmi crescere in tutti i sensi. Kisvarda era solo una
piccola cittadina di provincia. È dove ho cominciato e da dove ho anelato di
essere lontana. Pensavo che lì non avrei potuto respirare con sufficiente
profondità. Tuttavia, i ricordi della mia adolescenza non sono affollati
solamente dai dolori di quell'epoca ma anche dalle ore preziose trascorse con
amici cari in una casa così viva di interessi, pensieri, attività,
conversazioni, danze, giochi e innamoramenti che andavano e venivano, che
quella mia casa e l'intera cittadina sembravano esplodere. Ma c'erano anche altre cose,
cose sgradevoli. Non posso contare le volte che mi hanno chiamata «sporca ebrea»
mentre passeggiavo lungo la Via Principale, Ungheria. Ignobili mormorii:
«sporca ebrea». No, «fetida
ebrea», questo è quello che sentivo più
spesso. L'antisemitismo, da quando sono in grado di ricordare, era la
cruda realtà. Era sempre presente nel
tessuto della vita. Probabilmente
era così dovunque, pensavamo, ma sicuramente
era così in
Ungheria, ancor più certamente a Kisvarda. Loro ci odiano
davvero, pensavo. Di
sicuro lo si sentiva. Non potevi ripararti da questo. Non
potevi sfuggire, era dovunque.
E se era velato,
lo era solo
leggermente.. Era subito sotto pelle. Era difficile conviverci. Ma noi lo
facevamo. Non conoscevamo altro modo. Ogni discorso alla radio che inneggiava a
Hitler peggiorava le cose. E tali discorsi erano trasmessi costantemente. Non
erano molte le persone che capivano il tedesco in quella parte dell'Ungheria, ma la
radio mandava in onda a raffica i discorsi di Hitler, e la frenesia
degli incessanti «Heil Hitler!» faceva sì che i Gentili ungheresi sentissero un
cameratismo, un'affinità con il folle oratore. Essa faceva anche rannicchiare
noi ebrei nel profondo delle nostre anime.
Ci faceva temere la gente quale avevamo condiviso questo paese per
generazioni. Cosa potevamo fare? Dateci
un fazzoletto di terra che sia libero dall’antisemirismo. Abbiamo paura. I nostri
vicini, lo sappiamo, sarebbero volenterosi complici di Hitler se la campana dovesse
suonare. E la campana suonò. Il lunedì mattina del 29
maggio 1944, il ghetto fu evacuato. Ebrei, migliaia su migliaia di ebrei - di ogni stampo e foggia, di ogni età, con
ogni malattia, quelli il cui sangue ariano non era sufficientemente ariano, quelli
che avevano cambiato la loro religione ormai da lungo tempo - si trascinavano
giù per la strada principale verso la stazione ferroviaria per quello che i
tedeschi chiamavano «deportazione». Sulle loro schiene, fagotti e sacchi: gli
obbligatori «50 chili del vostro migliore vestiario e cibo» (che i tedeschi
avrebbero potuto confiscare in seguito con una semplice operazione). E gli
ungheresi della cittadina, i Gentili, anche loro erano lì. Erano allineati
lungo le strade, molti di loro sorridendo, alcuni nascondendo i loro sorrisi.
Non una lacrima. Non un addio. Loro erano la brava gente, la gente felice. Loro
erano gli ariani. «Ci siamo liberati di loro, quei fetidi ebrei», si leggeva
nelle loro facce. «La città è nostra!» La Via Principale,
Ungheria.
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