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Lunario dei Giorni di Memoria


Quarantottesima settimana

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La storia di Else

Michail Krausnick – Upre Roma

 

(...) Che Elsa dovesse andar via è stato come un fulmine a ciel sereno. Un dolore che le ha spezzato il cuore. Elsa aveva allora sette anni. Ed era in seconda. Due uomini con lunghi soprabiti di pelle l’hanno prelevata da casa sua al mattino presto, faceva ancora scuro. Alle quattro. Suo padre era ancora via. Emil Matulat aveva il turno di notte, lavorava al porto. La mamma di Elsa era agitatissima, paonazza in volto correva su e giù per la cucina. Gli uomini coi lunghi soprabiti di pelle le avevano mostrato un foglio. Si erano tenuti i cappelli sulla testa. Ogni cosa aveva il suo ordine e doveva andare in fretta. Elsa non aveva nessuna idea di che razza di uomini fossero quelli. Hanno sussurrato qualcosa con “segreta” e “polizia”. Ma perché non portavano uniformi come il guardiano al teatro Kasperl? E questi cosa volevano da lei? Non aveva fatto niente di male. Siccome era ancora mezzo addormentata le sembrava uno di quegli strani sogni che si fanno prima di svegliarsi. Come mai la mamma aveva dato ai due uomini la valigia piccola? Doveva andare da qualche parte? Ai campi per la gioventù, come due anni prima quando era sfollata da Amburgo per i bombardamenti. Tutto succedeva in gran fretta e Elsa non era ancora del tutto sveglia. I poliziotti non erano venuti in auto ma con il tram. Alla fermata hanno dovuto aspettare un po’ prima che arrivasse il primo tram. Faceva freddo e rabbrividiva nel suo cappottino leggero. Se avesse voluto avrebbe potuto battere i denti. Oppure lamentarsi a voce alta. Ma non voleva. Non davanti a questi due estranei. Tuttavia al momento di salire cercò la mano dell’uomo vicino a lei perché i gradini erano troppo alti. Ma quello la respinse e la guardò con occhi cattivi. Ancora oggi Elsa ricorda quello sguardo. L’altro uomo la prese rudemente sottobraccio facendola salire sul tram come se fosse un pacco. Andavano in direzione del porto. Elsa conosceva la strada. Lì lavorava suo padre. C’erano i grandi mercantili che lui doveva caricare e scaricare. Gli uomini la portarono in uno spazio enorme, un magazzino. Era pieno di gente che andava su e giù. Tutti avevano un’aria nervosa. La maggior parte stava seduta sui propri bagagli. Un pittore con un quadro sottobraccio, un uomo con un violino, donne anziane con molti bambini. Era gente che lei non aveva mai visto in vita sua. Alcuni uomini erano vestiti con eleganza, come se stessero per uscire, con cappello e cravatta. Altri sembravano lavoratori del porto con berretti da marinaio, come se fossero appena arrivati dal lavoro, altri ancora erano spettinati come se si fossero appena alzati dal letto. Elsa non aveva idea di cosa stesse succedendo. Si sentiva come Alice nel paese delle meraviglie. La cosa strana era che intorno a lei si sentiva piangere e singhiozzare. Qua e là. La maggior parte delle persone aveva un’aria seria e triste. Una giovane donna aveva un bambino in braccio e teneva per mano un ragazzino carino con una zazzera di riccioli neri e occhi trasognati. C’erano anche crocerossine in divisa e uomini in uniforme con delle liste che correvano su e giù e scrivevano qualcosa. Ogni tanto uno gridava: «Silenzio!». Tutti quelli che erano lì ad aspettare avevano capelli più scuri dei suoi. In tutta la sua vita non aveva mai visto tanti occhi neri in una volta sola. Era una cosa interessante. La maggior parte parlava tedesco ma ogni tanto anche in un’altra lingua che lei non capiva per niente. Come se si trovasse in un altro Paese. Ma presto anche Elsa ebbe paura. Era stata semplicemente messa vicino a un pilastro. Esattamente come la sua valigia. Tutti si comportavano come se lei facesse parte di quella gente estranea e dovesse partire con loro per un lungo viaggio. Elsa si accorse che stava per piangere. «Allora piccola, con chi devi stare?». Gli uomini guardarono nelle loro liste, andarono da parte parlando tra loro in modo eccitato. Probabilmente a proposito di lei. E c’era qualcosa che non funzionava. «Ma chi l’ha portata qui?». Elsa poteva sentire le sirene delle navi che venivano da fuori, ma anche i rumori delle gru, delle locomotive e dei carri merci che scivolavano sulle rotaie. Elsa credeva che il suo cuore stesse per scoppiare. Gli altri bambini almeno erano con i loro genitori. Nonne, zie, zii, fratelli e compagni di gioco. Solo lei era sola. Fa male se non si conosce proprio nessuno in un grande stanzone pieno di gente. Finora non era mai stata così tanto lontana da casa. Non le era assolutamente permesso. Cosa stava succedendo in quel posto? Certo non era un campo giovani! «Tranquilla, presto arriva tua madre!». Due soldati con il fucile in spalla stavano lì rigidi e con aria cattiva. Ogni volta che veniva chiamato e contato un gruppo per la partenza, i soldati toglievano la sicura ai fucili e li puntavano sulle persone. Come se qualcuno potesse scappare. Elsa trovava questo spaventoso. Le faceva paura. Venne da lei un signore anziano con occhiali con la montatura d’oro. Aveva un’uniforme nazista nera e sembrava essere la persona più importante di quel posto. «Nome da ragazza della madre?», domandò brusco. «Nome da ragazza? Ma mia mamma non è una ragazza!», rispose sottovoce. Gli uomini risero come se avesse detto qualcosa di molto, molto stupido.

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