Fino a
quando la mia stella brillerà
Liliana
Segre e Daniela Palumbo
Un giorno i soldati
nazisti ci dissero di prepararci perché si ricominciava a marciare. Saremmo
andate via anche da quel campo. I soldati cominciarono a caricare sui camion
documenti, macchine da scrivere, le loro pratiche burocratiche dove
registravano i delitti che commettevano. Non volevano lasciare tracce
compromettenti. Come ad Auschwitz, e negli altri campi, dove avevano sempre
cercato di distruggere le prove del loro orrore. Ma qualcosa andò diversamente
a Malchow. Americani e russi erano più vicini di quello che gli aguzzini si
aspettavano. A un certo punto vedemmo aprirsi i cancelli del campo. Pensavamo
di dover ripartire per un’altra marcia della morte. Invece, a un tratto,
vedemmo le guardie spogliarsi della divisa e mescolarsi a noi. Anche i civili
tedeschi fuggivano dalle loro case e si portavano via quello che potevano.
Correvano per andare nella parte controllata dagli americani. Preferivano
essere fatti prigionieri dagli americani che dai russi. I soldati si spogliavano,
restavano in mutande di fronte a noi scheletri orribili che li guardavamo
incredule! Cercavano abiti civili e indossavano qualsiasi cosa per confondersi
con noi. Noi, schiave, vedevamo i soldati che prima ci impartivano ordini di
morte, morire di paura! Era incredibile, impensabile per noi. In quei momenti
concitati, accadde una cosa che ricorderò sempre. Il comandante del lager di
Malchow, un assassino privo di umanità, gettò anche lui la pistola e indossò
abiti civili. La pistola cadde sui miei piedi. L’istinto fu di prenderla e
sparare, per vendetta, per giustizia. Ma fu un attimo, mi vergognai di quel
pensiero, io non ero come loro, non volevo diventare come i miei carnefici.
Quello fu un momento fondamentale della mia vita. La forza che trovai nell’istante
in cui rifiutai di vendicarmi diventando un’assassina a mia volta, equivale a
una grande vittoria per me. Scelsi la vita, la loro cultura di morte non mi
apparteneva e la lasciavo nel lager.
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