Il commerciante di bottoni Mi avvicino a Piero e gli stringo il
braccio. Siamo a Birkenau, il pullman ci ha lasciati vicino alla Judenrampe, appena
fuori dal campo. Sui binari c’è un grosso vagone merci che anni fa trasportava
ebrei dai ghetti dell’Est. Oggi è qui, così che i visitatori possano dare forma
e colore alle fotografie grigie dei libri. I miei occhi si perdono lungo le
linee curve delle ruote, salgono sulle tavole di legno, misurano la distanza
dal terreno. Piero tiene la mia mano, mi tira un poco, ci separiamo dal gruppo.
«Eccoci qua» mi dice, mentre abbozzo un sorriso vago. Mi guardo intorno.
«Laggiù c’erano dei magazzini di patate, ci lavorai con Sami.» Indica delle
costruzioni in lontananza, le osservo silenziosa. «È qui che sei sceso?» chiedo
io, per sapere se sto camminando sul terreno straniero che calpestò per primo.
«Io no. Il convoglio col quale arrivai fu uno dei primi a entrare direttamente
nel lager, non venne aperto qui sulla Judenrampe ma dentro, lungo la banchina
chiamata Bahnrampe. Te la mostrerò quando entreremo.» Torniamo a nasconderci
tra le altre persone finché Piero non inizia a raccontare. È qui per questo, lo
fa con grandissima dignità. Il suo viaggio prende forma mentre i ragazzi lo
ascoltano seri. Poi, in colonna, iniziamo a camminare verso l’entrata. Rimango
in fondo, non ho voglia di accelerare il passo. L’aria è calda, nemmeno una
nuvola a coprire il cielo. Ai lati della stradina, case dalle sembianze di
fattorie. A poche centinaia di metri da quello che rimane di un campo di
sterminio tre uomini cambiano le ruote di un’auto, parcheggiata nel giardino
della loro casetta polacca vista lager, con i fiorellini alle finestre.
Assurdo. Voglio vedere che faccia hanno, mi volto insistentemente verso di loro
che continuano a lavorare in tranquillità, per nulla disturbati dalla colonna
di persone rumorose sparpagliate sulla strada. Del resto perché non dovrebbero
starsene lì tranquilli? “Questa gente vive qui” penso, tentando di trovare un
motivo, uno soltanto, per non tornare indietro e chiedere come diavolo fanno.
“L’italiano” mi dico. “Non capirebbero quello che vuoi dirgli.” Il pensiero mi
permette di continuare a camminare. Piero mi raggiunge, prende la mia mano con
forza. «Non mi abbandonare» mi dice, lo sguardo fisso in avanti. Mi ero persa
nei miei pensieri e l’avevo lasciato indietro. Lo guardo sorridendo e gli dico
che non lo abbandono, che sono lì con lui proprio per quello. Arriviamo davanti
al cancello centrale, stavolta niente vento che entra nei vestiti. Il sole
copre spavaldamente ogni cosa. Quando venni per la prima volta, conobbi il
freddo come non l’avevo mai conosciuto. I ragazzi del gruppo cominciano a
entrare, io e Piero li seguiamo, mano nella mano. La kippah bianca orlata del
bordino color oro gli copre la testa. Sa che è di nuovo il suo momento, si fa
avanti e tossisce un poco prima di parlare. «Il pomeriggio del 23 maggio del
’44 il treno entrò qui a Birkenau. Noi eravamo aggrappati alle feritoie del
vagone per vedere dove stavamo andando. Il treno si fermò su questo binario.»
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