Viaggio verso il sereno Vanna Cercenà Viaggio
verso il sereno Vanna
Cercenà (…) Non
lo avevano ancora visto: sapevano solo che era un battello fluviale, di quelli
che solcavano continuamente in su e in giù il fiume, con le grosse ruote a pale
che ritmavano il cammino con un suono caratteristico. Il suo nome, Stefano, era stato cambiato
affettuosamente in Pentcho,
un'espressione dialettale che significa bulgaro. La nave, infatti, era
registrata sotto bandiera bulgara. Praticamente fino al giorno prima il Pentcho
era stato in un cantiere per essere riadattato a trasportare circa duecento
persone, al posto delle merci a cui era originariamente destinato. A tutto
avevano pensato Alexander e Zoltan, i due giovani in cui era nata l'idea di
raggiungere la Palestina, la terra promessa, con un gruppo di coetanei
entusiasti e pieni di fiducia e di speranza nell'impresa. A loro si erano
aggiunte molte famiglie che avevano intuito cosa si sarebbe scatenato ben
presto contro gli ebrei in Europa, che era stata travolta dalla trionfale
marcia di Hitler. Piano piano il numero dei passeggeri era quasi raddoppiato. Con
l'aumento delle quote era stato possibile risistemare il battello assai
malandato e tenere da parte il necessario per l'acquisto di provviste e
carburante. Quando la gente giunse al porto, i cancelli
non erano ancora stati aperti. Le autorità avevano trovato nuovi ostacoli per
autorizzare la partenza e ora, in silenzio sotto la pioggia, stavano accalcate
agli sbarramenti quattrocento persone fra cui anche alcuni bambini. Arrampicati
su cassette, cordami, recinzioni, i tre amici cercavano di vedere, oltre la
folla, il battello su cui avevano tanto fantasticato. Karol udì Mamouka
esclamare: «Madre mia!» e subito si allarmò. Era la sua espressione preferita,
quando qualcosa la contrariava fortemente. «Quella specie di zattera con le
ruote e col fumaiolo rugginoso è il Pentcho? Dov'è Alexander, che vado a
dirgliene quattro?». «Non si è ancora visto» la informò Julia, la mamma di
Bruno. «Deve essere in giro a farsi dare gli ultimi permessi». Finalmente alle quattro del pomeriggio i
cancelli furono aperti. La folla si accalcò lungo le transenne che portavano
agli uffici della dogana dove i poliziotti fecero un controllo minuzioso che durò
ore e ore. Tutti erano in possesso di un visto per il Paraguay ottenuto corrompendo un funzionario di quel consolato, perché
non era consentito recarsi liberamente in Palestina per via di accordi internazionali con gli inglesi che
avevano un mandato su quella terra. Ad attenderli in cima alla scaletta c'erano
Alexander con la sua aria sempre severa sotto i folti capelli rossi spettinati
e Rosa, la fidanzata, che aveva in mano l'elenco dei passeggeri. Poldi, con
grande invidia di Karol, Bruno e Moses, stava in piedi accanto a lei e ripeteva
ad alta voce i nomi mormorati via via dalle persone, in modo che la sorella potesse
spuntarli dal taccuino. «Ciao ragazzi!» li salutò l'amico allegramente. «Ci
vediamo dopo nella galera». Heidi, che era sempre rimasta attaccata a Moses,
cominciò a piagnucolare: «Io non voglio andare in galera!». «Non date retta a
Poldi» intervenne Rosa, allungando uno scappellotto al fratello. «Gli amici di
Alexander hanno chiamato così il dormitorio degli uomini, perché in effetti
assomiglia alle galere dove i romani tenevano gli schiavi... Ma non vi
preoccupate; non dovrete remare!». Quando
finalmente furono tutti ammassati a bordo, lo smarrimento li pervase. Alexander
riuscì a ottenere un po' di silenzio. Malgrado avesse poco più di venti anni,.
era l'ideatore della spedizione e ne era riconosciuto il capo indiscusso. «Ascoltatemi!» gridò
in yiddish, la lingua ebraica che comprendevano tutti.
«Dato che il numero di persone che vogliono fare questo viaggio è molto
aumentato rispetto al nostro primo gruppo, non è stato possibile ricavare le
cabine. Abbiamo dovuto dividere la stiva in due parti: una sopra per le donne e
i bambini, e una sotto per gli uomini e i ragazzi. Lo spazio è ristretto: dove
avevamo previsto di dormire in due, ora staremo in tre. Come già sapete non ci
sono materassi ma solo assi di legno. Attrezzatevi come meglio potete per
dormire un po' più comodi. Ci sono domande?». «Perché avete chiamato galera il
dormitorio?» chiese inquieta Helene. «Ma via, è uno scherzo... » minimizzò
Alexànder. «In effetti non sarà molto piacevole dormire in tanti laggiù, ma vi
avevo avvertito: il viaggio non sarà una passeggiata. Pensando alla meta che ci
aspetta, possiamo sopportare per un mese un po' di disagio!». «Credi davvero
che basti un mese?» domandò Martin, poco convinto. Cominciava a pentirsi di
aver aderito un po' alla cieca al progetto, spinto sia dall'istinto di fuga che
dal miraggio della Palestina. «Così
almeno assicura il capitano che ha molta esperienza; era un bravo ufficiale della
marina russa» rispose sicuro Alexander. Al suo fianco si materializzò una
figura spettrale, dallo sguardo allucinato. Nel volto pallido spiccava un
grande naso aquilino. L'uniforme gli pendeva da tutte le parti; si vedeva che
aveva avuto tempi migliori. (…)
|