Il
ragazzo di Auschwitz Steve
Ross (…) Dachau 29 aprile 1945 I
soldati dell’esercito americano si riversarono di corsa nel campo. Le guardie
tedesche che erano rimaste avevano messo giù i fucili, e ora che la loro sorte
era cambiata questi uomini sconfitti si acquattavano in posizioni servili
mentre i nostri liberatori aprivano le porte dei dormitori e lasciavano uscire
i prigionieri nei cortili. Qualsiasi cosa avessero visto i soldati alleati fino
ad allora, scoprirono che Dachau era più di quanto potessero sopportare. Nel
guardarci zoppicare all’aperto – distrutti, malconci, emaciati e sporchi –
molti di loro crollarono, furono disgustati, e le loro file furono tutte
percorse da pianti ed esclamazioni attonite. Forse fu per com’è fatta la natura
umana che alcuni di loro si girarono semplicemente verso i tedeschi e li
giustiziarono con rapidi colpi di pistola alla testa. Altri, rendendosi conto
che in seguito ci sarebbe stata una resa dei conti, cercarono di trattenere la
rabbia che continuava a salire ogni minuto. Poco tempo dopo, altre persone
vennero nel campo. Dottori e infermieri, camion carichi di cibo e acqua, nuovo
personale militare, giornalisti e cameramen. Tutti faticavano a venire a patti
con ciò che vedevano. I medici provarono a consolarmi, ma ero così malato, così
brutalizzato, e c’erano così tanti altri prigionieri come me di cui occuparsi,
che quando si resero conto che sarei sopravvissuto credo che smisero di provare
a darmi altro tipo di conforto. Le operazioni di salvataggio continuarono,
c’erano decine di soccorritori che passavano da una persona all’altra per
capire chi poteva essere curato e chi non aveva ormai più speranza, si
aggiravano tra noi piangendo sommessamente. A parte le poche ore che avevo
passato dormendo su una pila di cadaveri, questa fu l’unica volta nella mia
vita in cui sentii che mi ero arreso. Quella che doveva essere un’occasione da
celebrare si era invece rivelata solo un pretesto per porre fine alle mie
sofferenze. Adesso potevo andarmene semplicemente, in silenzio, senza dover più
sopportare il dolore, la fame. Non sarebbe importato a nessuno, forse non se ne
sarebbero neanche accorti; dopo tutto, era possibile che tutti i miei cari
fossero già morti. (…)
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