Noi, bambine ad Auschwitz
Andra e Tatiana Bucci
(...)
Un giorno, la blockova della baracca delle donne,
quella in apparenza più umana con noi due, ci annunciò che l’indomani ci
avrebbero radunati tutti, noi bambini, e ci avrebbero chiesto se volevamo
rivedere le nostre mamme. I tedeschi volevano dieci maschi e dieci femmine da
portare via. Noi non avremmo dovuto farci avanti, ci disse, per nessuna
ragione; dovevamo rifiutare l’offerta. Ma non aggiunse alcuna spiegazione. Le
assicurammo che avremmo ubbidito, forse anche perché la mamma stessa ci aveva
detto che non sarebbe più venuta a trovarci e noi già la credevamo morta.
Ovviamente, riferimmo le sue parole a Sergio. Gli dicemmo cosa sarebbe accaduto
e di non farsi avanti neppure lui, per nessun motivo. Il giorno dopo, in
effetti, ci radunarono tutti fuori dalla baracca. Era la fine di novembre,
mancava poco al compleanno di nostro cugino. Arrivò un uomo; questa volta non
portava il camice bianco, ma una normale divisa. Non sappiamo dire chi fosse.
Forse un ufficiale del campo o lo stesso dottor Heissmeyer, un ufficiale medico
nazista noto per praticare la sperimentazione su cavie umane. Ci fece la
domanda che aspettavamo: «Chi di voi vuole andare a trovare la mamma?». Noi due
rimanemmo immobili come statue. Sergio invece si fece avanti. Tati ricorda che
avanzò di un passo fuori della fila, Andra che alzò la mano. Forse entrambe le
cose, non è importante saperlo. Quello che conta è che a nulla erano valsi i
nostri avvertimenti. La sua voglia di rivedere la mamma era troppo forte. Come
dargli torto, del resto. Con quel crudele tranello i nazisti dimostrarono non
solo la loro cattiveria, ma anche tutta la loro perfidia e astuzia. Per Sergio
il richiamo della mamma era irresistibile. In fondo noi eravamo in due, fin da
piccole eravamo abituate a stare insieme. Sergio no, all’epoca era figlio
unico: solo dopo la guerra gli zii ebbero un altro bambino, nostro cugino
Mario. Per lui la mamma era davvero tutto; probabilmente ne pativa l’assenza
più di noi. Subito dopo, le SS radunarono i venti bambini così perfidamente selezionati
e li portarono verso la «rampa»: erano felici, non piangevano e non si
lamentavano, perché pensavano di andare a rivedere la mamma. Li salutammo con
le manine alzate, li vedemmo partire. Questo lo ricordiamo bene: tutti e venti
che salgono su un vagone, che ci guardano da dietro una sbarra. A pensarci
oggi, fu un inganno atroce. Venti piccoli angeli portati via illudendoli che
avrebbero rivisto la mamma. Dentro di noi sapevamo che non ci saremmo più
incontrati; ovviamente non ne avevamo la certezza. Era una sensazione, forse
dovuta al forte legame che avevamo con Sergio, forse all’ambiente in cui
stavamo, nel quale, se una persona veniva portata via, poi non tornava più.
Ricordiamo anche che da quel momento la nostra baracca fu certamente più vuota,
perché non arrivarono quasi più bambini, come non arrivarono più trasporti ad
Auschwitz. È stata quella l’ultima volta che abbiamo visto Sergio.
(…)
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