Il
mostro della memoria Yishai
Sarid (…) Ero bravo. Mi ingaggiavano sempre più spesso. A
volte non tornavo in Israele per due mesi e perciò affittai un appartamentino a
Varsavia, nella zona del vecchio ghetto, a un piano alto di un grande palazzone
di cemento costruito durante il comunismo, in una via parallela a quella
dov’era stato l’orfanotrofio di Janusz Korczak, oggi sede di una scuola
polacca. Voi contribuivate alle spese dell’affitto. Apprezzavate il mio lavoro
e ne traevate beneficio. Tra i palazzi c’era un grande spazio con un prato e giochi
per bambini. Quando il tempo era bello mi piaceva stare seduto su una panchina
a guardare i bambini, gli uccelli e le mamme polacche. Più di una volta proposi
a Ruth di venire a vivere lì con me e con Idò, temporaneamente, finché non ci
fossimo sistemati. Non diceva di no ma non facemmo mai nulla perché la cosa
andasse in porto. Sapevo che quel luogo aveva brulicato di vita ebraica ma era
molto difficile percepirlo. L’immaginazione non mi bastava. Di sera, negli
appartamenti di fronte al mio, si accendevano le luci. Famigliole sedute
attorno a un tavolo: padre, madre e un figlio, al massimo due. Spesso solo una
coppia. Fanno a malapena figli in Polonia, come se l’assenza degli ebrei ne
avesse eliminato il bisogno. Facevo molte passeggiate, fino alla città vecchia,
lungo le rive del fiume, e nei giorni d’inverno particolarmente gelidi rimanevo
a casa ad ascoltare musica. Mi piaceva Bach. Una sera fantasticai di essere un
suonatore di klezmer nella Polonia di trecento anni fa che strimpellava il
violino a matrimoni, cerimonie di circoncisione e celebrazioni, ed era venuto a
sapere di un geniale musicista in Germania, a Lipsia poniamo, che componeva
musica celestiale. Allora decidevo di lasciare tutto e di andare a ovest.
Quell’uomo mi avrebbe accettato come studente, come apprendista compositore?
Era ovvio che se mi fossi presentato con la kippah e le tzitzioth, le
tradizionali frange rituali, avrebbe rifiutato, e la cosa sarebbe stata
comprensibile. Dopo tutto non sarei potuto entrare vestito in quel modo nella
chiesa per la quale lavorava. Ma se avessi accettato di vestirmi come un goy,
un gentile, anche in quel caso avrebbe rifiutato? Insomma, mi domandai, Bach
era antisemita? La vista di un ebreo, il suo odore, il suo modo di parlare, lo
disgustavano? Avrei voluto con tutte le mie forze che la risposta fosse «No». (…)
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