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Lunario dei Giorni di Memoria


Trentaquattresima settimana

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Jakob il bugiardo 

Jurek Becker

 

(...) Improvvisamente si spalanca l’uscio, proprio il quindici, fortunatamente qui le porte si aprono in fuori, sicché quel tale che esce non può accorgersi di Jakob, che rimane coperto dalla porta. Per buona sorte anche quel tale lascia aperto l’uscio, ritornerà subito, quando ci si crede soli si lasciano gli usci aperti, così Jakob si ritrova al coperto. All’interno è accesa una radio, scoppietta un po’, di certo una delle loro radio a buon mercato, niente musica. Da quando si trova nel ghetto, Jakob non ha mai udito musica, nessuno di noi, solo quando qualcuno ha cantato. Uno speaker racconta fatti di scarso rilievo su un quartier generale, qualche morto è stato promosso tenente colonnello, segue qualcosa sull’approvvigionamento assicurato alla popolazione, poi allo speaker giunge appena la notizia: «In una disperata battaglia di difesa, le nostre truppe, che si battono eroicamente, sono riuscite a fermare l’attacco bolscevico a venti chilometri da Bezanika. Nel corso del combattimento, che da parte nostra...» Il tale rientra nella sua stanza, chiude la porta e il legno si fa troppo spesso. Jakob resta immobile, ha udito molto, Bezanika non è troppo lontana, non proprio a due passi, no ma non tanto infinitamente lontana. Non v’era mai stato, aveva qualche vaga notizia su Bezanika, è una minuscola cittadina; quando si passa col treno per Mieloworno, in direzione sudovest, via capoluogo Pry, dove il nonno materno gestiva una farmacia, se si cambia treno lì, in direzione di Kostawka, allora a un punto si giunge a Bezanika. Saranno forse quattrocento chilometri buoni, forse addirittura cinquecento, speriamo non di più, e si trovano lì in questo momento. Un morto, ha udito una buona notizia e si rallegra, si rallegrerebbe volentieri più a lungo, ma la situazione, l’ufficiale di picchetto lo attende, e Jakob deve proseguire. Il passo seguente è il più difficile, Jakob lo tenta invano. La manica della sua giacca è ben stretta tra lo stipite e la porta, il tale rientrando nella sua stanza lo ha incatenato senza la minima intenzione cattiva, si è semplicemente chiuso alle spalle l’uscio e Jakob ne è rimasto prigioniero. Tira cautamente, la porta è ben lavorata, chiude esattamente, niente interstizi superflui, non un foglio di carta vi scivolerebbe dentro. Jakob taglierebbe volentieri il pezzo di manica, il coltello lo ha a casa, non ha senso con i denti, di cui gli manca la metà. Considera di sfilarsi la giacca, di sfilarla semplicemente e lasciarla impigliata, a cosa gli serve ormai una giacca. Ha già sfilato una manica, ma gli viene in mente che la giacca gli serve, sì, ancora. Non per il prossimo inverno, se si sarà qui, il prossimo freddo non metterà paura; la giacca è necessaria per l’ufficiale di picchetto, nel caso gli riuscisse ancora di trovarlo, per l’ufficiale di picchetto che non vorrà certo sopportare la vista di un ebreo senza giacca, la camicia di Jakob è pulita e con pochissimi rammendi, ma difficilmente si sopporterà la vista di un ebreo senza stella sul petto e sulla schiena (paragrafo 1 del regolamento). L’estate scorsa le stelle erano cucite sulla camicia, si notano ancora i punti dell’ago, ma ora non più, ora sono sulla giacca. La infila nuovamente, rimane con le sue stelle, strappa con più energia, guadagna alcuni millimetri, non abbastanza. La situazione è, come si usa dire, disperata; tira con tutte le forze, qualcosa si lacera, fa rumore, e la porta si apre. Jakob cade a terra nel corridoio, su di lui sta un uomo, in borghese, e molto meravigliato, ride e si fa nuovamente serio. Cosa cerca lì, Jakob? Jakob si alza e sceglie molto oculatamente le parole. Non si trovava in strada dopo le otto di sera, no, la sentinella che lo aveva fermato aveva detto che erano già le otto di sera e che doveva presentarsi dal signor ufficiale di picchetto. «E quindi vieni a origliare qui?» «Non ho origliato. Non sono mai stato qui, non sapevo in quale stanza. Volevo appunto bussare qui». L’uomo non chiede altro, con la testa indica l’estremità del corridoio. Jakob cammina innanzi a lui, fin quando l’uomo dice «Qui» non è la stanza del capufficio. Jakob guarda l’uomo, bussa. L’uomo s’allontana, ma dall’interno nessuno risponde. «Entra» ordina l’uomo e scompare dietro il suo uscio, mentre Jakob gira la maniglia. Nella stanza dell’ufficiale di picchetto, Jakob rimane immobile accanto alla porta, il berretto, da quando è incappato nel riflettore, non l’ha più avuto in testa. L’ufficiale di picchetto è molto giovane, al più trent’anni. Ha capelli scuri, quasi neri, appena ondulati. Non si riconosce il suo grado, è in camicia, la giacca pende da un gancio sul muro in modo da non far distinguere le spalline. Sulla giacca è appeso il cinturone di cuoio con la rivoltella. La cosa in un certo qual senso è illogica, dovrebbe pendere di sotto la giacca, ci si toglie il cinturone e poi ci si sfila la giacca, ma quello è appeso sopra. L’ufficiale di picchetto dorme sdraiato su un divano di pelle nera. Jakob ritiene che dorma profondamente; egli ha già sentito dormire molta gente, vi ha fatto l’orecchio. Non russa, ma respira profondamente e regolarmente. Bisogna farsi notare in qualche maniera. Abitualmente si tossicchia, ma non sarebbe possibile, lo fai se vai da buoni conoscenti. O meglio, se ti rechi da un buon amico, nemmeno tossicchi allora, dici: «Svegliati, Salomone, ci sono io»; oppure gli picchi semplicemente sulla spalla. Ma tossicchiare è impossibile, è come stare a metà strada tra qui e Salomone. Jakob fa per bussare contro la porta, ma lascia cadere la mano, nota sulla scrivania un orologio, ma col quadrante girato. Deve sapere che ore sono, non esiste nulla che debba sapere tanto urgentemente. L’orologio indica le sette e trentasei, Jakob ritorna silenziosamente alla porta. Si sono burlati di te, non loro, ma quello dietro il riflettore, quello s’è burlato di te, e tu ci caschi. A Jakob restano ancora ventiquattro minuti, se si fosse onesti perfino ventiquattro minuti più il tempo che è rimasto lì.

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