Un mondo senza di noi Manuela
Dviri (...) Giugno 2014. Ero appena tornata in Israele, fiera di
aver fatto parte dell’importante delegazione dello storico incontro in Vaticano
con papa Francesco insieme al presidente israeliano Shimon Peres e al
presidente palestinese Abu Mazen, quando si scatenò un altro dei nostri inferni
mediorientali. All’inizio la prendemmo tutti abbastanza alla leggera. Siamo
abituati a questi conflitti stagionali, che si accendono quasi sempre d’estate:
una volta con Gaza, una volta con la Hezbollah libanese... Durano un paio di
settimane, al massimo un mese. Anche ai razzi che Hamas lancia su Tel Aviv
abbiamo fatto faticosamente l’abitudine, dopo lo shock della prima volta, nel
2012. Questa volta fu diverso. Per chi viveva al sud la vita divenne una
infernale e interminabile corsa ai rifugi o agli “spazi protetti” – così li
chiamano – scandita dall’ululato, quasi un muggito, degli allarmi, che ripetono
monotoni sempre lo stesso messaggio: hai quindici secondi di tempo, tra
l’allarme e l’esplosione. Uno strano silenzio cadde sul paese tra un allarme e
l’altro, interrotto solo dal continuo chiacchiericcio televisivo di ex
generali, ex colonnelli, ex capi di stato maggiore, ex politici ed ex ministri.
Lentamente iniziarono a sparire dalle città i turisti, poi a svuotarsi un po’ le
strade, e i bar, e i mercati, e anche i ristoranti; se ti capitava un allarme
mentre eri fuori casa, avevi ben un minuto e mezzo per correre a rifugiarti
all’interno del primo palazzo che ti capitava. Una buona occasione per fare
conversazione con perfetti sconosciuti. Per me, che la guardavo dalle ampie
finestre della mia casa di Tel Aviv, la guerra fu all’inizio una guerra di
lusso. Certa che non mi sarebbe successo nulla e che i razzi sarebbe stati
tutti intercettati, come al tiro al piattello, dal sofisticato sistema di
difesa inventato da un ingegnere israeliano, mi trovai a passare buona parte
delle giornate seduta più o meno tranquillamente sul divano del salotto, contro
l’unico muro divisorio di casa che non fosse di cartongesso: era questo, per l’occasione,
il nostro “spazio protetto”, che doveva difenderci dai missili di Gaza. I miei
figli, che nelle loro case nuove di zecca hanno fior di rifugi, mi prendevano
un po’ in giro. D’altro canto, quando l’architetto Cohen aveva progettato negli
anni Quaranta la nostra palazzina bianca in stile Bauhaus, nel suo inguaribile
ottimismo non aveva pensato di dotarla anche di un rifugio antiaereo,
antimissili e affini. Chissà quando era arrivato lui in Israele, e come. E
com’era riuscito a scappare in tempo. Forse, dopotutto, non era stato poi così
ottimista, altrimenti sarebbe rimasto in Germania e la nostra palazzina
l’avrebbe costruita qualcun altro. Sono ormai quarantasei anni, quattro guerre,
due intifade e due “operazioni militari” che vivo in Israele e ho vissuto qui
momenti difficili: corse al rifugio con i bambini in braccio, sirene,
attentati, mesi passati in casa ad aspettare un marito richiamato sotto le armi
come riservista. Dalla guerra del Kippur tornò dopo sei mesi, io vivevo da
cinque anni in questo paese e avevo due bambini piccoli. Non amo le guerre.
Sono disobbediente di natura e il patriottismo, che un letterato inglese del
Settecento definì «l’ultimo rifugio dei mascalzoni», mi spaventa: non mi
commuovo tanto facilmente quando i media comunicano che il fronte di battaglia
abbraccia il fronte interno, il fronte interno abbraccia il fronte di battaglia
e la popolazione abbraccia i combattenti e così via. Le guerre mi fanno star
male, altro che abbracci. Angosciata, riuscii per ben due volte a posticipare
la partenza per l’Italia, a lungo progettata e attesa tutto l’inverno, ma poi
dovetti partire. Malvolentieri, ma partii. In Italia, al sole abbagliante di
Tel Aviv si sostituì un cielo grigio e uggioso, quasi autunnale. Nel frattempo l’esercito aveva mobilitato i
riservisti, e si era mosso alla volta di Gaza. Ben presto cominciarono ad
arrivare i nomi dei primi morti israeliani. E dei molti, moltissimi, troppi
morti palestinesi. In Italia mi sentivo terribilmente sola e fuori luogo, quasi
estranea. Stavo male. Non dormivo la notte. Riuscivo a provare solo dolore. Per
i volti sconosciuti dei “loro”, per quelli conosciuti dei “nostri”. Quando
prendevo sonno sognavo i tunnel scoperti dai soldati israeliani: partivano da
Gaza per finire dall’altra parte, sotto i salotti e le camere da letto degli
abitanti dei kibbutz di frontiera. Dentro ci avevano trovato divise dell’IDF,
Israel Defense Forces, e poi armi, sonniferi, persino motociclette. “Il
nemico”, questa entità confusa e senza volto, aveva creato un mondo
sotterraneo, una cupa realtà parallela, da cui far partire un’offensiva ben
organizzata per rapire e uccidere civili e soldati, uomini, donne e
bambini. Passavo le giornate e gran
parte delle notti a cercare aggiornamenti da Israele, digitando sullo schermo
del cellulare. E lui, per quanto “intelligente”, prendeva a fatica, e poi,
manco a farlo apposta, smise di funzionare. La batteria non si caricava più.
Forse anche lui non ne poteva più. Ero
terrorizzata dall’idea di perdere i contatti della rubrica, di rimanere
isolata. Sola. Di non poter più parlare con nessuno. Ogni motoretta che passava
si trasformava nell’urlo dell’allarme. Poi trovai una ciambella di salvataggio.
Una scatola nera, più piccola di un libro, più grande di un pacchetto di sigarette.
Un hard disk esterno del computer, dimenticato mesi prima in un cassetto di una
casa di Padova, nel corso dei miei vagabondaggi non solo informatici. La
definizione “hard disk” è tecnicamente corretta, ma troppo fredda e inadeguata
al caso mio. Perché dentro c’era qualcosa di caldo: un museo di cimeli, un
album di volti, un viaggio nel passato. Memoria, o meglio somma di memorie, di
vite, di volti, di pianti e di sorrisi. Dentro, sotto l’involucro di plastica
nera, mi aspettavano centinaia di foto, pagine e pagine di diari, lettere,
trascrizioni di colloqui. Documenti stesi come panni al sole – di Ragusa, e di
molti altri luoghi – appesi ai fili della mia, della nostra, delle nostre vite.
Storie, raccolte durante il lungo e tranquillo inverno che aveva preceduto
quell’estate difficile. C’era questa storia. Me ne immersi e vi trovai
conforto. Il ricordo dei miei nonni, bisnonni e trisavoli, di mio padre e di
mia madre, dei loro zii e cugini, amici e compagni di avventura e di sventura
sembrava uscire da quella scatola per accompagnarmi e darmi conforto nelle ore
più angoscianti di quell’estate. Siamo gente che non si arrende, mi dissi.
Maestri della sopravvivenza. Anche loro non sapevano se ce l’avrebbero fatta.
Ma non si arresero. I fili che reggevano il nostro passato, per quanto sottili,
erano forti. (…)
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