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Lunario dei Giorni di Memoria


Trentesima settimana

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Il silenzio di Abram

Marcello Kalowski – Laterza

(…) Alla fine avevo accettato l’invito che mi era stato rivolto durante la nostra prima visita in Israele e dall’età di quindici anni ho cominciato a trascorrere ogni estate almeno due mesi nel kibbutz Mahalé Hachamishà, dove vivono gli amici di mio padre.  Sin dal primo soggiorno l’esperienza in questa piccola comunità, apparentemente ruvida e fortificata, in realtà dolce ed aperta, in cui ci si nutre di lavoro e cultura, in cui si è consapevoli di non aver realizzato l’utopia ma si è orgogliosi di averne intrapreso il cammino, si rivela entusiasmante. La sensazione che provo nel rivivere atmosfere che immagino abbiano caratterizzato gli albori del sionismo e che hanno sicuramente accompagnato la fanciullezza di mio padre è piacevole e stimolante, anche se mi rendo perfettamente conto che le condizioni di vita che offre il kibbutz attualmente sono molto diverse da quelle in cui si trovavano ad operare i primi pionieri. Questa è la terza estate consecutiva che trascorro in kibbutz e ormai ho parecchi amici. Il fatto che io sia italiano suscita l’interesse dei residenti, avvezzi ad ospitare principalmente pallidi studenti americani, così come gioca a mio favore la già dimostrata capacità di sapermi calare perfettamente nello spirito e nell’atmosfera della vita del kibbutz.  Essendo un veterano vengo assegnato al lavoro nei campi di cotone, quello più duro ma considerato il più prestigioso, perché la coltivazione del cotone è la principale fonte di ricchezza. Mi viene affidato un trattore, un vecchio Fiat cingolato, con il quale spiano e preparo il terreno per la coltivazione, anche questo è un segno di stima, a nessuno che non sia un residente viene affidata una simile responsabilità. Nessuno mi controlla, sanno che lavoro bene.  La lingua ebraica mi è sempre più familiare e questo facilita il mio processo d’integrazione, inclusa l’intima amicizia che riesco ad intrecciare con una «sabra» del confinante kibbutz di Kiryat Hannavim; divento buon amico di un contadino palestinese, Mahmoud, che lavora con me nei campi di cotone e che mi invita un paio di volte a bere il tè a casa sua nel vicino villaggio arabo di Abu Gosh. Insomma, mi sento totalmente a mio agio, a casa, e questa sensazione di benessere, di assoluta confidenza fa maturare e crescere la convinzione che Israele sia il posto che fa per me, dove voglio vivere. Questo proposito è rafforzato anche dalla convinzione che in questo modo, forse l’unico modo, io possa essere d’aiuto a mio padre. Sono sicuro che se io mi trasferissi in Israele lui prima o poi mi seguirebbe, ritrovando, almeno in parte, il profumo familiare di casa, della sua gioventù; soprattutto sono convinto che in questo modo lui riuscirebbe a cancellare tutti gli anni di sofferenza, la guerra, il ghetto, il campo, la malattia, la depressione, che hanno condotto la sua vita lungo un binario morto, come quello che terminava ad Auschwitz, e a riprendere un percorso che ristabilisca la linearità del cammino che mani assassine hanno deviato, spingendolo dentro un buco nero.

(…)

 Quando, dopo avere conseguito la maturità, trascorro la mia solita estate in kibbutz, la mia decisione è presa e, al termine delle vacanze, considero il mio rientro in Italia solo come un breve intervallo prima del trasferimento in Israele. I miei sono colti di sorpresa, e se l’ansia di mia madre schizza alle stelle, anche perché nel frattempo è scoppiata la guerra del Kippur, mio padre sembra invece confermare le mie speranze. Una luce ritrovata accende i suoi occhi, è animato da una vitalità da tempo sconosciuta, mi cerca, mi parla, vuole sapere, chiama in continuazione i suoi amici israeliani, è presente. La vigilia della partenza succede quello che non accadeva da molto tempo, parliamo, anzi parla lui, inaspettatamente sbroglia il filo di quel racconto, in realtà ancora reticente e frammentario, che con l’insorgere della depressione si è sempre più ritirato dentro di lui attorcigliandosi e formando nodi inestricabili. Mi passa ufficialmente il testimone, affida a me il compito di percorrere l’ultimo tratto di pista e mi racconta del movimento giovanile sionista che lui frequentava a Łódź, dei continui ammonimenti, mentre le nubi si addensavano in lontananza e preannunciavano il temporale. (...)




















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