Il
silenzio di Abram Marcello
Kalowski – Laterza (…) Alla fine avevo
accettato l’invito che mi era stato rivolto durante la nostra prima visita in
Israele e dall’età di quindici anni ho cominciato a trascorrere ogni estate
almeno due mesi nel kibbutz Mahalé Hachamishà, dove vivono gli amici di mio
padre. Sin dal primo soggiorno
l’esperienza in questa piccola comunità, apparentemente ruvida e fortificata,
in realtà dolce ed aperta, in cui ci si nutre di lavoro e cultura, in cui si è
consapevoli di non aver realizzato l’utopia ma si è orgogliosi di averne
intrapreso il cammino, si rivela entusiasmante. La sensazione che provo nel
rivivere atmosfere che immagino abbiano caratterizzato gli albori del sionismo
e che hanno sicuramente accompagnato la fanciullezza di mio padre è piacevole e
stimolante, anche se mi rendo perfettamente conto che le condizioni di vita che
offre il kibbutz attualmente sono molto diverse da quelle in cui si trovavano
ad operare i primi pionieri. Questa è la terza estate consecutiva che trascorro
in kibbutz e ormai ho parecchi amici. Il fatto che io sia italiano suscita
l’interesse dei residenti, avvezzi ad ospitare principalmente pallidi studenti
americani, così come gioca a mio favore la già dimostrata capacità di sapermi
calare perfettamente nello spirito e nell’atmosfera della vita del
kibbutz. Essendo un veterano vengo
assegnato al lavoro nei campi di cotone, quello più duro ma considerato il più
prestigioso, perché la coltivazione del cotone è la principale fonte di
ricchezza. Mi viene affidato un trattore, un vecchio Fiat cingolato, con il
quale spiano e preparo il terreno per la coltivazione, anche questo è un segno
di stima, a nessuno che non sia un residente viene affidata una simile
responsabilità. Nessuno mi controlla, sanno che lavoro bene. La lingua ebraica mi è sempre più familiare e
questo facilita il mio processo d’integrazione, inclusa l’intima amicizia che
riesco ad intrecciare con una «sabra» del confinante kibbutz di Kiryat
Hannavim; divento buon amico di un contadino palestinese, Mahmoud, che lavora
con me nei campi di cotone e che mi invita un paio di volte a bere il tè a casa
sua nel vicino villaggio arabo di Abu Gosh. Insomma, mi sento totalmente a mio
agio, a casa, e questa sensazione di benessere, di assoluta confidenza fa
maturare e crescere la convinzione che Israele sia il posto che fa per me, dove
voglio vivere. Questo proposito è rafforzato anche dalla convinzione che in
questo modo, forse l’unico modo, io possa essere d’aiuto a mio padre. Sono
sicuro che se io mi trasferissi in Israele lui prima o poi mi seguirebbe,
ritrovando, almeno in parte, il profumo familiare di casa, della sua gioventù;
soprattutto sono convinto che in questo modo lui riuscirebbe a cancellare tutti
gli anni di sofferenza, la guerra, il ghetto, il campo, la malattia, la
depressione, che hanno condotto la sua vita lungo un binario morto, come quello
che terminava ad Auschwitz, e a riprendere un percorso che ristabilisca la
linearità del cammino che mani assassine hanno deviato, spingendolo dentro un
buco nero. (…) Quando, dopo avere conseguito la maturità,
trascorro la mia solita estate in kibbutz, la mia decisione è presa e, al
termine delle vacanze, considero il mio rientro in Italia solo come un breve
intervallo prima del trasferimento in Israele. I miei sono colti di sorpresa, e
se l’ansia di mia madre schizza alle stelle, anche perché nel frattempo è
scoppiata la guerra del Kippur, mio padre sembra invece confermare le mie
speranze. Una luce ritrovata accende i suoi occhi, è animato da una vitalità da
tempo sconosciuta, mi cerca, mi parla, vuole sapere, chiama in continuazione i
suoi amici israeliani, è presente. La vigilia della partenza succede quello che
non accadeva da molto tempo, parliamo, anzi parla lui, inaspettatamente
sbroglia il filo di quel racconto, in realtà ancora reticente e frammentario,
che con l’insorgere della depressione si è sempre più ritirato dentro di lui
attorcigliandosi e formando nodi inestricabili. Mi passa ufficialmente il
testimone, affida a me il compito di percorrere l’ultimo tratto di pista e mi
racconta del movimento giovanile sionista che lui frequentava a Łódź, dei
continui ammonimenti, mentre le nubi si addensavano in lontananza e
preannunciavano il temporale. (...)
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