Lunario
dei Giorni di Scuola Lunario dei Giorni
di Paura Lunario dei Giorni
Se questo è un uomo Primo Levi (...) 25 gennaio. Fu la volta di Sómogyi. Era un chimico
ungherese sulla cinquantina, magro, alto e taciturno. Come l’olandese, era
convalescente di tifo e di scarlattina; ma sopravvenne qualcosa di nuovo. Fu
preso da una febbre intensa. Da forse cinque giorni non aveva detto parola:
aprí bocca quel giorno e disse con voce ferma: – Ho una razione di pane sotto
il saccone. Dividetela voi tre. Io non mangerò piú. Non trovammo nulla da dire,
ma per allora non toccammo il pane. Gli si era gonfiata una metà del viso.
Finché conservò coscienza, rimase chiuso in un silenzio aspro. Ma a sera, e per
tutta la notte, e per due giorni senza interruzione, il silenzio fu sciolto dal
delirio. Seguendo un ultimo interminabile sogno di remissione e di schiavitú,
prese a mormorare «Jawohl» ad ogni emissione di respiro; regolare e costante
come una macchina, «Jawohl» ad ogni abbassarsi della povera rastrelliera delle
costole, migliaia di volte, tanto da far venire voglia di scuoterlo, di
soffocarlo, o che almeno cambiasse parola. Non ho mai capito come allora quanto
sia laboriosa la morte di un uomo. Fuori ancora il grande silenzio. Il numero
dei corvi era molto aumentato, e tutti sapevano perché. Solo a lunghi
intervalli si risvegliava il dialogo dell’artiglieria. Tutti si dicevano a
vicenda che i russi presto, subito, sarebbero arrivati; tutti lo proclamavano,
tutti ne erano certi, ma nessuno riusciva a farsene serenamente capace. Perché
nei Lager si perde l’abitudine di sperare, e anche la fiducia nella propria
ragione. In Lager pensare è inutile, perché gli eventi si svolgono per lo piú
in modo imprevedibile; ed è dannoso, perché mantiene viva una sensibilità che è
fonte di dolore, e che qualche provvida legge naturale ottunde quando le
sofferenze sorpassano un certo limite. Come della gioia, della paura, del
dolore medesimo, cosí anche dell’attesa ci si stanca. Arrivati al 25 gennaio,
rotti da otto giorni i rapporti con quel feroce mondo che pure era un mondo, i
piú fra noi erano troppo esausti perfino per attendere. A sera, intorno alla
stufa, ancora una volta Charles, Arthur ed io ci sentimmo ridiventare uomini.
Potevamo parlare di tutto. Mi appassionava il discorso di Arthur sul modo come
si passano le domeniche a Provenchères nei Vosgi, e Charles piangeva quasi
quando io gli raccontai dell’armistizio in Italia, dell’inizio torbido e
disperato della resistenza partigiana, dell’uomo che ci aveva traditi e della
nostra cattura sulle montagne. Nel buio, dietro e sopra di noi, gli otto malati
non perdevano una sillaba, anche quelli che non capivano il francese. Soltanto
Sómogyi si accaniva a confermare alla morte la sua dedizione. 26 gennaio. Noi
giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà era
sparita intorno a noi e dentro di noi. L’opera di bestializzazione, intrapresa
dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimento dai tedeschi disfatti.
È uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso
ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino
finisse di morire per togliergli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, piú
lontano dal modello dell’uomo pensante, che il piú rozzo pigmeo e il sadico piú
atroce. Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco
perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato
una cosa agli occhi dell’uomo. Noi tre ne fummo in gran parte immuni, e ce ne
dobbiamo mutua gratitudine; perciò la mia amicizia con Charles resisterà al
tempo. Ma a migliaia di metri sopra di noi, negli squarci fra le nuvole grige,
si svolgevano i complicati miracoli dei duelli aerei. Sopra noi, nudi impotenti
inermi, uomini del nostro tempo cercavano la reciproca morte coi piú raffinati
strumenti. Un loro gesto del dito poteva provocare la distruzione del campo
intero, annientare migliaia di uomini; mentre la somma di tutte le nostre
energie e volontà non sarebbe bastata a prolungare di un minuto la vita di uno
solo di noi. La sarabanda cessò a notte, e la camera fu di nuovo piena del
monologo di Sómogyi. In piena oscurità mi trovai sveglio di soprassalto.
«L’pauv’ vieux» taceva: aveva finito. Con l’ultimo sussulto di vita si era
buttato a terra dalla cuccetta: ho udito l’urto delle ginocchia, delle anche,
delle spalle e del capo. – La mort l’a chassé de son lit, – definí Arthur. Non
potevamo certo portarlo fuori nella notte. Non ci restava che riaddormentarci.
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