A rivederci in cielo. La storia di Angela Reinhardt
Michail Krausnick - Upre Roma(...)
Alcuni giorni dopo c’era
di nuovo una Mercedes nel cortile, veniva da Stoccarda. Ne scesero due uomini
con lunghi soprabiti di pelle nera. Angela e le sue amiche erano sedute a
tavola e giocavano a «Mensch ärgere dich nicht!» quando entrò suor Eusebia dicendo:
«Tutti quelli che si chiamano Reinhardt, Pfaus, Kurz, Georges, Mai, Köhler,
Eckstein subito fuori, mettetevi in fila giù nel corridoio». Tutti i bambini
uscirono, anche Angela. Poiché suo padre si chiamava Franz Reinhardt anche lei
si mise in fila. «Farete tutti una bella gita», annunciò suor Eusebia. «Dal
momento che viaggerete con l’autobus e con il treno, ognuno ha bisogno di una
tessera con la foto e l’impronta del dito». Gli uomini si erano seduti nel
laboratorio e prendevano l’impronta dell’indice destro su un modulo
prestampato, secondo le prescrizioni dell’Ufficio centrale della sicurezza del
Reich. «Come dalla polizia criminale, come un gangster!». Il primo ragazzo che
uscì dal laboratorio mostrò orgoglioso il suo dito nero. Quando suor Agneta
scoprì Angela in fila con gli altri bambini, la tirò fuori dalla fila. «Anscha,
tu non c’entri. Tu ti chiami Schwarz. Tienlo a mente, una volta per tutte!». Quando
gli uomini ebbero finito - erano davvero della polizia criminale di Stoccarda –
se ne andarono e dopo un po’ i bambini se ne erano dimenticati. Però si parlava
sempre più spesso della grande gita. Dove si sarebbe fatta? In montagna? Al
lago di Costanza? A un castello del re? Angela non voleva semplicemente credere
che le suore non volevano far partecipare proprio lei. Perché? Aveva forse
rotto qualcosa? La maggior parte dei
bambini non aveva mai viaggiato in treno. Angela doveva raccontare ai piccoli nei
minimi dettagli il suo viaggio in treno con la madre. Come sono i sedili, se ci
sono delle vere toilette, a che velocità va, se i finestrini sono aperti anche
durante il viaggio, come è fatto un biglietto e dove il controllore fa il buco.
Nelle pause i bambini giocavano nel cortile al macchinista, al fuochista, al
controllore e al capostazione e le ragazze erano i viaggiatori e dovevano
sempre mostrare i loro biglietti. E cantavano: «Auf der schwäb’sche Eisebahne
Gibt es viele Haltstatione…». La gioia dell’attesa era grande. Settimane più tardi, era
intanto arrivata la primavera e nel cortile non si respirava più la puzza del
letame delle stalle ma il profumo dei lillà, una sera arrivò il parroco Boldt e
ordinò a tutti i bambini che avevano lasciato le impronte digitali di venire
con lui nella cappella. Con i vestiti della domenica e le calze bianche. Era
tutto molto misterioso. Ancora una volta Angela non poteva partecipare, ciononostante
andò dietro ai bambini. Doveva attraversare la sala e salire le scale perché la
cappella era al primo piano dell’istituto. Le piaceva stare lì. Vicino
all’altare c’era una Madonna vestita di blu e oro e con la corona e gli
ornamenti di una regina. Ma soprattutto questa Maria aveva un volto così bello
da innamorarsi. Angela la pregava di nascosto quando aveva nostalgia del suo
Dada e della sua Mama. Angela era una bambina
curiosa. Lo dicevano tutti. «Forse un giorno divento un detective e risolvo
tutti i crimini», aveva detto una volta alla sua amica Maria. Si nascose tra i banchi
dell’ultima fila e vide qualcosa di molto strano: vide il signor parroco dare
la santa comunione a tutti i bambini. Anche ai più piccoli che non avevano
ancora fatto la prima comunione. Le suore della misericordia pregavano e
cantavano. Una suonava l’organo. Angela non capiva più niente. Uno o due mesi
prima lei stessa stava, vestita di bianco come una sposa, di fianco alla santa
vergine. La sua grande giornata, attesa con ansia da anni. E oggi, tutto a un
tratto, toccava a tutti, senza catechismo, persino per i più piccoli. Cosa
voleva dire? Questo non era giusto, non era neanche corretto. Quando i bambini
uscirono dalla cappella, Elisabeth, che aveva otto anni, era illuminata di
gioia e saltellava sulle piastrelle. Una bambina più grande, una delle Köhler,
aveva gli occhi rossi di pianto. «Cosa succede? », domandò Angela. «Come mai i
piccoli ricevono i santi sacramenti?». «Comunione di emergenza. Nel caso
succedesse una disgrazia…». «Basta voi, via, separatevi!», sibilò la madre
superiora. Aveva male all’anca, zoppicò fino a loro e spinse via Angela. «Tu
non c’entri!». La sera seguente, poco
prima di andare a letto, suor Eusebia disse: «Tutti quelli che vanno alla gita
domattina devono alzarsi molto presto. Bene, e adesso recitiamo tutti insieme
le preghiere della sera». Angela credeva ancora alla gita e pensava piena
di rancore: «Perché solo io, perché
proprio io non ci posso andare?». All’alba del 9 Maggio del 1944 i bambini si
dovettero alzare molto presto. Era uno
splendido giorno di primavera. I prati erano coperti di rugiada e sui pendii
delle colline fiorivano gli alberi da frutto. In realtà quel giorno ci sarebbe
dovuta essere una grande festa, poiché era una data particolare: l’onomastico
della madre superiora. La signorina Hägele aveva fatto imparare a memoria ai
suoi alunni poesie e canzoni per l’occasione. An- che Angela ne aveva imparata
una. Ora tutto ciò non era più importante. Angela aiutò di malumore
le bambine più piccole a farsi le trecce, a pettinarsi e a vestirsi. C’era una
strana atmosfera. Tutti erano eccitati e nervosi. Questa volta c’erano cose
speciali per colazione. Non più l’orribile zuppa di pane ma pane fresco e
croccante, margarina e marmellata di fragole e un caldo deliziosamente
profumato Linde-Kaffee. Suor Roswitha si aggirava con una bottiglia di
«Goldwasser di Mulfingen», come veniva chiamato l’olio di fegato di merluzzo
che dovevano prendere sempre per irrobustirsi. L’olio aveva un gusto orrendo e
inghiottirlo era una tortura. Tutti dovevano prenderne un cucchiaio. C’era chi
stava così male per l’odore di pesce che doveva scappar fuori. Quando suor
Roswitha arrivò da lei Angela disse, caparbia, cercando di respingere il
cucchiaio: «No grazie, io non c’entro!». Ma la suora le disse, ficcandole in
bocca il cucchiaio: «Sei proprio tu quella che ha bisogno di irrobustirsi,
bambina mia!». Un’altra suora passava di tavolo in tavolo e consegnava a
ciascuno i suoi piccoli risparmi ritirati dalla Cassa di risparmio di
Künzelsau: un paio di marchi, Groschen e Pfennige, frutto del proprio lavoro o
regalati dai genitori. E qualche volta anche uno dei premi in moneta messi in
palio dalla ricercatrice sulla razza. «Per cosa?», chiese
Andreas. «A cosa mi servono cinque marchi e trentadue? È per il biglietto?». «Perché
vi possiate comprare qualcosa durante il viaggio, un minestra, un po’ di pane.
Ogni bambino firmi qui che ha ricevuto i suoi soldi». «Perché?». «Perché ogni
cosa ha il suo ordine». Poi scesero nella grande
sala d’ingresso, dove si dovettero mettere in fila per due. Le suore
controllarono ancora una volta che fossero tutti in ordine ripassando la
scriminatura dei ragazzi. «Non dovete mica sembrare degli zingari!». Angela
sperava sempre ancora nel miracolo di poter partecipare e fece un ultimo
tentativo. Si mise semplicemente in fila accanto alla sua amica Maria. Ma anche
questa volta suor Agneta la scoprì e la tirò fuori dalla fila. «Via! Via! Tu
non c’entri!». «Invece sì! Voglio andare anch’io!», protestò scuotendo la
testa. E allora si prese una sonora sberla. Proprio dalla sua suora preferita,
alla cui tonaca si aggrappava quando aveva paura e che le aveva asciugato le
lacrime quando era andata a sbattere contro un muro con la slitta. «Fila, in
camerata, sotto le coperte e chiudi gli occhi!». Suor Agneta era improvvisamente
diventata paonazza. Angela salì le scale lentamente, molto lentamente. Era proprio
furibonda. Furibonda e triste. La sberla bruciava e benché non vedesse nulla
attraverso le lacrime, sentiva che tutti guardavano lei, quella che non
c’entrava. E una delle più piccole
le gridò dietro «Noi andiamo in gita e tu no!». (...)
|