All’ombra
del lungo camino Andrea
Molesini (...) A dispetto della mole, il
caporale camminava svelto, in su e in giù, con passo preciso, sicuro come
quello di un automa. «Questi vostri amici huuu hanno cercato di fuggire ieri
sera huuu.» Piantò gli stivali nel fango e volse il petto, cosparso degli argentei
tintinnii delle medaglie, alle poche centinaia di scheletri ambulanti che
restavano nel campo. «Questi pidocchi ora pagheranno per il loro gesto idiota
huuu ma non saranno i soli a pagare. Verranno impiccati non sette ma
quattordici di voi schiavi huuu e saranno questi sette “eroi” a scegliere i
loro huuu compagni di morte, saranno sette angeli della morte huuu per
altrettanti di voi.» Il fischio dell’asma si mescolò a una tintinnante e
prolungata risata. «Sai pregare?» Merlino, senza muovere un muscolo, girò gli
occhi alla sua destra e fissò il profilo del ragazzo che gli stava accanto.
“Non ha più di tredici anni” pensò, ispezionandogli la peluria del viso
smagrito con la coda dell’occhio. «Sai pregare?» ripeté, a voce bassissima, il
ragazzo. «No» mormorò lo zingaro. “E faresti bene a tacere” aggiunse col
pensiero. Il ragazzo, per qualche strana magia che era nell’aria, udì, e
tacque. I sette scheletrici “pidocchi”, a un cenno dello scudiscio del
grassone, si mossero verso la folla che sostava sull’attenti. Lo sguardo rapido
di Merlino esaminò, una dopo l’altra, le tre torrette che svettavano sopra il
reticolato. Le mitragliatrici erano puntate al centro del campo, dritte su di
loro, e gli elmetti lontani delle SS scintillavano nella luce annacquata dal grigiore
del mattino. “Maledetti bastardi” pensò lo zingaro. Non era la crudeltà degli
aguzzini che lo feriva di più, ma quella continua umiliazione, l’essere chiusi
come porci in un recinto, esposti alla frusta e al capriccio di un pazzo.
L’essere trattati come animali, alla lunga, rende animali. Perfino quel numero
impresso a fuoco sulla pelle del polso, che sostituiva il nome, altro non era
che il primo passo per trasformare in bestia il prigioniero. Queste tetre
considerazioni attraversavano il cuore dello zingaro, quando la spallata
involontaria di un compagno di prigionia lo fece vacillare. Era uno dei sette
prescelti che, preso per mano dal compagno destinato all’impiccagione,
barcollava, ma senza nemmeno la volontà di recalcitrare, fuori dal gruppo dei
prigionieri schierati. «Schnell, pidocchi! Huuu» e il sibilo dello scudiscio si
spense con un tonfo sulla schiena di un deportato che si mostrava incerto nel
seguire il proprio angelo dello sterminio. «Vigliacchi» mormorò il ragazzo.
«Zitto, scemo» fece lo zingaro, senza quasi muovere le labbra. Uno dopo
l’altro, con una lentezza commovente, i sette angeli della morte – come li
aveva chiamati il caporale – avevano scelto i compagni da portare sul patibolo.
Merlino non mosse un muscolo e non tradì un’emozione; aveva imparato che la
cosa più importante era non farsi mai notare né dalle SS né dai compagni.
Quando uno dei sette si fermò davanti a lui, Merlino non fece niente, non mosse
gli occhi, non accennò a un sorriso, e l’angelo pallido, scavato dalla fame, si
spostò alla sua sinistra e mise una mano sulla spalla del prigioniero 193314.
Allo zingaro non sfuggì nemmeno un sospiro di sollievo. A mezzogiorno la neve,
che per lunghe ore era caduta sui prigionieri, costretti all’immobilità
dell’attenti, cominciò a sciogliersi e a infradiciare anche i panni dei
quattordici impiccati che penzolavano davanti alle baracche vuote. E sotto
quelle bianche candele umane abbandonate al capriccio del vento sfilarono in
silenzio, con la gamella del rancio semicolma di un’acquosa brodaglia, i
quattrocento sopravvissuti. (...)
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