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Lunario dei Giorni di Memoria


Ventisettesima settimana

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All’ombra del lungo camino

Andrea Molesini

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A dispetto della mole, il caporale camminava svelto, in su e in giù, con passo preciso, sicuro come quello di un automa. «Questi vostri amici huuu hanno cercato di fuggire ieri sera huuu.» Piantò gli stivali nel fango e volse il petto, cosparso degli argentei tintinnii delle medaglie, alle poche centinaia di scheletri ambulanti che restavano nel campo. «Questi pidocchi ora pagheranno per il loro gesto idiota huuu ma non saranno i soli a pagare. Verranno impiccati non sette ma quattordici di voi schiavi huuu e saranno questi sette “eroi” a scegliere i loro huuu compagni di morte, saranno sette angeli della morte huuu per altrettanti di voi.» Il fischio dell’asma si mescolò a una tintinnante e prolungata risata. «Sai pregare?» Merlino, senza muovere un muscolo, girò gli occhi alla sua destra e fissò il profilo del ragazzo che gli stava accanto. “Non ha più di tredici anni” pensò, ispezionandogli la peluria del viso smagrito con la coda dell’occhio. «Sai pregare?» ripeté, a voce bassissima, il ragazzo. «No» mormorò lo zingaro. “E faresti bene a tacere” aggiunse col pensiero. Il ragazzo, per qualche strana magia che era nell’aria, udì, e tacque. I sette scheletrici “pidocchi”, a un cenno dello scudiscio del grassone, si mossero verso la folla che sostava sull’attenti. Lo sguardo rapido di Merlino esaminò, una dopo l’altra, le tre torrette che svettavano sopra il reticolato. Le mitragliatrici erano puntate al centro del campo, dritte su di loro, e gli elmetti lontani delle SS scintillavano nella luce annacquata dal grigiore del mattino. “Maledetti bastardi” pensò lo zingaro. Non era la crudeltà degli aguzzini che lo feriva di più, ma quella continua umiliazione, l’essere chiusi come porci in un recinto, esposti alla frusta e al capriccio di un pazzo. L’essere trattati come animali, alla lunga, rende animali. Perfino quel numero impresso a fuoco sulla pelle del polso, che sostituiva il nome, altro non era che il primo passo per trasformare in bestia il prigioniero. Queste tetre considerazioni attraversavano il cuore dello zingaro, quando la spallata involontaria di un compagno di prigionia lo fece vacillare. Era uno dei sette prescelti che, preso per mano dal compagno destinato all’impiccagione, barcollava, ma senza nemmeno la volontà di recalcitrare, fuori dal gruppo dei prigionieri schierati. «Schnell, pidocchi! Huuu» e il sibilo dello scudiscio si spense con un tonfo sulla schiena di un deportato che si mostrava incerto nel seguire il proprio angelo dello sterminio. «Vigliacchi» mormorò il ragazzo. «Zitto, scemo» fece lo zingaro, senza quasi muovere le labbra. Uno dopo l’altro, con una lentezza commovente, i sette angeli della morte – come li aveva chiamati il caporale – avevano scelto i compagni da portare sul patibolo. Merlino non mosse un muscolo e non tradì un’emozione; aveva imparato che la cosa più importante era non farsi mai notare né dalle SS né dai compagni. Quando uno dei sette si fermò davanti a lui, Merlino non fece niente, non mosse gli occhi, non accennò a un sorriso, e l’angelo pallido, scavato dalla fame, si spostò alla sua sinistra e mise una mano sulla spalla del prigioniero 193314. Allo zingaro non sfuggì nemmeno un sospiro di sollievo. A mezzogiorno la neve, che per lunghe ore era caduta sui prigionieri, costretti all’immobilità dell’attenti, cominciò a sciogliersi e a infradiciare anche i panni dei quattordici impiccati che penzolavano davanti alle baracche vuote. E sotto quelle bianche candele umane abbandonate al capriccio del vento sfilarono in silenzio, con la gamella del rancio semicolma di un’acquosa brodaglia, i quattrocento sopravvissuti.

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