La notte Elie Wiesel (...) Mai dimenticherò quella
notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e
per sette volte sprangata. Mai dimenticherò quel
fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini
di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. Mai dimenticherò quelle
fiamme che consumarono per sempre la mia Fede. Mai dimenticherò quel
silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli
istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che
presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto
ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai.
La baracca dove ci avevano fatto entrare era
molto lunga. Sul tetto qualche lucernario azzurrato. Era quello l’aspetto che
deve avere l’anticamera dell’inferno. Tanti uomini sconvolti, tante grida,
tanta brutalità bestiale. Decine di detenuti ci accolsero, il bastone in mano,
picchiando dove capitava, chi capitava, senza alcuna ragione. Degli ordini: «Spogliatevi!
Presto! Raus! Tenere solamente la cintura e le scarpe in mano…». Dovevamo
gettare i nostri vestiti in fondo alla baracca. Ce n’era già un mucchio: degli
abiti nuovi, altri vecchi, dei cappotti strappati, degli stracci. Per noi era
la vera uguaglianza: quella della nudità tremante di freddo. Qualche ufficiale
delle SS girava per lo stanzone, cercando gli uomini robusti. Se il vigore
fisico era così apprezzato, forse dovevamo sforzarci di passare per tipi
atletici? Mio padre pensava l’opposto. Era meglio non mettersi in evidenza. Il
destino degli altri sarà il nostro. (In seguito dovevamo apprendere che avevamo
avuto ragione. Coloro che erano stati scelti quel giorno furono inclusi nel
Sonderkommando, il commando che lavorava ai crematori. Bela Katz, figlio di un
grosso commerciante della mia città, era arrivato a Birkenau col primo
trasporto, una settimana prima di noi. Venuto a sapere del nostro arrivo ci
fece arrivare un messaggio: era stato scelto per la sua robustezza, e aveva
dovuto introdurre lui stesso il corpo di suo padre nel forno crematorio). I
colpi continuavano a piovere: – Dal parrucchiere! La cintura e le scarpe in
mano, io mi lasciai trascinare verso i parrucchieri. Le loro tosatrici
strappavano i capelli, rasavano tutti i peli del corpo. Nella testa mi ronzava
sempre il solito pensiero: non allontanarmi da mio padre. Liberi dalle mani dei
parrucchieri ci mettemmo a vagare fra la folla, incontrando amici, conoscenti.
Questi incontri ci riempivano di gioia, sì, di gioia: «Dio sia lodato! Sei
ancora vivo!…». Ma altri piangevano. Approfittavano delle forze che gli
rimanevano per piangere. Perché si erano lasciati portare qui? Perché non erano
morti nel loro letto? I singhiozzi rompevano la loro voce. Improvvisamente
qualcuno mi si gettò al collo e mi abbracciò: Yeshiel, il fratello del Rabbino
di Sighet. Piangeva a calde lacrime. Credetti che piangesse di gioia perché era
ancora in vita. – Non piangere, Yeshiel – gli dissi; – è peccato piangere… –
Non piangere? Siamo sull’orlo della morte. Presto ci saremo dentro… Capisci?
Dentro. Come non piangere? (…)
|