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Lunario dei Giorni di Memoria


Ventitreesima settimana

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La notte

Elie Wiesel

(...)

Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.

Mai dimenticherò quel fumo.

Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.

Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia Fede.

Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere.

Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto.

Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso.

 Mai.


La baracca dove ci avevano fatto entrare era molto lunga. Sul tetto qualche lucernario azzurrato. Era quello l’aspetto che deve avere l’anticamera dell’inferno. Tanti uomini sconvolti, tante grida, tanta brutalità bestiale. Decine di detenuti ci accolsero, il bastone in mano, picchiando dove capitava, chi capitava, senza alcuna ragione. Degli ordini: «Spogliatevi! Presto! Raus! Tenere solamente la cintura e le scarpe in mano…». Dovevamo gettare i nostri vestiti in fondo alla baracca. Ce n’era già un mucchio: degli abiti nuovi, altri vecchi, dei cappotti strappati, degli stracci. Per noi era la vera uguaglianza: quella della nudità tremante di freddo. Qualche ufficiale delle SS girava per lo stanzone, cercando gli uomini robusti. Se il vigore fisico era così apprezzato, forse dovevamo sforzarci di passare per tipi atletici? Mio padre pensava l’opposto. Era meglio non mettersi in evidenza. Il destino degli altri sarà il nostro. (In seguito dovevamo apprendere che avevamo avuto ragione. Coloro che erano stati scelti quel giorno furono inclusi nel Sonderkommando, il commando che lavorava ai crematori. Bela Katz, figlio di un grosso commerciante della mia città, era arrivato a Birkenau col primo trasporto, una settimana prima di noi. Venuto a sapere del nostro arrivo ci fece arrivare un messaggio: era stato scelto per la sua robustezza, e aveva dovuto introdurre lui stesso il corpo di suo padre nel forno crematorio). I colpi continuavano a piovere: – Dal parrucchiere! La cintura e le scarpe in mano, io mi lasciai trascinare verso i parrucchieri. Le loro tosatrici strappavano i capelli, rasavano tutti i peli del corpo. Nella testa mi ronzava sempre il solito pensiero: non allontanarmi da mio padre. Liberi dalle mani dei parrucchieri ci mettemmo a vagare fra la folla, incontrando amici, conoscenti. Questi incontri ci riempivano di gioia, sì, di gioia: «Dio sia lodato! Sei ancora vivo!…». Ma altri piangevano. Approfittavano delle forze che gli rimanevano per piangere. Perché si erano lasciati portare qui? Perché non erano morti nel loro letto? I singhiozzi rompevano la loro voce. Improvvisamente qualcuno mi si gettò al collo e mi abbracciò: Yeshiel, il fratello del Rabbino di Sighet. Piangeva a calde lacrime. Credetti che piangesse di gioia perché era ancora in vita. – Non piangere, Yeshiel – gli dissi; – è peccato piangere… – Non piangere? Siamo sull’orlo della morte. Presto ci saremo dentro… Capisci? Dentro. Come non piangere?

 (…)




















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