Tutto è in frantumi Klaartje De Zwarte-Walvisch (...) 4 luglio L’arrivo a Westerbork L’arrivo qui è stato del tutto diverso rispetto all’arrivo a Vught.
Sulla banchina erano venuti ad aspettarci e salutarci uomini e donne. Sembrava
una situazione molto familiare. Uomini e donne insieme. Una cosa a cui a Vught
non eravamo più abituati. La prima impressione di Westerbork non è stata certo
delle peggiori. Avevo perfino la sensazione di essere tornata nel mondo
abitato. In realtà, ovviamente, non era affatto così, passavo solo da un campo
a un altro. Ma non avevo mai avvertito in modo più netto la sensazione di
essere uscita da un campo di concentramento. Non c’era nessuno che gridava, non
c’erano agenti dell’NSB che ci braccavano e sgridavano, ma persone a modo che
erano molto gentili con noi e pronte ad aiutarci se ne avevamo bisogno. Ci
hanno messo in fila per cinque e siamo andati a farci registrare. Ho osservato
che avevo proprio voglia di farmi registrare, non mi succedeva da tanto tempo.
E la mia battuta ha funzionato, perché i poliziotti che ci accompagnavano sono
scoppiati a ridere. Ci hanno salutati in modo affettuoso e, mentre mi stringeva
la mano, uno mi ha augurato di tornare presto ad Amsterdam: «Certo che lei è
proprio un ingenuo» gli ho risposto. Ma lui mi ha detto che ne era convinto.
«Allora le voglio credere» gli ho risposto. Per fortuna, almeno il viaggio era
finito. Fine della prima tappa. Eravamo ubriachi di sonno e tremanti per il
freddo della notte. Non mi sentivo affatto a mio agio e avrei impiegato ancora
un bel po’ prima di riuscire a trovare un letto. Abbiamo dovuto aspettare ore e
ore davanti all’ufficio per la registrazione. A poco a poco ci eravamo
abituati, ma ogni volta che capitava mi sembrava più stancante. Quante facce
note. Prima di tutto ho visto un conoscente che lavorava in amministrazione.
Avevo proprio bisogno di lui; mio marito mi aveva scritto più volte da Moerdijk
che se fossi finita a Westerbork avrei dovuto subito informarmi su dove fosse
quel conoscente. Era una coincidenza perfetta, averlo incontrato. Si è sorpreso
che fossi arrivata lì da Vught senza mio marito, ma quando gli ho raccontato
tutto ha capito. Mi ha promesso che avrebbe fatto quanto poteva, e per
cominciare mi ha dato una lettera per un medico. Dovevo andarci il giorno dopo.
Martedì sarebbe partito un trasporto da Westerbork, ma mi hanno assicurato che
io non ci sarei stata. Da quel punto di vista, almeno, ero tranquilla. Nel
frattempo però mi sono tornati i miei spasmi, così forti che sono rimasta per
quasi quattro giorni senza mangiare né bere. Mentre eravamo in piedi ad
aspettare davanti all’edificio dell’amministrazione ha cominciato a girarmi la
testa e ho provato per l’ennesima volta a mangiare un pezzo di pane. Ma senza
successo. Il mio esofago rifiutava di aprirsi. Alla fine ci ho rinunciato. Per
tutta la mattina abbiamo girato per il campo. Ci mandavano da una scrivania
all’altra. Non so quante volte hanno scritto il mio nome in un solo giorno,
alla fine ne avevo piene le tasche. L’ultima tappa è stata alla Lippman en
Rosenthal, dove a momenti svenivo per lo spavento. Mentre ero in piedi davanti
al tavolo mi hanno chiesto se avevo con me dei soldi. Prima ne avevo, è vero,
ma nel momento in cui ero arrivata lì non ne avevo più. Un moccioso sui
diciott’anni ha urlato: «Soldi». «No» ho risposto. Allora sono dovuta entrare
in uno stanzino dove c’erano un ufficiale tedesco e un olandese, probabilmente
dell’NSB. Avevo al braccio una grossa borsa con sopra appoggiata una borsetta.
Senza che nemmeno me ne rendessi conto, il tedesco me l’ha strappata di mano e
ha cominciato a frugarci dentro. Diceva che tenevo nascosto del denaro, ma io
gli ho detto che soldi non ne avevo più, dopo tre mesi a Vught. Mi ha guardato
incredulo e ha continuato a rovistare. Gli è capitato in mano un quadernetto di
appunti in cui avevo scritto qualche poesia non esattamente gentile nei
confronti dei tedeschi. L’ha sfogliato, ha letto qualche riga qua e là, ma non
ha detto nulla. Ero terrorizzata, perché nella mia borsa grande, cucito sotto
la fodera, c’era tutto quello che avevo scritto a Vught. Ha continuato a
rovistare e io per un momento ho chiuso gli occhi perché non volevo vedere. Ero
già rassegnata a perdere tutto. E poi il contenuto... invece è andata bene. Mi
ha rimesso in mano le mie cose e ha detto che potevo andare. Un paio di secondi
dopo ero fuori dalla porta e mi congratulavo con me stessa per il mio successo.
Era stato un momento di enorme paura. Fuori c’erano le mie conoscenti, le donne
con cui ero arrivata da Vught, e mi sono corse incontro. Sapevano cosa tenevo
nascosto nella borsa e aspettavano in apprensione. Erano contente che fosse
finita bene. (…)
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