Cronache del ghetto Adolf Rudnicki
(…) Il poeta fu
trasportato in casa dei Fast, al pianterreno, e adagiato sul pavimento
dell'anticamera, sopra un esiguo strato di paglia; in quella casa, tutto faceva
capo invariabilmente a Fast, ingegnere chimico, il quale nello shop cuciva bottoni alle giacche.
Capelli neri come la pece, labbruzze infantili, pancia di un volume
inverosimile. Nella grande caldaia aveva
perso la moglie, simpatica, giovane e graziosa. In breve tempo era
riuscito a indurre un'amica
della moglie, anch'essa
simpatica, giovane e graziosa, una vedova reduce dalla grande caldaia, a
convivere con lui. D'indole straordinariamente socievole, gli era stato facile
comunicare la sua innata socievolezza alla prima e alla seconda moglie, sicché
dai Fast ognuno si sentiva come in casa propria. Le spoglie mortali di Aleksander, deposte lì,
furono coperte con un lenzuolo. Accanto ad esse, la nuova signora Fast faceva
le valigie, si preparava a scendere in rifugio. Quasi dappertutto, la gente era
pronta a trasferirsi nelle cantine. Si erano diffuse notizie dì nuovi
combattimenti nel quartiere, la lotta armata poteva estendersi da un momento
all'altro, non c'era tempo per commuoversi. Jozef si stupì che in un simile
frangente, quando ogni minuto era
prezioso, poiché ogni istante poteva imprimere inattesi
sviluppi, l'ingegnere volesse dare sepoltura ad Aleksander secondo i precetti del rito e
chiedesse a tutti istruzioni sul da farsi, cercasse qualcuno in grado di recitare
le orazioni funebri e non intendesse occuparsi d'altro sinché non fossero state
soddisfatte le esigenze della liturgia. Ma ancora più sorprendenti erano i
membri dell’organizzazione militare ed in particolare Henoch, un bel ragazzo
agile che suscitava l'ammirazione generale, il quale,
invece di dissuadere l'ingegnere da quel proponimento, si era messo a
disposizione e si faceva in quattro per attuarlo. Solo allora Jozef ebbe modo
di valutare appieno l'intensità dell'affetto che univa l'ingegnere al poeta.
Osservando l’ingegnere, la sua testa, gli occhi, le labbra, il torace che con
la sua poderosa mole pareva dovesse schiantargli la giacca, lo si sarebbe detto
refrattario a sentimenti così delicati. Chino sulla salma, non l’abbandonava
nemmeno per un attimo. Si alzò soltanto quando Jozef ed Enoch gli si
accostarono e gli toccarono una spalla, per informarlo che tutto era pronto. Avvolsero il defunto nel
lenzuolo, lo deposero sul piano di una tavola, lo coprirono e lo portarono nel
cortile, ove alcuni ragazzi con cui Aleksander aveva trascorso gli ultimi suoi
giorni stavano scavando la fossa. Con cautela, il volto oscurato dall'angoscia,
ne calarono il corpo entro la terra. Come ebbe toccato il fondo, ritto sul
margine della tomba con il volto soffuso di sublime dolcezza, Henoch cominciò a
parlare. Il suo discorso si ridusse ad un'unica frase poiché gli mancò la forza
di pronunziarne altre. Ritto sulla tomba
e senza
parola, il viso sconvolto dal dolore, lo sguardo fisso, la bocca e gli
occhi ardenti e muti. Una dozzina di persone rimasero in attesa nell'angusto
cortile, ma Henoch non riuscì a profferir parola. Prolungandosi il silenzio, un
vecchio dagli occhi azzurri come iniettati di sangue e dalla barbetta, rada,
rossiccia, insidiata dalla canizie, prese a recitare le orazioni funebri. Alle
sue parole stridule, incomprensibili, la testa dell'ingegnere cominciò ad oscillare
come una pentola appesa a una pertica. Le donne gemevano, in lacrime, i ragazzi
guardavano la tomba ad occhi asciutti, accesi. Al termine delle orazioni del
vecchio, i ragazzi gettarono le prime palate. Per qualche secondo si udirono
soltanto i colpi sordi della terra battuta, uniti ai singhiozzi delle donne che
rendevano ancor più profondo il silenzio
degli uomini. La vita è stata un fiasco...
Quella poesia di Topaz assillò Jozef per tutta la durata della cerimonia
funebre: Riposeranno
i fratelli prigionieri Nel
campo, sotto la candida coltre nevosa La
vita è un fiasco, signori, Per
chi sta avvolto nel manto sabbioso. E la piccola folla si
diradò, pian piano. (...) |