Il piccolo acrobata Raymond Gurême
(...) L’indomani, il 4 ottobre 1940, siamo stati svegliati di soprassalto alle sei del mattino dai colpi battuti contro la porta del carrozzone. Ho imparato in quell’occasione che gli sbirri arrivano sempre all’alba! Eravamo andati a letto tardi, a mezzanotte passata. Dopo la proiezione della sera prima, avevamo dovuto mettere tutto a posto. Con gli occhi ancora velati di sonno, ho visto spuntare due kepì nello spiraglio della porta. Non sapevo bene cosa significasse, ma capivo che per noi quello era l’inizio delle tribolazioni. Per tutta la vita ho cercato la libertà, la spensieratezza e la felicità familiare che mi sono state rubate quel giorno, quando avevo quindici anni. Sotto i kepì c’erano due gendarmi, arrivati in motocicletta. Hanno detto a mio padre: «Impacchettate le vostre cose e seguiteci». Mio padre non si aspettava di essere arrestato, perché stazionava su un terreno privato con il permesso del proprietario. Ha chiesto almeno due o tre volte perché e dove bisognava che li seguissimo. Uno dei due gendarmi ha riposto: «Lo vedrete presto». L’altro ha esclamato: «Eseguiamo solo degli ordini, punto e basta. Sbrigatevi, abbiamo altro da fare!». Mia madre si è infuriata: «Anch’io ho altro da fare! Non andremo da nessuna parte finché i miei figli non avranno mangiato!». Ha fermato mio padre, che si apprestava ad avviare il camion, e ha gridato ai gendarmi: «E adesso fuori di qui!». Non aveva peli sulla lingua, mia madre! I due agenti hanno battuto in ritirata. Hanno aspettato fuori. Sembrava quasi che si vergognassero un po’ di portar via di prima mattina una famiglia francese con dei bambini piccoli. Sapevano che non potevano accusarci di niente. I miei fratelli e io abbiamo mangiato nel silenzio totale. Poi sono corso svelto svelto fino al bistrot del vecchio Langlois, di fronte al terreno su cui eravamo accampati. Andavamo tutti i giorni a quel bistrot, e il proprietario custodiva la nostra cavalla e il nostro pony sui prati dietro il locale. Gli ho portato anche il cane, la scimmia e la capra, gridandogli in tutta fretta: «Ci arrestano, tienici gli animali, trattali bene!». Lui mi ha guardato stupefatto ma, prima che potesse aprir bocca, ero già corso via a gambe levate verso il carrozzone. Lasciavamo così definitivamente il campo su cui avevamo vissuto, a Petit-Couronne, vicino al porto di Rouen. René, Henriette e io sedevamo nella cabina di guida del camion con mio padre. Mia madre e i più piccoli stavano dietro. Un gendarme sulla moto precedeva il convoglio. Il suo collega chiudeva la marcia. In seguito, mio padre si è sempre domandato perché li abbiamo seguiti senza ribellarci, dato che, in fondo, erano soltanto in due. Avremmo potuto mandarli a farsi benedire. Ma i miei genitori si fidavano. Erano francesi, come i gendarmi, e pensavano che non potesse succedere loro nulla di veramente serio, perché non avevano fatto nulla di male. Quello stesso giorno, il 4 ottobre 1940, un’ordinanza tedesca aveva stabilito l’internamento degli zingari presenti nella Francia occupata in campi posti sotto la responsabilità della polizia francese. Le autorità francesi avevano tradotto il termine Zigeuner, “zingari” in tedesco, con “nomadi”. Perciò i gendarmi portavano via tutti i gruppi familiari che vivevano in carrozzoni, compresi quelli che come noi avevano lo statuto di giostrai. Da Petit-Couronne abbiamo percorso solo pochi chilometri, ma il tragitto mi è sembrato lunghissimo. Abbiamo superato un portone circondato da un alto muro di pietra. I gendarmi hanno chiesto a mio padre di posteggiare il camion, il carrozzone e il rimorchio lungo quel muro. Eravamo la prima famiglia a entrare in quello che ufficialmente si chiamava “campo di raccolta dei nomadi di Darnétal”. Insisto sul fatto che siamo arrivati proprio il 4 ottobre 1940, anche se gli archivi riportano la data del 6 novembre 1940. Il minimo che si possa dire è che non sempre gli archivi raccontano la verità. Vi si trovano spesso errori di datazione, sia involontari sia commessi deliberatamente da qualche funzionario per mascherare agli occhi dei superiori un ritardo, una dimenticanza o un errore. Il sito, in cui la mia famiglia si trovava per la prima volta privata della libertà, apparteneva alla fabbrica di bottoni Lefebvre & C., adibita ad altro uso da quando nel 1935 era stata rilevata dalla ditta Gillet-Thaon. Il tutto era stato requisito dall’esercito francese alla fine del 1939. Prima del nostro arrivo, vi erano stati sistemati dei profughi spagnoli. Siamo rimasti da soli per circa una settimana, sconcertati di fronte a ciò che ci veniva fatto. Non potevamo uscire liberamente dal campo: una guardia armata presidiava il portone e un’altra stazionava nei pressi del nostro carrozzone. Il campo era sottoposto all’autorità del commissariato e della gendarmeria di Darnétal. La guerra arrivava fino a noi assumendo la forma degli sciami di bombe che cadevano nelle vicinanze. Nel corso delle settimane successive, abbiamo visto arrivare altre famiglie, per esempio i Delage, Désiré e sua moglie Berthe, gli arrotini che avevano la licenza di giostrai ed erano stati rastrellati con i loro figli a Sotteville-lès-Rouen. C’erano i Toupin, i cestai, che erano stati arrestati nella Somme. A novembre, nel campo di Darnétal eravamo duecento. Tra le famiglie imprigionate lì posso citare anche i Demestre e i Demeter, zigani venuti dall’Europa Orientale che avevano il libretto antropometrico per “nomadi”. Tutte queste famiglie, tra cui si trovavano i rifugiati belgi e i mercanti di cavalli, alloggiavano nei propri carrozzoni, e si pagavano e si cucinavano i pasti. Ogni mattina una guardia scortava le donne a fare la spesa. I miei genitori avevano un po’ di denaro da parte, ma altri non avevano più un soldo. Non potendo lavorare, non guadagnavano niente e non riuscivano a mantenersi. Mi ricordo che mia madre, oltre alla nostra famiglia, sfamava una ventina di bocche. Ma tutto ciò era insostenibile. Allora mio padre è andato a parlare con le guardie, ha detto loro che rinchiudere la gente era davvero una gran bella impresa, ma poi, dopo averla chiusa tra quattro mura, bisognava nutrirla. Qualche ora dopo, le guardie hanno portato una grossa gamella piena di rape. Quando hanno sollevato il coperchio, lo spettacolo era talmente poco appetitoso che nessuno ha mangiato. Ma in seguito non avremmo avuto altra scelta. Nella nostra famiglia, il più provato dalla prigionia era certamente mio padre. Oscillava tra la prostrazione e la rabbia. Spesso ripeteva: «Venire arrestato e imprigionato dai francesi quando ho scelto la nazionalità francese, ho combattuto nella Grande Guerra e sono stato perfino ferito e gassato, è una cosa che supera ogni comprensione!». A volte fissava le guardie dritto negli occhi e sbottava: «Non vi vergognate di comportarvi così con delle famiglie francesi che non hanno fatto niente di male? Io nel ’14 ho combattuto! Voi dov’eravate in quel momento?». Le guardie non sapevano cosa rispondere a quel reduce della Grande Guerra e se la squagliavano in tutta fretta. Mio padre ha provato a scrivere al prefetto, tramite mio fratello, per farci liberare evidenziando il suo passato di combattente decorato. Le autorità non si sono mai degnate di rispondergli. Tuttavia, un mattino all’alba, una risposta indiretta è arrivata. Era il 27 novembre 1940. Verso le sei siamo stati di nuovo svegliati di soprassalto dai colpi picchiati contro la porta del carrozzone. Sentivamo le guardie sbraitare: «Alzatevi, in piedi, là dentro! Avete un’ora per fare i bagagli. Non caricatevi troppo, prendete coperte e biancheria e lasciate perdere le stoviglie!». Mia madre esitava davanti agli armadi, sempre impeccabilmente ordinati. Cosa avrebbe salvato in quel drammatico caos? A Darnétal ci siamo lasciati alle spalle tutta la nostra vita: i carrozzoni, il camion, le attrezzature cinematografiche, il tendone e le gradinate del circo, le lenzuola, il vasellame, le foto di famiglia… Siamo partiti portando con noi solo quello che avevamo addosso. All’ultimo momento, quando alcuni camion sono entrati a marcia indietro nel cortile del campo per caricarci come bestie, René e Henriette sono corsi verso il carrozzone per tornare con due piccole trombe, tra cui il bombardino di mio fratello. Quei ricordi di un passato felice hanno accompagnato la mia famiglia durante gli anni di prigionia. Alcuni zigani internati a Darnétal sono riusciti a loro volta a portare con sé le chitarre e i violini. I miei genitori non hanno nemmeno chiesto alle guardie dove fossimo diretti: quando si è prigionieri, non si riesce a pensare al futuro. Nel momento in cui viene detto di lasciar tutto e fare fagotto, significa solamente che si va altrove. Non si cerca di saperne di più. La nostra famiglia faceva parte delle duecento persone del campo di Darnétal portate via sui camion, condotte e scortate dalla polizia francese fino alla stazione di smistamento di Sotteville-lès-Rouen. Scendendo, abbiamo visto tre carri bestiame in attesa sui binari. I poliziotti ci hanno fatti salire a bordo e hanno chiuso le porte. Dopo un lungo momento, il convoglio si è messo in moto. Non sapevamo dove fosse diretto. Ci rendevamo conto soltanto che molto probabilmente ci aspettava qualcosa di peggio di ciò che avevamo già subito. (...) |