Il ricordo che non avevo
Alberto Melis
(...) Aprii il quaderno e cominciai a leggere il
terzo capitolo del racconto di nonno Gabriel.
Ci fu una cosa che Nanosh capì quasi
subito, nel Ghetto di Litzmannstadt. E cioè che tutto quello che aveva imparato
quando ancora viveva libero, lì non gli sarebbe servito a nulla. Prima che i soldati facessero prigionieri
i Lovara della sua kumpanìa, ogni mattina Nanosh si alzava molto presto per
portare i cavalli al pascolo. Suo padre gli aveva insegnato a parlar loro sottovoce,
quando erano irrequieti, e ad accarezzarli sulla pancia e in mezzo agli occhi
quando il fragore di un tuono o il Vento Nero che soffiava dall’Est li
spaventava. A volte Konstant permetteva a Nanosh di
accompagnarlo a visitare qualche fiera dei gagé, dove si acquistavano e si
vendevano i cavalli. Gli spiegava come distinguere quelli che erano in buona
salute da quelli malati o che erano stati maltrattati, osservandone il bianco
degli occhi e la dentatura, e palpeggiandoli tra i garretti e gli zoccoli. Ma nel ghetto non c’erano cavalli da accudire.
Non c’erano distese d’erba dove lasciarli pascolare, né torrenti e fiumi dove
farli abbeverare. C’erano solo palazzi grigi e strade coperte dal fango e dalla
neve. Uomini, donne e bambini dalle facce scavate dalla paura e dalla fame. Dopo i primi tre giorni in cui i Lovara
non avevano ricevuto quasi niente per sfamarsi, i soldati avevano assegnato
all’Obóz Cygański due cucine da campo. A ciascun prigioniero una misera razione
di pane nero e caffè di cicoria. Poi avevano ordinato agli ebrei internati nel
ghetto di portare via i rom che erano morti e di mandare i loro dottori a
visitare gli ammalati. I morti venivano caricati dai becchini
ebrei su carretti che avevano due sole ruote e portati in una zona del ghetto
che tutti chiamavano Wesola, anche se Nanosh non aveva idea di cosa questo nome
significasse.[i]
Così come non capiva perché i dottori ebrei, anche se erano molto gentili e
portavano loro di nascosto coperte e pane di castagne per i bambini più
piccoli, non riuscissero a guarire tutti quelli che si ammalavano. Già dai primi giorni di internamento, una
terribile malattia aveva cominciato a colpire i rom Lovara. Una febbre maligna
che squassava i corpi e rubava il respiro anche agli uomini e alle donne più
forti, senza lasciare loro scampo.[ii]
Konstant diceva che la colpa era dell’aria
che si respirava dentro le stanze umide e affollate. Ma gli uomini più anziani
della kumpanìa erano convinti che la malattia li aggredisse ogni notte dal buio
dei soffitti e dei muri screpolati, che impedivano loro di guardare il cielo e
le stelle. Quando il morbo si diffuse a tal punto da
minacciare anche gli altri quartieri del ghetto, i soldati proibirono ai Lovara di uscire dai loro
palazzi. Nonostante questo, Nanosh trovò il modo di fuggire quasi ogni giorno
all’aria aperta insieme a Nùvero, dalla finestra di uno scantinato che dava sul
cortile di un altro edificio. Fu così che il bambino rom, accompagnato
dal suo amico con tre sole zampe e una stella bianca sulla fronte, imparò a
conoscere ogni strada del Ghetto: quelle interne affollate all’inverosimile dai
prigionieri ebrei, e quelle meno frequentate che confinavano con i quartieri della
città. Imparò a nascondersi negli androni dei palazzi quando vedeva avvicinarsi
i soldati, e scoprì sempre nuovi passaggi, di cortile in cortile e di cantina
in cantina, che gli permettevano di spostarsi con maggior sicurezza. A volte, quando non nevicava, agli incroci
delle strade spuntavano bancarelle simili a quelle delle fiere che aveva
visitato insieme a Konstant. Solo che sulle strette tavole appoggiate ai
cavalletti, invece di frutta fresca, carni o dolci venivano messi in vendita
gli oggetti più disparati: mucchietti di carbone e scarpe dalle suole lise,
mozziconi di candela e ritagli di stoffa, gavette di alluminio, calzettoni
militari, vecchi orologi a cipolla e scatole di fiammiferi. Gli ebrei cercavano
di vendere o di barattare tutto quello che potevano, perché anche i loro volti
erano scavati dalla fame. Un giorno Nanosh, invece di rientrare nel
palazzo che era diventato la sua prigione come faceva sempre prima che il buio
inghiottisse il ghetto, si rifugiò con Nùvero dentro una chiesa sconsacrata che
si trovava vicino al confine occidentale. Sapeva che suo padre e sua madre si
sarebbero preoccupati, non vedendolo rientrare, ma decise ugualmente di passare
lì tutta la notte. La mattina precedente Mirsada si era
riempita di macchie rosse sul viso, aveva cominciato a tremare per la febbre
alta, e Lyuba, un’anziana donna della kumpanìa, aveva detto che i detlene, gli spettri dei bambini che
erano già morti, molto presto l’avrebbero presa per mano e l’avrebbero portata
via con loro. Nanosh non voleva vedere Mirsada spegnersi nel suo ultimo
respiro. E soprattutto non voleva essere presente quando il corpo di sua sorella
sarebbe stato trascinato via dai becchini ebrei sul loro carretto. l piccolo rom era sicuro che anche Nùvero
avesse capito cosa stava per succedere a Mirsada, perché per tutta la notte,
accovacciato insieme a lui ai piedi dell’altare, guaì e si lamentò come se
avesse un peso sul cuore. Quando Nanosh l’indomani mattina tornò nel
palazzo, Mirsada non c’era più. Aiutò suo padre Konstant a bruciare tutti i suoi
vestiti, le scarpe, le fettucce di tela con cui la mamma le annodava i capelli
e la sua collanina di cerchietti di legno colorati. [iii]
Poi disse ad alta voce: “Mirsada akana
mukav tut le Devlesa”, “Mirsada ora sei nelle mani di Dio”.
Due notti dopo anche Keja, la mamma di
Nanosh, morì.
— Konstant le chiuse gli occhi —
sussurrai, leggendo le ultime righe del terzo capitolo — e tutti dissero che il
suo cuore si era fermato per il troppo dolore e perché Mirsada non c’era più. (...)
[i] Nel ghetto di Lodz i cimiteri nei quali
venivano sepolte le vittime delle malattie, della fame e delle violenze erano
due, il vecchio cimitero di via Wesola e il nuovo cimitero di via Kaulmana. Alla
fine della guerra, degli oltre 200 mila prigionieri nel ghetto, la maggioranza
dei quali ebrei polacchi, solo 900 riuscirono a evitare la deportazione nei
lager di sterminio di Chelmno e di Auschwitz-Birkenau.
[ii] Subito
dopo il loro arrivo nel ghetto di Litzmannstadt, tra i rom Lovara del Burgenland
scoppiò un’epidemia di tifo esantematico, a causa delle terribili condizioni di
vita a cui erano sottoposti.
[iii] In
diverse comunità rom, ancora oggi, non si conserva nessun oggetto appartenuto a
un defunto. Ogni suo bene personale deve cessare di esistere con lui, per
facilitare il suo passaggio in Paradiso, un luogo dove, come raccontano le
antiche fiabe, scorrono fiumi di latte e miele e nessuno soffre più per la fame
e le persecuzioni.
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