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Lunario dei Giorni di Memoria


Undicesima settimana

stojka

Alla fine di ogni cosa

Mauro Garofalo

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Una coperta di silenzio che si distese su tutto, solo il lento brusio delle pale in alto e il ronzio dei cavi elettrici che friggevano da qualche parte. «Mio Dio!» Markus era impallidito. Zirzow aveva seguito il suo sguardo. Una figura coperta di bianco all’uscita del tunnel. Rukeli aveva i capelli dipinti d’oro tirati all’indietro e la pelle quasi traslucida sotto i riflettori.

Lo zingaro si era cosparso di farina. Johann avanzava verso il quadrato tra gli sguardi attoniti della gente di Berlino. Le bocche spalancate e, contemporaneamente, rapite dall’apparizione. Zirzow una statua di ghiaccio. Weil, sotto il ring, avvertì un brivido. La schiena che tornava dritta. La stessa posizione che serviva agli uomini per essere ciò che dovevano. In alto, i gerarchi nazisti rigonfi di un odio turbato. E Johann che arrivava sotto il ring, e saliva sul quadrato senza saltare. Aveva allargato le corde. Ci era passato attraverso.

In piedi, nel vuoto colmo di attesa dell’arena muta, aveva guardato tutte quelle facce, una a una. Volti di peccatori, che non sapevano ancora cosa avrebbero lasciato fare. Li perdonò. Uno a uno. Mentre dall’alto, la belva nera cominciava a ringhiare feroce all’indirizzo dei nuovi, stupidi, martiri. Senza paura, Johann fissò il volto della bestia annidata dietro la Germania di Hitler. E, guardandola dritta negli occhi, non poté fare altro che annuire. Una liturgia di assoluzione. Il pugile, l’icona laica di un angelo senza ali. Eder gli si avvicinò cattivo: «Ti sei messo la cipria, pagliaccio?» Non rispose. Dopo qualche altro attimo di silenzio, il pubblico ricominciò a respirare. I giornalisti a bordo ring erano eccitati, avevano il titolo per il giorno dopo, la storia.

Quel pugile zingaro era pazzo, avevano dato un occhio su in alto sugli spalti dove i nazisti, prima agitati, ora stavano disponendosi a maglia, i mitra in linea con il quadrato. I volti dei gerarchi rigidi, così come quelli dei ministeriali e delle loro mogli. I flash dei fotografi che continuavano a scattare, bagliori nell’arena, scintille di fine anno, nel buio immanente. «Signore e signori», la voce dello speaker aveva rotto l’incantesimo: «All’angolo destro, con il peso di centoquarantasei libbre, quest’anno quattro incontri, tre vittorie per K.O.: Gustav Eder!» La folla che applaudiva, sopra soldati con le armi pronte. «All’angolo sinistro, centocinquantotto libbre...» A questo punto, lo speaker si era bloccato, aveva alzato la testa verso Radamm, che aveva annuito, lo sguardo magnanimo: «Gipsy Trollmann». Zirzow guardò il suo pugile, il campione completamente coperto di farina. I capelli gialli impomatati pettinati con la riga di lato. Le scapole, i fasci muscolari laterali. I pantaloncini che poggiavano sul coccige, l’elastico perfettamente teso sulla linea della vita, le gambe radicate a terra. Weil, gli occhi su Trollmann. Un sorriso e uno scrollare di capo: «Testardo di uno zingaro». Quindi, aveva riposto la fiaschetta di whisky e preso di nuovo in mano il suo taccuino. C’erano cose per cui valeva la pena: «Tanto neanche mi piaceva più fare il giornalista!» Rise di sé, e iniziò a buttare giù l’attacco per il suo ultimo pezzo.

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