Il barone rampante
Italo Calvino Einaudi L’indomani faceva bel tempo e fu deciso che Cosimo avrebbe ripreso le lezioni dell’abate Fauchelafleur. Non fu detto come. Semplicemente e un po’ bruscamente, il Barone invitò l’Abate (- Invece di star qui a guardare le mosche, l’Abbè… -) ad andare a cercare mio fratello dove si trovava e fargli tradurre un po’ del suo Virgilio. Poi temette di aver messo l’Abate troppo in imbarazzo e per facilitargli il compito, disse a me: - Va’ a dire a tuo fratello che si trovi in giardino tra mezz’ora per la sua lezione di latino -. Lo disse col tono più naturale che poteva, il tono che voleva tenere d’ora in poi: con Cosimo sugli alberi tutto doveva tornare come prima. Così ci fu la lezione. Mio fratello seduto a cavalcioni di un ramo d’olmo, e l’Abate sotto, sull’erba, seduto su uno sgabelletto, ripetendo in coro esametri. Io giocavo lì intorno e per un po’ li perdetti di vista; quando tornai, anche l’abate era sull’albero; con le sue lunghe esili gambe nelle calze nere cercava d’issarsi su una forcella, e Cosimo l’aiutava reggendolo per un gomito. Trovarono una posizione comoda per il vecchio, e insieme compitarono un difficile passo, chini sul libro. Mio fratello pareva desse prova di grande diligenza. Poi non so come fu, come l’allievo scappasse via, forse perché l’abate lassù s’era distratto ed era restato allocchito a guardare nel vuoto come al solito, fatto sta che rannicchiato tra i rami c’era solo il vecchio prete nero, col libro sulle ginocchia, e guardava una farfalla bianca volare e la seguiva a bocca aperta. Quando la farfalla sparì, l’Abate s’accorse d’essere là in cima, e gli prese paura. S’abbracciò al tronco, e cominciò a gridare; - Au secours! Au secours! – finché non venne gente con una scala e pian piano egli si calmò e discese. (…) A frequentare il brigante, dunque, Cosimo aveva preso una smisurata passione per la lettura e per lo studio che gli restò poi per la vita. L’atteggiamento abituale in cui lo s’incontrava adesso, era con un libro aperto in mano, seduto a cavalcioni di un ramo comodo, oppure appoggiato a una forcella come a un banco da scuola, un foglio posato su una tavoletta, il calamaio in un buco dell’albero, scrivendo con una lunga penna d’oca. Adesso era lui che andava a cercare l’Abate Fauchelafleur perché gli facesse lezione, perché gli spiegasse Tacito, Ovidio e I corpi celesti e le leggi della chimica, ma il vecchio prete fuor che un po’ di grammatica e un po’ di teologia annegava in un mare di dubbi e di lacune, e alle domande dell’allievo allargava le braccia e alzava gli occhi al cielo - Monsieur l’Abbé, quante mogli si può avere in Persia? Monsieur l’Abbé, chi è il Vicario Savoiardo? Monsieur l’Abbé, mi può spiegare il sistema di Linneo? - Alors… Voyons… Maintenant… – cominciava l’Abate, poi si smarriva, e non andava più avanti. Ma Cosimo, che divorava libri d’ogni specie, e metà del suo tempo lo passava a leggere e metà a cacciare per pagare i conti del libraio Orbecche, aveva sempre qualche nuova storia lui da raccontare. Di Rousseau che passeggiava erborizzando per le foreste della Svizzera, di Beniamino Franklin che acchiappava i fulmini cogli aquiloni, del Barone de la Hontan che viveva felice tra gli Indiani dell’America. Il vecchio Fauchelafleur porgeva orecchio a questi discorsi con meravigliata attenzione, non so se per vero interesse o soltanto per il sollievo di non dover essere lui a insegnare; e assentiva, e interloquiva con dei: – Non! Ditesle moi! – quando Cosimo si rivolgeva a lui chiedendo: – E lo sapete com’è che…? – oppure con dei: – Tiens! Mais c’est épatant! – quando Cosimo gli dava la risposta, e talora con dei Mon Dieu! – che potevano essere tanto d’esultanza per le nuove grandezze di Dio che in quel momento gli si rivelavano, quanto di rammarico per l’onnipotenza del Male che sotto tutte le sembianze dominava senza scampo il mondo. Io ero troppo ragazzo e Cosimo non aveva amici che nelle classi illetterate, perciò il suo bisogno di commentare le scoperte che andava facendo sui libri lo sfogava seppellendo di domande e spiegazioni il vecchio precettore. L’Abate, si sa, aveva quella disposizione remissive e accomodante che gli veniva da una superiore coscienza della vanità del tutto; e Cosimo se ne approfittava. Così il rapporto di discepolanza tra i due due si capovolse: Cosimo faceva da maestro e Fauchelafleur da allievo. E tanta autorità mio fratello aveva preso, che riusciva a trascinarsi dietro il vecchio tremante nelle sue peregrinazioni sugli alberi. Gli fece passare tutt’un pomeriggio con le magre gambe penzoloni su un ramo di castagno d’India, nel giardino dei D’Ondariva, contemplando le piante rare, e il tramonto che si rifletteva nella vasca delle ninfee, e ragionando delle monarchie e delle repubbliche, del giusto e del vero nelle varie religioni, ed i riti cinesi, il terremoto di Lisbona, la bottiglia di Leida, il sensismo. Io dovevo avere la mia lezione di greco e non si trovava il precettore. Si mise in allarme tutta la famiglia, si battè la campagna per cercarlo, fu perfino scandagliata la peschiera temendo che, distratto, non ci fosse caduto ed annegato. Tornò a sera, lamentandosi per una lombaggine che s’era presa a star seduto per ore così scomodo. Ma non bisogna dimenticare che nel vecchio giansenista questo stato di passiva accettazione d’ogni cosa s’alternava a momenti di ripresa della sua originaria passione per il rigore spirituale. E se, mentre era distratto e arrendevole, accoglieva senza resistenza qualsiasi idea nuova o libertina, per esempio l’uguaglianza degli uomini davanti alle leggi, o l’onestà dei popoli selvaggi, o l’influenza nefasta delle superstizioni, un quarto d’ora dopo, assalito da un accesso d’austerità e d’assolutezza, s’immedesimava in quelle idee accettate poco prima così leggermente e vi portava tutto il suo bisogno di coerenza e di severità morale. Allora sulle sue labbra i doveri dei cittadini liberi ed eguali o le virtù dell’uomo che segue la religione naturale diventavano regole d’una disciplina spietata, articoli d’una fede fanatica, e al di fuori di ciò non vedeva che un nero quadro di corruzione, e tutti i nuovi filosofi erano troppo blandi e superficiali nella denuncia del male, e la via della perferzione, seppur ardua, non consentiva compromessi o mezzi termini. Di fronte a questi improvvisi soprassalti dell’Abate, Cosimo non osava più dir parola, per paura che gli veisse censurata come incoerente e non rigorosa, e il mondo lussureggiante che nei suoi pensieri cercava di suscitare gli s’inaridiva davanti come un marmoreo cimitero. Per fortuna l’Abate si stancava presto di queste tensioni della volontà, e restava lì spossato, come se lo scarnificare ogni concetto per ridurlo a pura essenza lo lasciasse in balia d’ombre dissolte ed impalpabili: sbatteva gli occhi, dava un sospiro, dal sospiro passava allo sbadiglio, e rientrava nel nirvana. Ma tra l’una e l’altra disposizione del suo animo, dedicava ormai le sue giornate a seguire gli studi intrapresi da Cosimo, e faceva la spola tra gli alberi dov’egli si trovava e la bottega di Orbecche, a ordinargli libri da commissionare ai librai di Amsterdam o Parigi, e a ritirare i nuovi arrivi. E così preparava la sua disgrazia. Perché la voce che a Ombrosa c’era un prete che si teneva al corrente di tutte le pubblicazioni più scomunicate d’Europa, arrivò fino al Tribunale ecclesiastico. Un pomeriggio, gli sbirri si presentarono alla nostra villa per ispezionare la celletta dell’Abate. Tra i suoi breviari trovarono le opere del Bayle, ancora intonse, ma tanto bastò perché se lo prendessero in mezzo e lo portassero con loro. Fu una scena ben triste, in quel pomeriggio nuvoloso, la ricordo come la vidi sbigottito dalla finestra della mia stanza, e smisi di studiare la coniugazione dell’aoristo, perché non ci sarebbe stata più lezione. Il vecchio Padre Fauchelafleur s’allontanava per il viale tra quegli sgherri armati, e alzava gli occhi verso gli alberi, e a un certo punto ebbe un guizzo come se volesse correre verso un olmo e arrampicarsi, ma gli mancarono le gambe. Cosimo quel giorno era a caccia nel bosco e non ne sapeva nulla; così non si salutarono. Non potemmo far nulla per aiutarlo. Nostro padre si chiuse in camera e non voleva assaggiar cibo perché aveva paura di venir avvelenato dai gesuiti. L’Abate passò il resto dei suoi giorni tra carcere e convento in continui atti d’abiura, finché non morì, senza aver capito, dopo una vita intera dedicata alla fede, in che cosa mai credesse, ma cercando di credervi fermamente fino all'ultimo. |