La zizzania
Grazia Deledda
Arrivò un giorno in cui la madre, che sempre aveva predicato ai figli di patir
la fame piuttosto che rubare una sola fava ai vicini di terra, la madre stessa
fece loro intendere che bisognava si muovessero.
Non esasperata, e neppure ribelle, ma certo un po' strana, con gli occhi
diafani e le gengive bianche di fame, disse:
- In casa non c'è più niente: vostro padre è lì, con la pleurite che si è
succhiata tutte le nostre robe; anche i miei orecchini, l'anello, l'armilla.
Ecco - e si scuoteva come un albero spoglio dei suoi frutti. - Anche l'ultima
gallina se n'è andata. E tu, Giolì, hai diciassette anni, e tu, Gino,
quattordici e mezzo.
Essi lo sapevano, e lo sentivano bene, per la loro forza traboccante e per il
loro formidabile appetito. Ma non c'era proprio nulla da fare. La neve, uno
strato sopra l'altro, copriva con la sua lapide la terra morta; non si poteva
andar neppure a cogliere radicchio; e in casa, tutto, davvero, fino all'ultima
cotica del lardo, era stato rosicchiato dalla malattia del padre e dai loro diamantini
denti di giovani lupi.
Il solo a non preoccuparsi troppo era Giovannino, il più
piccolo; anzitutto perché il suo maestro di scuola, che la natura aveva
tagliato sul modello disusato di qualche antico apostolo, insegnava che la
Provvidenza non manca mai: e poi perché questo riverito signor maestro, oltre
al distribuire ai suoi alunni poveri il pane della scienza, faceva loro
servire, tutti i giorni d'inverno, una scodella di minestra calda.
Giovannino, dunque, va a scuola, con gli occhi freschi come nocciuole nuove, il
naso di garofano rugiadoso di moccio.
La giornata è bella: sopra i cappucci di feltro bianco dei monti lontani brilla
un grande sole i cui raggi un po' mordono, un po' sorridono, allegri e felini
come gli occhi del gatto del maestro. Questa è l'impressione di Giovannino,
forse perché egli ricorda le parole della nonna: il sole d'inverno ha i denti:
e si sente allegro e cattivo anche lui, pensando alle parole della mamma, al
viso di morto del padre, ai fratelli grandi buoni a niente. La scuola non è
lontana, ma sorge isolata tutta rifulgente di vetrate, come una chiesa, in
mezzo a un prato coperto di neve. Gli alberi, intorno, sono neri e bianchi,
cornuti come fantasmi di cervi favolosi: e alcuni hanno anche gli occhi, vuoti
eppure luminosi, che di notte farebbero paura.
Arrivano, di qua, di là, altri ragazzini, col naso sgocciolante, le mani gonfie
di geloni, le scarpe che pare abbiano battuto tutte le strade del mondo: ma
quello che sorprende Giovannino è l'accorgersi che anche i suoi fratelli
spuntano in fondo alla grande spianata, quasi vogliano ritornare a scuola.
Giolì, uno spilungone col viso di mela rosa, s'è messo il tabarro e il berretto
del padre, il che gli dà un'aria distinta di galantuomo, mentre l'altro ha
indosso un sacco, e pare il servo del fratello maggiore.
Dove vanno? Giovannino si ferma un momento ad aspettarli, poi pensa che forse è
meglio il contrario, e fingere anzi di non vederli. Infila quindi la porta
della scuola, entra in classe e trova il modo di spiare dalla vetrata: e vede i
fratelli aggirarsi intorno all'edificio scolastico, all'annessa abitazione del
maestro, al muro dell'orto, come direttori didattici in ispezione.
Il ritorno a casa fu ancora più felice dell'andata a scuola. Il sole aveva
rammollito la terra e si poteva, Dio volendo, far dispetto ai compagni,
buttando loro a tradimento, sulla testa dura, palle di neve che infine non
producevano danno, anzi riscaldavano le orecchie ancora imbottite delle parole
del maestro.
Vasto e magnifico era stato quel giorno il programma delle lezioni. Religione:
ricordati di santificare le feste (figuriamoci, domani è domenica); e i
precetti della Santa Chiesa: non mangiar carne di venerdì, e digiunare nei
giorni prescritti (oh, questo lo sapevano, anche per i giorni non prescritti).
Disegno: sciatori che attraversano una vallata piena di neve (facile quadro da
mettersi in azione); e, infine, dopo la medicinale grammatica, la gagliarda e
commovente recitazione:
"L'han giurato: li ho visti in Pontida...".
A casa, poi, lo aspettava una gradevole sorpresa. Il dottore, venuto a visitare
il babbo, lo aveva trovato molto migliorato; non solo, ma, invece di pretendere
le dieci lire per la visita straordinaria, trattandosi di località eccentrica,
aveva lasciato uno scudo alla povera madre. E dire che il dottore, più che per
la sua scienza, era famoso per la spilorceria. La madre, con lo scudo che
davvero, dati i tempi sosteneva con valore il suo eroico nome, aveva comprato
uova per il malato e un bel chilo di fagiuoli cremisi, detti galantemente della
Regina, quelli che in realtà sono tanto ricchi da crearsi il condimento col
loro sangue stesso.
Il padre sorrideva: un sorriso tutto denti, simile a quello del sole invernale,
ma, come questo, fulgido di speranza. La gioia della vita ricomparve poi nella
stamberga col ritorno dei fratelli. Da lontano si sentivano le loro voci, e le
risate rimbalzanti cristalline sulla neve: e la stessa fiamma, nel focolare, si
fece più alta e allegra per ascoltare le loro frottole.
Disse Giolì:
- Siamo stati a caccia: sì, sì, accidenti a chi non ci crede: siamo stati con
un cacciatore che ci ha messo a guardia del varco delle lepri; e ne ha prese
quattro. (- Per cominciare, non c'è male - pensò il padre). Una l'ha data a
noi, tenendosi lui la pelle, con la testa, e le zampe e la coda, che serve alle
signore per metterla al collo.
E Gino trasse dal sacco una lunga bestia insanguinata, già sventrata, pronta
alla cottura.
La madre non la prese, fissandola con gli occhi vitrei: Giovannino si sentì la
bocca piena di parole, ma se le ringollò una per una. Allora Giolì, senza
aspettare altro, infilò la bestia nello spiedo, da provetto cacciatore.
E quando ebbero mangiato, i due fratelli uscirono di nuovo col sacco ancora
insanguinato, senza badare alle rimostranze della madre che, con quelle sue
parole fatali, li aveva oramai liberati come puledri dalle pastoie.
Giovannino avrebbe voluto seguirli, ma non poteva: e nel vederli sparire, fra
il chiarore della neve e della luna, adesso però silenziosi più che le loro ombre,
gli parve di vivere in una fiaba.
Nessuno li sentì tornare, e solo sul tardi, la mattina dopo, la madre si
accorse che essi avevano seppellito qualche cosa sotto un mucchio di paglia e
di neve, e che nel pollaio, già desolatamente vuoto, c'era il miracolo di una
gallina viva.
Ben venga, la gallina, in questo santo giorno di carestia; non aveva anche, una
volta, preso forma di volatile lo stesso Spirito Santo, mandato da Dio ad
annunziare la sua grazia e la sua misericordia agli uomini angustiati?
Il lunedì mattina il maestro tardò alquanto ad entrare in classe. Giovannino,
in cuor suo, come meno ipocritamente i compagni, sperava che il signor maestro
fosse malato. E il viso, infatti, era pallido, più scarno e osseo del solito:
gli occhi tuttavia vivissimi, con lucentezze di febbre. A Giovannino parve
stranamente che egli rassomigliasse, quel giorno, al suo babbo; e ne provò un
vago terrore, come appunto quando il padre si aggravava e l'odore della morte
penetrava, col vento di scirocco e il buio delle nuvole, nella casa disperata.
Le lezioni, quel giorno, procedettero fiacche; e, insolitamente, quella sulla
religione fu lasciata alla fine. Fuori c'era un po' di nebbia; d'un tratto però
il sole vi si sollevò sopra, come un grande uccello d'oro, e le vetrate si
riempirono di perle. Allora il maestro si alzò solennemente, e lesse la
parabola del grano e della zizzania:
- In quel tempo propose Gesù alle turbe questa parabola. Il Regno dei cieli è
simile a un uomo, il quale seminò buon seme nel suo campo. Ma nel tempo che gli
uomini dormivano, il nemico suo andò, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne
partì. Come poi il seminato germogliò e granì, allora apparve anche la
zizzania. E i servi del padrone di casa andarono a dirgli: «Signore, non hai
seminato buon seme nel tuo campo. Come mai c'è la zizzania?». Ed egli rispose
loro: «[Un] uomo nemico ha fatto tal cosa». E i servi gli dissero: «Vuoi che
andiamo a coglierla?». Ed egli rispose: «No, ché cogliendo questa, non
strappiate con essa anche il grano. Lasciate che l'una e l'altro crescano sino
alla mietitura: e al tempo della raccolta dirò ai mietitori: sterpate prima la
zizzania e legatela in fasci per bruciarla: il grano, poi, riponete nel mio
granaio».
Finita, con voce un po' monotona, la lettura, egli sollevò la testa liscia, e
per un attimo, ma come distrattamente, fissò quella arricciata di Giovannino.
Giovannino si aspettava quello sguardo, eppure sentì come un soffio di vento
freddo penetrargli fra i capelli di agnello nero.
- Vi ho detto questa parabola, - disse il maestro, melanconico, - perché sabato
scorso, di giorno, mi è stato rubato il gatto, e di notte le galline. Vada pure
per queste, ma il gatto lo si doveva rispettare. Lo conoscevate tutti: era uno
di famiglia. E noi sappiamo benissimo chi ha fatto la prode caccia: e si
potrebbero mandare i signori carabinieri per scovare, alla loro volta, i bravi
cacciatori; ma nella loro casa ci sono anche anime innocenti che possono
crescere come il grano in mezzo alla zizzania e, a suo tempo, dar buoni frutti.
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