Un anno a Pietralata
Albino Bernardini
(...) CARLO
Si era ad anno scolastico inoltrato. Ogni mese, per una
settimana, dovevo assistere i bambini alla refezione. Ero stato costretto ad
anticiparne l’orario, giacché all’una e un quarto si cominciava ad entrare e si
finiva quasi sempre verso le due. L’ora dell’inizio della lezione coincideva
quindi con la fine del pasto. Non si trattava di un capriccio perché bisognava
fare due turni. Far mangiare assieme i bambini dei due turni era impossibile
perché i posti nel refettorio erano sufficienti per la metà degli alunni
assistiti. Fu proprio in uno di questi giorni, mentre andavo in refettorio, che
mi capitò di vedere uno spettacolo raccapricciante. Più tardi quando ci
ripensavo mi veniva da chiedermi: «Ma sempre a me deve capitare di trovarmi in
certe situazioni?».
Le cose, in verità, capitavano un po’ a tutti – tante ne
succedevano – ma gli altri forse facevano finta di non vedere, oppure, quando
non erano direttamente interessati, reputavano tutto lecito. Fatto sta che, mentre
entravo nel salone, incappai in due bidelle che cercavano di fare uscire a
forza un bambino. Questo, per quanto piccolo (otto o nove anni), opponeva una
tenace resistenza. Mentre una lo teneva per un braccio e una gamba, facendolo
stare in posizione orizzontale, riverso sul pavimento, l’altra lo tirava per un
piede. Per una parte dunque risultava sospeso. Nel trambusto aveva perduto
quelle che avrebbero dovuto chiamarsi scarpe e che una volta certamente lo
erano, ma che ora non avevano più né forma, né colore. I pantaloni sgualciti e
sporchi, di un colore indefinibile, gli erano stati tirati giù nella lotta,
mentre gli era stata tirata su la maglietta granata, crivellata di buchi.
Sembrava proprio volessero levargli la pelle. Era quasi nudo. Con una mano si
era attaccato alla porta e non riuscivano a farlo uscire. La cosa doveva durare
da qualche tempo poiché le bidelle erano sudate, e il piccolo, che gridava
disperatamente, aveva la faccia sfigurata dal pianto. Gli distaccavano una mano
dalla porta e si attaccava con l’altra, gli afferravano un piede e si
svincolava con un calcio.
– Ma che diavolo fate? – domandai.
– Dobbiamo portarlo fuori, – risposero le bidelle, sbuffanti
e seccate di trovarsi in quella vicenda quanto mai antipatica – dà fastidio ai
compagni e la maestra non lo vuole.
Lo afferrai per un braccio, lo misi in piedi e poi a sedere
in una sedia. Si strofinò gli occhi grondanti di lacrime con le mani sporche, e
così si impiastrò tutto il viso: sembrava una maschera.
– Ma non era meglio chiamare la mamma anziché dare questo
spettacolo? – dissi. Intanto un nugolo di bambini si era fatto attorno ed
ognuno commentava a modo suo. Alla mia domanda nessuno rispose e fui costretto
a rivolgermi direttamente alla bidella perché andasse a chiamare la mamma. – E
chi la trova, sor maé! Chissà dov’è quella! – esclamò. – La mamma è scappata,
sor maé – intervenne con la faccia seria uno dei miei alunni che mi si era
fatto vicino. Altri sghignazzavano e finalmente mi dissero che si trattava di
una girovaga e che il piccolo viveva con la zia.
Fa sempre pena vedere un bambino maltrattato; ma quando
questo è carico di stracci, allora stringe veramente il cuore. A questo
ingiusto trattamento, agli stracci che solo per comodità di linguaggio
chiamavamo abiti, si aggiungeva anche la sua triste e pesante situazione
familiare. Avrebbe avuto bisogno di cure speciali, di un affetto particolare
che avessero lenito in parte la umiliante separazione dalla mamma. Invece lo
cacciavano via per liberarsene. La giustificazione? Dava fastidio ai compagni.
Ecco anche in questo caso limite rispecchiarsi non solo la situazione a cui non
si cercava di rimediare neppure nei limiti delle possibilità, ma la completa
mancanza di una linea, di un indirizzo pedagogico. Ho dovuto lottare tante
volte contro questo metodo di comodo che poteva giustificarsi di fronte a un
caso eccezionale, ma era profondamente sbagliato quando diveniva un sistema,
soprattutto se applicato in una situazione del tutto particolare come quella di
Pietralata. Da questa posizione si passava alle teorizzazioni che facevano un
anormale di qualsiasi bambino che non fosse come lo si desiderava. Era vero che
il nostro Carlo – questo il suo nome – era un "anormale", ma che
altro poteva essere vivendo in quell’ambiente?
E più anormale di lui non era forse il trattamento
riservatogli?
La riprova l’avemmo quando venne in classe nostra. Per quanto
frequentasse la seconda (la nostra era una terza), chiesi alla collega che lo
teneva nel doposcuola di farlo venire con me. Nel frattempo era stata aperta
una pratica perché fosse ricoverato in un collegio di bambini abbandonati e si
attendeva da un giorno all’altro la chiamata. Stette con noi tre giorni. Furono
per lui tre giorni di pace che forse da tempo non godeva.
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