frecciagiallaSETTIMA

Lunario dei giorni di scuola


Settima settimana

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Opinioni di un clown

 Heinrich Böll.


"Da quando è morta mia sorella Henriette, per me i miei genitori non esistono piú come tali. Henriette è morta già da diciassette anni. Ne aveva sedici quando la guerra stava per finire: una bella ragazza, bionda, la miglior giocatrice di tennis fra Bonn e Remagen. Allora la parola d’ordine era che le ragazze si arruolassero volontarie nella FLAK, e Henriette si arruolò, nel febbraio 1945. Tutto si svolse cosí in fretta e senza incidenti che io non me ne resi nemmeno conto. Tornavo da scuola e traversavo la Kölner Strasse, quando vidi Henriette seduta nel tram che partiva proprio in quel momento in direzione Bonn. Mi fece un cenno di saluto e rise e anch’io risi. Aveva sulle spalle un piccolo sacco da montagna, in testa un bel cappellino blu scuro e indossava il cappotto invernale pesante, quello blu, con il collo di pelliccia. Non l’avevo mai vista con il cappello in testa, si era sempre rifiutata di metterlo. Il cappello la cambiava molto, le conferiva l’aspetto di una vera signorina. Pensai che andasse a fare una gita, sebbene fosse un momento strano per fare delle gite. Ma dalle scuole allora c’era da aspettarsi di tutto. Tentavano persino di insegnarci la regola del tre semplice nel rifugio antiaereo, malgrado si sentissero già le artiglierie. Il nostro insegnante Brühl cantava con noi inni «sacri e nazionali», come diceva lui, e con questo intendeva tanto Ein Haus voll Glorie schauet, quanto Siehst du im Osten das Morgenrot. Di notte, quando finalmente si stava tranquilli per una mezz’ora, si udivano sempre soltanto piedi in marcia: prigionieri di guerra italiani (a scuola ci era stato spiegato perché adesso gli italiani non erano piú alleati e lavoravano invece da noi come prigionieri, ma fino a oggi non sono riuscito a capire come mai), prigionieri russi, donne prigioniere, soldati tedeschi. Piedi in marcia, tutta la notte. Nessuno sapeva esattamente che cosa succedesse.
Henriette aveva realmente l’aria di andare a fare una gita scolastica. Quelli erano capaci di tutto. Talvolta, quando sedevamo in classe fra un allarme e l’altro, udivamo attraverso le finestre aperte veri e propri colpi di fucile, e quando voltavamo gli occhi spaventati verso la finestra, il maestro Brühl ci domandava se sapevamo che cosa significasse. Nel frattempo lo avevamo imparato: era di nuovo un disertore che veniva fucilato su nel bosco. «Cosí accadrà a tutti quelli che si rifiutano di difendere la sacra terra tedesca dagli yankee ebrei» diceva Brühl. (Poco tempo fa l’ho incontrato di nuovo. Adesso è vecchio, con i capelli bianchi; insegna in un’accademia di pedagogia ed è considerato un uomo con un «coraggioso passato politico» perché non fu mai iscritto al partito.)
Feci ancora un ultimo cenno di saluto in direzione del tram col quale partiva Henriette, e attraverso il nostro parco andai a casa, dove i miei genitori e Leo erano già seduti a tavola. C’era minestra di farina tostata, come piatto forte patate con salsa e come dessert una mela. Soltanto al dessert domandai a mia madre dove andava Henriette con la gita scolastica. Ebbe una breve risata e poi disse: «Gita! Assurdo. È andata a Bonn per arruolarsi nella FLAK. Non lasciare mezza mela attaccata alla buccia, figliolo, guarda un po’ qui». E, di fatto, prese le bucce dal mio piatto, vi passò con cura il coltello e infine si mise in bocca il risultato di quell’economia: diafane fettine di mela.
Guardai mio padre. Lui guardò nel suo piatto e non disse nulla. Anche Leo tacque, ma quando alzai di nuovo gli occhi su mia madre, ella disse con la sua voce dolce: «Capirai anche tu che ciascuno deve fare la sua parte per ricacciare gli yankee ebrei dalla nostra sacra terra tedesca». Mi gettò un’occhiata che mi fece sentire a disagio, poi guardò Leo nello stesso modo e mi fece pensare che fosse in procinto di far scendere anche noi due in campo contro gli yankee ebrei. «La nostra sacra terra tedesca» ripeté. «E sono già avanzati fino all’Eifel.» Mi pareva di avere una gran voglia di ridere; invece scoppiai in pianto, feci cadere il coltello da frutta e scappai in camera mia.(...)
Henriette con il cappellino blu e il sacco in spalla. Non ritornò piú e non abbiamo mai saputo dove sia sepolta. Qualcuno venne da noi dopo la fine della guerra e annunciò che era «caduta presso Leverkusen».
(...).
Soltanto un paio di giorni piú tardi venni a sapere chi avrebbe potuto attribuirsi la paternità dell’espressione «yankee ebrei»: Herbert Kalick, allora quattordicenne, il mio Jungvolkführer, al quale mia madre aveva generosamente concesso l’uso del parco, perché tutti noi venissimo istruiti a maneggiare le granate anticarro. Mio fratello Leo, che aveva otto anni, partecipava a queste esercitazioni; lo vidi marciare lungo il campo da tennis con una granata anticarro da esercitazioni sulla spalla, la faccia seria come la può avere soltanto un bambino. Lo fermai e gli domandai: «Che cosa fai con quel coso?». E lui, con la faccia di una mortale serietà: «Divento un Werwolf; e tu no forse?». «Certo» dissi io, e andai con lui oltre il campo da tennis, fino al campo di tiro, dove Herbert Kalick stava appunto raccontando la storia del ragazzo che a dieci anni aveva già guadagnato la croce di ferro di prima classe, da qualche parte nella lontana Slesia, facendo saltare per aria con le sue granate anticarro tre carri armati russi.
Quando uno dei ragazzi domandò come si chiamava questo eroe, io risposi: «Rübezahl». Herbert Kalick diventò giallo in viso e gridò: «Sporco disfattista!». Mi chinai e gli gettai in faccia una manciata di cenere. Tutti si lanciarono su di me; soltanto Leo restò neutrale, si mise a piangere ma non venne in mio aiuto e allora, preso dalla paura, gridai in faccia a Herbert: «Porco nazista!». Avevo letto quella parola da qualche parte, sulle sbarre di un passaggio a livello. Non sapevo esattamente che cosa volesse dire, ma avevo l’impressione che in quel momento fosse l’espressione giusta. Herbert Kalick interruppe immediatamente la mischia e assunse il tono ufficiale: mi arrestò, venni rinchiuso nel casotto del campo di tiro, fra bersagli e bastoni indicatori, fino a che Herbert non ebbe riunito i miei genitori, il maestro Brühl e un tale, gerarca del partito. Io piangevo di rabbia; calpestai tutti i bersagli e continuavo a gridare ai ragazzi che stavano fuori di guardia: «Porci nazi! Porci nazi!». Dopo un’ora venni trascinato nel nostro salotto per un interrogatorio. Il maestro Brühl era fuori di sé. Continuava a ripetere: «Estirpare radicalmente, estirpare radicalmente», e ancora oggi non so con precisione se intendeva fisicamente o, per cosí dire, spiritualmente. Quanto prima gli scriverò all’indirizzo della facoltà di pedagogia, pregandolo di una spiegazione, per amore della verità storica. L’uomo del partito, Lövenich, che rappresentava il comandante di zona, era molto ragionevole. Continuava a ripetere: «Ma pensate, riflettete, il ragazzo non ha ancora undici anni», e poiché produceva in me un effetto quasi rassicurante, risposi persino alla sua domanda: dove cioè avessi imparato l’espressione incriminata. «L’ho letta sulle sbarre del passaggio a livello della Annabergerstrasse.» «Non te l’ha detta per caso qualcuno» domandò, «voglio dire, non l’hai mai udita, a voce?» «No» risposi. «Il ragazzo non sa quello che dice» esclamò mio padre e mi posò una mano sulla spalla. Brühl gli gettò un’occhiata velenosa e poi guardò intimorito Herbert Kalick. Evidentemente il gesto di mio padre veniva interpretato come un segno troppo manifesto di simpatia. Piangendo mia madre disse con la sua voce dolce e stupida: «Non sa quello che fa, non lo sa, altrimenti dovrei ritirare da lui la mia mano». «Ritirala pure» dissi io. Tutto questo accadeva nel nostro immenso salone, con i pomposi mobili scuri, i trofei di caccia del nonno posati in alto sull’ampio zoccolo di quercia, i boccali e i pesanti armadi della biblioteca con i vetri a riquadri piombati.
Sentivo gli spari dell’artiglieria, su nei boschi dell’Eifel, a non piú di venti chilometri, di tanto in tanto si udiva persino il martellare di una mitragliatrice. Herbert Kalick, pallido, biondo, con la sua faccia da fanatico, fungendo da pubblico ministero, batteva continuamente le nocche sul piano della credenza ed esigeva «Durezza, durezza, inflessibile durezza». Venni condannato a scavare in giardino, sotto la sorveglianza di Herbert, una trincea anticarro...(...)




















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