Un
ritratto
Federigo Tozzi Era maestra elementare. Aveva un rocchio di capelli che
sarebbe bastato almeno per due donne, rossi e grossi; il viso giallo, sparso di
lentiggini che pareva una pelle di sughero; gli occhi strabici e con lo sguardo
da bove; una bocca così larga che non riesciva mai a chiuderla perché se
tentava di farlo da un lato, allora dall'altro lato le pendeva anche di più,
tutta sgualcita. Il naso schiacciato con due buchi fatti come due forellini da
aghi. Le spalle tirate in su, fin quasi alle orecchie; benché non fosse gobba. Ma voleva essere la più elegante di tutte; e quasi
ogni giorno, perciò, aveva un vestito nuovo. Ella si teneva da molto; e
soltanto al direttore della scuola faceva gli occhi dolci. Allora posava la
penna e si metteva ad odorare i fiori che teneva lì preparati sul tavolino. Ma
la dolcezza dei suoi occhi non veniva fuori che a mezzo; ed ella alla fine non ci
riesciva più, il suo viso s'irrigidiva a metà di una parola. Anche i fiori
sembravano irrigidirsi entro la sua mano. Allora ella si confondeva e si
smarriva; credeva di essersi compromessa tanto più che non riesciva a
ricomporsi. Le veniva una saliva ai denti cariati e sporchi. Poi impallidiva; e
i fiori ricadevano sul tavolo. Ella allora piangeva. Ma quando il direttore
ripassava risorrideva tra le lacrime mandandosi indietro quei capelli grossi
come lo spago; sentendo con angoscia, che una ciocca gliene ricadeva sempre su
un orecchio e che ormai non era più in tempo a riaggiustarsi. In quei momenti
credeva che avrebbe potuto essere amata; mentre quel viso giallo sotto alle
trecce rosse, certe trecce di canape greggia, faceva schifo.
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