Cristo si è fermato a Eboli Carlo Levi Einaudi
(...) Il podestà mi riconosce
e mi chiama. È un giovanotto alto, grosso e grasso, con un ciuffo di capelli
neri e unti che gli piovono in disordine sulla fronte, un viso giallo e imberbe
da luna piena, e degli occhietti neri e maligni, pieni di falsità e di
soddisfazione. Porta gli stivaloni, un paio di brache a quadretti da
cavallerizzo, una giacchetta corta, e giocherella con un frustino. È il
professor Magalone Luigi: ma non è professore. È il maestro delle scuole
elementari di Gagliano; ma il suo compito principale è quello di sorvegliare i
confinati del paese. In quest’opera egli pone (avrò poi modo di constatarlo)
tutta la sua attività e il suo zelo. Non è egli forse stato definito da S. E.
il Prefetto, come subito trova modo di dirmi con una vocetta acuta da castrato,
che esce sottile e compiaciuta da quel suo corpaccione, il piú giovane e il piú
fascista fra i podestà della provincia di Matera? Non posso fare a meno di
compiacermene con il professore. E il professore mi dà subito notizie sul
paese, e sul modo con cui mi conviene comportarmi. Ci sono qui alcuni
confinati, una diecina in tutto. Non devo vederli, perché è proibito. Del resto
sono gentaglia, operai, robetta.(...) (...) Il podestà, maestro di
scuola, era in quel momento nell’esercizio delle sue funzioni di insegnante.
Stava seduto al balcone della sua classe, e fumava guardando la gente sulla
piazza, e interpellando democraticamente tutti i passanti. Aveva in mano delle
lunghe canne, con le quali, ogni tanto, ristabiliva l’ordine senza muoversi
dalla seggiola attraverso la finestra aperta, colpendo, con un colpetto
abilissimo e ben aggiustato, la testa o le mani dei ragazzi che, lasciati soli,
facevano troppo chiasso. – Bella giornata, dottore! – mi gridò dal suo arengo,
quando mi vide comparire sulla piazza. Di lassú, con le sue bacchette in mano,
egli si sentiva veramente il padrone del paese, un padrone affabile, popolare e
giusto; e nulla poteva sfuggire alla sua vista. – Non l’avevo ancora veduto,
stamattina. Dov’è stato? A passeggiare? Su, fino al cimitero? Bravo, bravo,
passeggi, passeggi! Si diverta. E si trovi qua in piazza dopo colazione, alle
cinque e mezzo. Prima dormirà, credo. Le voglio far conoscere mia sorella. Dove
va? A Gagliano di Sotto? A cercare alloggio? (...) Il marito di donna
Caterina, un grosso uomo dalla faccia militarescamente burbanzosa e ottusa, la
cui fotografia in divisa da capitano troneggiava nel salotto, il maestro di
scuola Nicola Cuscianna, segretario del fascio di Gagliano e braccio destro di
suo cognato e di sua moglie nel dominio sul paese, era stato stregato dai begli
occhi neri, dall’alto corpo flessuoso, dalla bianca carnagione della bella
figlia del farmacista, che pure apparteneva alla famiglia nemica. Se fossero
davvero amanti o se la cosa non fosse che una esagerazione di male lingue, non
l’ho mai potuto sapere, ma donna Caterina ne era convinta. Donna Caterina non
era piú giovane, i vent’anni e la bellezza della sua rivale non potevano non
farla tremare. I due supposti amanti non potevano mai vedersi, in un paese cosí
piccolo, con mille occhi attenti su di loro, e con quelli vivi e sempre aperti
di donna Caterina, che non li perdeva di vista un minuto. Non c’era che un
mezzo per poter soddisfare l’irresistibile passione, secondo quanto immaginava,
nella sua gelosia, la moglie tradita: donna Caterina doveva scomparire; ed essi
cosí avrebbero potuto sposarsi. La bruna incantatrice e la sua bionda e
insignificante sorella erano le padrone incontrollate e incompetenti della
farmacia paterna, affidata illegalmente alla loro gestione; e tutto il paese
mormorava e temeva gli effetti della loro eccessiva disinvoltura nel pesare le
medicine. Il mezzo per la soppressione di donna Caterina era dunque a portata
di mano: il veleno. E il veleno avrebbe operato senza pericolo di scoperta: dei
due medici del paese, l’uno era lo zio dell’avvelenatrice, e certamente
complice; l’altro, vecchio e rimbambito, non era in grado di accorgersi di
nulla. Donna Caterina sarebbe morta, e i due amanti, impuniti e felici, avrebbero
riso insieme sulla sua tomba. |