Lunario dei giorni di scuola La proposta di un Lunario dei giorni di scuola nasce
dal convincimento che la scuola sia, nel bene e nel male, un "luogo" di
grandi passioni. Luogo di entusiasmi e di dolori, di slanci e di
frustrazioni, di apertura e di mortificazione, di libertà e di
coercizione, di utopia e di disincanto. Un
luogo potenzialmente privilegiato per l'esercizio dell'esperienza e
della parola, nonché per la loro elaborazione in sintesi vivificanti;
ma anche, troppo spesso, luogo di silenzi annichilenti. In questo quadro, a noi sembra di importanza e interesse particolarissimi la figura dell'insegnante, dell'educatore. Le
rappresentazioni che ne sono state fatte nella letteratura, più o meno
volontarie, più o meno consapevoli, sono numerosissime, in ogni epoca e
in ogni lingua. Maestri nevrotici, maestri ispirati, maestri sventura,
maestri mostri, maestri poveri, maestri per caso, maestri allegri,
maestri grandi, strani, piccoli, vari...: e maestre, maestre dagli
avversi destini, maestrine dalla penna rossa, maestre eroiche, grigie,
vitali, avvizzite, maestre mamme, maestre sorelle maggiori... Pensiamo
a queste figure non soltanto là dove la mano degli scrittori le abbia
descritte in cattedra, in aula, nel pieno istituzionale esercizio delle
loro funzioni; pensiamo a esse anche là dove la letteratura le abbia
colte in situazioni informali: comunque a manifestarsi, a essere
maestri, docenti, trasmettitori di sapere, educatori, a prescindere
dalle situazioni e dalle particolari contingenze. Nel contempo, almeno
in qualche caso, pensiamo ovviamente anche a figure sempre presenti nel
mondo della scuola e dell'educazione, che pur non fregiandosi
propriamente dell'appellativo di maestri, Maestri pure sono, nel senso
più pieno del termine: istitutori, precettori, professori, presidi. Va
da sé che una simile raccolta di brani, ciascuno accompagnato da brevi
note critiche, costituisce anche l'occasione per esplorare in
controluce il modo e le sensibilità con cui la letteratura ha percepito
sia il ruolo della Scuola, intesa come miscrosmo di umanità pulsante e
afferente la sfera della socialità in senso lato, sia il ruolo e la
figura di chi, ai Maestri, è sempre stato obbligatoriamente speculare e
complementare: il discente, l'Alunno. Formuliamo la proposta di un Lunario dei giorni di scuola certamente
in virtù della nostra esperienza di insegnanti elementari; ma anche di
quella di autori di libri della cosiddetta letteratura per l'infanzia;
di saggisti di pedagogia e di critica letteraria; di promotori
"militanti" della lettura; di lettori appassionati. Un bagaglio di
interessi, curiosità e motivazioni che già, in ambito scolastico, ha
permesso di produrre una prima raccolta di testi pubblicata sul cd-rom Maestri,
contenente oltre 150 brani tratti dalle opere dei maggiori scrittori di
diverse epoche e diversi paesi, interamente dedicato alla figura
dell'insegnante nella letteratura per ragazzi e nella letteratura
adulta. Ipotizziamo
di articolare il volume in 365 brani, uno per ogni giorno dell'anno;
oppure (ma soltanto per intuibili ragioni di spazio) in 210 brani,
quanti sono i giorni di un anno scolastico. Dato
il carattere del libro, le note che accompagneranno ogni brano saranno
necessariamente brevi, volte a fornire minimi accenni al contesto
socio-letterario dell'opera da cui il brano è tratto, all'autore, agli
elementi ritenuti rappresentativi del tipo di "lettura" dato al ruolo
dell'insegnante, della scuola, degli alunni. Note brevi e, per così
dire, "divertite": fuori cioè da ogni pedagogismo letterario. (.......) Giuseppe Pontremoli e Alberto Melis Esempi di schede 15 maggio GIACOMO NOVENTA Sarebbe opportuno leggere questa nota dopo il racconto (che Noventa scrisse nel 1947 intitolandolo La vacca) perché essa non può essere costituita che dalle parole che lo stesso Noventa gli faceva seguire: "Questa storia può sembrare molto buffa, ma non è una storia buffa. È una storia molto commovente, e quasi dolorosa, sebbene sia una storia di tutti i giorni. Molti possono scrivere quel che ho scritto io stesso: "Di fronte agli uomini ingenui e ai fanciulli abbi pudore anche del tuo pudore", ma quasi mai e quasi nessuno riesce a mettere in pratica un consiglio simile, o principio che sia. Noi agiamo quasi tutti come la buona maestra: rischiamo di ferire il pudore degli ingenui e degli innocenti quanto più vogliamo proteggerlo. Troppo fortunati, se la loro ingenuità e la loro innocenza sono così grandi da soverchiare il nostro moralismo e da impedirgli di nuocere". (g.p.) In
un giorno, o in un'ora, di vacanza, dunque, la buona maestra incontrò
una sua scolaretta. La scolaretta accompagnava una mucca. Sembrava più
piccola di quando era chiamata alla lavagna o alla cattedra. La buona
maestra s'intenerì e le chiese: "Dove vai bambina?". "Porto la mucca al
toro", rispose con grande semplicità la bambina. "Oh! Non potrebbe
farlo tuo padre?" osservò scandalizzata la maestra. "No, signora
maestra - rispose ancora la bambina - ci vuole proprio il toro". Giacomo Noventa, Il grande amore e altri scritti. 1939-1948, Marsilio, Venezia 1988. 10 novembre FEDERIGO TOZZI Federigo Tozzi (1888 - 1920), ebbe un'infanzia e un'adolescenza ingombre di un padre tiranno - l'oste senese Ghigo del Sasso, "un quintale e mezzo d'uomo con corte mani che (...) diventavano magli" - e un persistente pessimo rapporto con la scuola e con gli insegnanti, al punto che dopo ripetuti insuccessi ed espulsioni non riuscì a finire gli studi. Va da sé che questo breve ritratto al vetriolo - suggestione confortata dalla propensione del grande scrittore toscano alla sovrapposizione di "dolorosi" elementi autobiografici in tutta o quasi la sua opera - sembra avere il retrogusto un po' acre del regolamento di conti postumo. Sulla mappa geo-letteraria delle maestre narrate a cavallo tra Ottocento e Novecento, questa istitutrice tristissima e irrimediabilmente guasta si situa esattamente agli antipodi della maestrina deamicisiana che insegnava nella "prima inferiore numero 3, quella giovane col viso color di rosa, che ha due belle pozzette nelle guancie, e porta una gran penna rossa sul cappellino." (a.m.) Un ritratto Era
maestra elementare. Aveva un rocchio di capelli che sarebbe bastato
almeno per due donne, rossi e grossi; il viso giallo, sparso di
lentiggini che pareva una pelle di sughero; gli occhi strabici e con lo
sguardo da bove; una bocca così larga che non riesciva mai a chiuderla
perché se tentava di farlo da un lato, allora dall'altro lato le
pendeva anche di più, tutta sgualcita. Il naso schiacciato con due
buchi fatti come due forellini da aghi. Le spalle tirate in su, fin
quasi alle orecchie; benché non fosse gobba. I piedi enormi; quando camminava teneva i tacchi accanto e le punte in fuora. Aveva un sudore che si sentiva a parecchia distanza. Era restata come istitutrice nell'educandato dove l'avevano accolta da bambina. Ma
voleva essere la più elegante di tutte; e quasi ogni giorno, perciò,
aveva un vestito nuovo. Ella si teneva da molto; e soltanto al
direttore della scuola faceva gli occhi dolci. Allora posava la penna e
si metteva ad odorare i fiori che teneva lì preparati sul tavolino. Ma
la dolcezza dei suoi occhi non veniva fuori che a mezzo; ed ella alla
fine non ci riesciva più, il suo viso s'irrigidiva a metà di una
parola. Anche i fiori sembravano irrigidirsi entro la sua mano. Allora
ella si confondeva e si smarriva; credeva di essersi compromessa tanto
più che non riesciva a ricomporsi. Le veniva una saliva ai denti
cariati e sporchi. Poi impallidiva; e i fiori ricadevano sul tavolo.
Ella allora piangeva. Ma quando il direttore ripassava risorrideva tra
le lacrime mandandosi indietro quei capelli grossi come lo spago;
sentendo con angoscia, che una ciocca gliene ricadeva sempre su un
orecchio e che ormai non era più in tempo a riaggiustarsi. In quei
momenti credeva che avrebbe potuto essere amata; mentre quel viso
giallo sotto alle trecce rosse, certe trecce di canape greggia, faceva
schifo. Federigo Tozzi, Un ritratto, da Cose e persone: inediti e altre prose, Firenze, Vallecchi, 1981 5 ottobre MAX AUB Nato nel 1903 a Parigi da padre tedesco e madre francese, Max Aub visse prevalentemente in Spagna e in Messico, dove morì nel 1972. Nel corso della sua vita non ha scherzato con gli scherzi, scrivendo per esempio in pieno regime franchista un racconto intitolato La vera storia della morte del generale Franco oppure inventando un pittore cubista mai esistito di cui scrisse la biografia e l'epistolario con corrispondenti piuttosto famosi, e di cui organizzò anche una mostra che colpì molto la critica e la cui falsità venne svelata dopo due anni dallo stesso Max Aub. Quella che proponiamo qui è solo una delle circa ottanta "confessioni" di Delitti esemplari, pubblicato nel 1957 in cinquecento copie. Questo libretto beffardo, atroce e divertentissimo, è tutto da leggere: del povero maestro non vogliamo dire nulla, quel che ci preme evidenziare è che ogni volta che ne abbiamo proposto le gesta a una platea di insegnanti, abbiamo sempre visto illuminanti ancorché inquietanti bagliori negli occhi. (g.p.) Sono
maestro. Da dieci anni insegno nella scuola elementare di Tenancingo.
Sui banchi della mia classe sono passati tanti bambini. Credo di essere
un buon maestro. Lo credetti finché non spuntò fuori quel Panchito
Contreras. Non mi prestava alcuna attenzione e non imparava
assolutamente niente: perché non voleva. Nessuna punizione, né morale
né corporale, gli faceva effetto. Mi guardava insolente. Lo supplicai,
lo picchiai: non ci fu verso. Gli altri bambini cominciavano a
prendermi in giro. Persi ogni autorità, il sonno, l'appetito, finché un
giorno non ne potei più, e, perché servisse d'esempio, lo impiccai
all'albero del cortile. Max Aub, Delitti esemplari, tr. di Lucrezia Panunzio Cipriani, Sellerio, Palermo 1981. 4 gennaio ERICH MARIA REMARQUE Nella vasta antologia di cattivi maestri che la narrativa del Novecento ha restituito sulla carta, il professor Kantorek di Erich Maria Remarque (1898-1970), che convince i suoi alunni ad arruolarsi volontari per combattere nella Prima Guerra Mondiale sul fronte francese, occupa un posto di tutto rilievo. Non tanto per una malvagità appariscente e conclamata, essendo il nostro niente di più che un ometto bigio e ligio alla morale comune e al proprio dovere, quanto perché il Male di cui è placido e un po' bovino istigatore - ovvero il militarismo, il nazionalismo e la volontà di potenza - fu il nucleo pulsante e sotteso di una Weltanschauung che mise a ferro e a fuoco non una ma due volte l'intera Europa. A causa di Niente di nuovo sul fronte occidentale, romanzo in odore di autobiografia destinato a diventare un vero e proprio Manifesto contro l'orrore e l'inutilità della guerra (nel 1933 i nazisti lo arsero sul rogo a Berlino come libro "antipatriottico e degenerato"), a Erich Maria Remarque venne tolta la cittadinanza del Terzo Reich. (a.m.) (...)
Kantorek era il nostro professore: un ometto severo, vestito di grigio,
con un muso da topo. Aveva press'a poco la stessa statura del
sottufficiale Himmelstoss, "il terrore di Klosterberg". Del resto è
strano che l'infelicità del mondo derivi tanto spesso dalle persone
piccole, di solito assai più energiche e intrattabili delle grandi. Mi
sono sempre guardato dal capitare in reparti che avessero dei
comandanti piccoli: generalmente sono dei pignoli maledetti. Nelle
ore di ginnastica Kantorek ci tenne tanti e tanti discorsi, finché
finimmo per recarci sotto la sua guida, tutta la classe indrappellata,
al Comando di presidio, ad arruolarci come volontari. Lo vedo ancora
davanti a me, quando ci fulminava attraverso i suoi occhiali e ci
domandava con voce commossa: "Venite anche voi, nevvero, camerati?" Codesti
educatori tengono spesso il loro sentimento nel taschino del panciotto,
pronti a distribuirne un po' ora per ora. Ma allora noi non ci si dava
pensiero di certe cose. Ce n'era uno, però, che esitava, non se la
sentiva. Si chiamava Giuseppe Behm, un ragazzotto grasso e tranquillo.
Si lasciò finalmente persuadere anche lui, perché altrimenti si sarebbe
reso impossibile. Può darsi che parecchi altri la pensassero allo
stesso modo; ma nessuno poté tirarsi fuori; a quell'epoca persino i
genitori avevano la parola "vigliacco" a portata di mano. Gli è che la
gente non aveva la più lontana idea di ciò che stava per accadere. In
fondo i soli veramente ragionevoli erano i poveri, i semplici, che
stimarono subito la guerra una disgrazia, mentre i benestanti non si
tenevano dalla gioia, quantunque proprio essi avrebbero potuto rendersi
conto delle conseguenze. Per
uno strano caso, fu proprio Behm uno dei primi a cadere. Durante un
assalto fu colpito agli occhi, e lo lasciammo per morto. Portarlo con
noi non si poteva, perché dovemmo ritirarci di premura. Solo nel
pomeriggio lo udimmo a un tratto gridare, e lo vedemmo fuori, che si
trascinava carponi; aveva soltanto perduto coscienza. Perché non ci
vedeva, ed era pazzo dal dolore, non cercava affatto di coprirsi,
sicché venne abbattuto a fucilate, perchè alcuno di noi potesse
avvicinarsi a prenderlo. Naturalmente
non si può far carico di questo a Kantorek: che sarebbe del mondo, se
già questo si dovesse chiamare una colpa? Di Kantorek ve n'erano
migliaia, convinti tutti di far meglio nel modo ad essi più comodo. Ma qui appunto sta il loro fallimento. Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Mondadori, Milano, 1989 24 gennaio TAHAR BEN JELLOUN Interprete delle mille linee di confine, ma anche incessante costruttore di ponti tra le due sponde del Mediterraneo, quella europea e quella maghrebina, lo scrittore marocchino nato a Fès nel 1944 e da tempo residente in Francia ci propone la figura di un maestro anonimo, di un maestro qualunque. Che in un villaggio nordafricano così insignificante da essere un nulla, un nulla vuoto e tondo come una zucca - metafora di ogni aula da riempirsi di presenze e rapporti esemplari, pena la perdita di sé e degli altri - va in cerca dei suoi alunni che all'apprendimento hanno sostituito per necessità il lavoro sottopagato in una fabbrica di scarpe. Ecco allora che il maestro qualunque, un maestro esemplare, si pone delle domande e soprattutto si pone in ascolto: in questo brano anche di un vecchio saggio, "maestro" pur esso in senso lato, che sa che ad aspettarli, i bambini, sempre ritornano. (a.m.) (...) Il secondo giorno di scuola, mancano due allievi. Sono
ammalati o si sono persi per strada? Nessuno risponde. Due assenti su
trenta non sono tanti. Verranno domani. In realtà, l'indomani non
arrivano. Mancano altri tre bambini. Mi preoccupo. Non ho un direttore
cui rivolgermi. Sono il maestro, il direttore, il bidello e il
guardiano della scuola. Gli altri bambini non dicono niente. Faccio
lezione nonostante la preoccupazione. Alla fine del mese, mi ritrovo
con la metà degli allievi. Dove sono finiti gli altri quindici? A
questa domanda, i ragazzi ridono e rispondono una cosa qualsiasi.
Decido di parlarne al capo del villaggio, Hadj Baba. Lo trovo sul tardo
pomeriggio sotto l'albero, circondato da alcuni uomini, sempre gli
stessi. Mi dice, scacciando con la mano le mosche che gli ronzano
intorno: "I bambini sono sassi, rami di un albero che perde le foglie,
parole azzurre, scoppi di risa... vanno, vengono, passano e non
lasciano tracce... tutto questo tu che vieni dalla città dovresti
saperlo! Ricordati, non hanno ancora l'abitudine di andare a scuola con
regolarità. Forse, poi, non ti prendono sul serio, sei troppo giovane,
hai l'aspetto di un ragazzo. Per loro, il sapere deve essere insegnato
da un uomo maturo, un anziano con la barba bianca, un uomo che sappia
parlare agli alberi e agli animali. Tu vieni dalla città e hai
dimenticato la realtà del tuo villaggio." "No, è proprio perché amo il mio villaggio che sono tornato, per rendermi utile. Ma perché non vengono a scuola?" "Ah!
La scuola! Tu chiami questo rudere una scuola? Non hai neanche una
lavagna. Quanto ai tavoli e alle sedie, aspetta, aspetta pure. Perché
questo villaggio sperduto dovrebbe essere preso in considerazione dalle
autorità della città? Sei ingenuo, figlio mio. E poi, hai visto le
condizioni del bestiame? L'anno scorso tu non c'eri. Non ha fatto una
sola goccia di pioggia. Intorno a queste colline si aggira la morte.
Tieni, siediti e guarda il cielo. Se hai pazienza, imparerai che il
cielo è vuoto; non ci riserva nulla di buono. Siamo maledetti. E in
ogni caso, dopo la morte del nostro maestro, il villaggio continua a
morire. Quindi la scuola..." "Ho una nomina ufficiale per insegnare in questa scuola." "Benissimo,
e quindi? Noi, qui, siamo vittime dell'aridità. L'aridità del cielo e
degli uomini. Perché le persone della capitale non hanno nominato
qualcuno per aiutarci a lottare contro la fame?" "Avete paura di un'epidemia?" "Cos'è una epidemia?" "Una malattia che colpisce tutti." "No,
non è una malattia; guardati intorno, cosa vedi? Sabbia, pietre, un
albero, quello sotto cui siamo seduti; vuoto, vento, polvere, un pazzo
che parla da solo, e poi questa moschea trasformata in
scuola. Ecco tutto. Anche se arriva una malattia, se ne andrà. Non
troverà niente e nessuno da colpire. Questa è la nostra fortuna e la
nostra sfortuna. Moriremo da soli. Non abbiamo bisogno di malattie. Qui
le persone muoiono dormendo. Non si svegliano. Tutto qui. Non te la
prendere se i bambini spariscono; torneranno." Tahar Ben Jelloun, La scuola o la scarpa, Milano, Bompiani, 2000 1 ottobre LAURA PARIANI La scuola dovrebbe essere così, fatta di storie, dice la Luisina, dimostrando di essere davvero piuttosto grande, "grandaséla", addirittura saggia, capace di sintesi illuminanti. Una persona saggia, sì, forte della dirompente mitezza dei suoi nove anni. Di questa sua frase noi vogliamo fare una bandiera. E a tutte le signorine Sirena appassionatamente suggeriamo di non mancare mai di avere nella borsa nel cuore nella voce almeno un esemplare di flauto incantatore, un contenitore di parole vive. Potrebbe servire ad acquietare un po' persino i più grandi delle ultime file; e forse l'indiavolare di centoventitre coatti potrebbe trasformarsi nella scoperta della possibilità di rimettere in scena tutti gli anfratti della propria vita, anche dentro a quell'assurdo stanzone altrimenti gremito di intollerabili estraneità. Parola pizza, vurégia drizza. (g.p.) Tutt'a
un tratto il postino del paese appare sulla porta. "Sacranon! Che
burdéll ca gh'è chichinscì?" vusa, sputando per terra. Sarà per il suo
vocione baritonale, o per la sua corpulenza, ché è un faraone d'uomo,
comunque tutti i centoventitré ragazzini la piantano di indiavolare e,
in on esüssi, si rimettono seduti e zitti al loro posto. L'uomo
scuote il capo con aria di rimprovero, mentre posa sulla cattedra una
lettera e un pacchettino avvolto in carta spessa e marroncina. "Chesti
fiö-chì col maèstar ca gh'éa primma a faséan nó 'stu baccanéri. Chi non
sa fare, lasci stare: se voi non riuscite mica a tenere la classe e
farvi rispettare, è meglio che cambiate lavoro". Esce a grandi passi, non dopo aver lanciato una nuova occhiata torva alla scolaresca. Alla
signorina Sirena vengono le lacrime agli occhi e finge di soffiarsi il
naso nel suo grande fazzoletto bianco. Confusamente sente che le parole
disperazione e rabbia sarebbero esagerate: la situazione che sta
vivendo non le permette di sapere che sta provando proprio questo. Si
rende conto che dovrebbe sentire compassione nei confronti di questi
suoi scolari, e non, invece, quel senso di ripulsa che le attanaglia la
gola. La scuola che lei ha sognato per tanti anni era fatta di bambini
che volevano imparare, che le portavano ossequiosamente rispetto, che
accettavano l'ordine, che non discutevano le affermazioni
dell'insegnante... Ha voglia di fuggire. Si accorge di essersi
strappata pezzettini di pelle intorno alle unghie. A
l'é anmó ul Lipén a rompere il silenzio: "Sciura maestra, l'é che
nuiàltar siamo paisàn", dice, quasi sottovoce. Non è una frase
interrogativa la sua. Per questo la signorina Sirena ne è colpita: dove
siete vissuta fino adesso, che cosa avete fatto, non sapete niente. Che
glielo dica un bambino di otto anni, le fa ancora più impressione. Una
mano le tira l'orlo della gonna e la fa sobbalzare. Si tratta della
Luisina: "Sciura maestra, l'é ca a capìssum nó... I vocali, i
consonanti... chisti-chì inn robi ca sa pödum nó cumpréndi..." Neanche
questa è una frase interrogativa. All'improvviso
la signorina Sirena estrae un libro dalla borsa. Tüti gli öggi dei
bambini sono fissi su di lei. La giovane donna toglie da una piccola
busta gli occhialini, e li inforca. Quelle piccole lenti sembrano
rimarcare ancor più la distanza tra lei e i suoi alunni, farla
diventare più maestra. Sfoglia
velocemente il libro, guarda verso gli scolari con uno sguardo serio.
"Vi ricordate la storia di Pinocchio che vi avevo cominciato a
raccontare la settimana scorsa?" e, senza attendere la risposta, inizia
a leggere con voce un po' tremante, quasi soffocata dall'emozione: "Pinocchio
era stato derubato dei suoi quattro zecchini d'oro, sicché preso dalla
disperazione andò difilato in tribunale, per denunziare al giudice i
due malandrini che avevano compiuto il furto. Il giudice era un vecchio
scimmione con una barba bianca e gli occhialini d'oro... In sua
presenza, Pinocchio raccontò per filo e per segno l'iniqua frode di cui
era stato vittima; diede il nome e i connotati dei due ladri e finì col
chiedere giustizia". Le frasi del libro escono dalla bocca della
signorina Sirena con un certo timore, dato che la maestra si rende
conto della fondamentale estraneità del racconto a questo suo uditorio
di figli di contadini. Intorno
alla maestra si è comunque fatto un grande silenzio. I visi di tutti
sono immobili, gli occhi fissi sulla maestra, l'espressione assorta,
gli orecchi guzzi per non perdere una parola. La
signorina Barberis, senza osare distogliere gli occhi dal libro,
percepisce un'atmosfera diversa, un'attenzione che la rinfranca un po'.
Proprio vero quel che dicono i viggi: parola pizza, vurégia drizza...
Con voce più alta e sicura prosegue: "Il
giudice lo ascoltò con molta benignità: prese vivissima parte al
racconto: s'intenerì, si commosse: e quando Pinocchio non ebbe più
nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello. A quella
scampanellata comparvero subito due gendarmi..." "Tàj-lì
i püssé bon!" commenta una voce dal fondo dello stanzone. Nei ragazzi
si diffonde una specie di romorìo di congratulazioni per quel che
sembra la buona riuscita del fatto, manco l'avessero suonato loro il
campanello. "Allora
il giudice, indicando Pinocchio ai gendarmi", continua la maestra,
soddisfatta dal successo del suo raccontare, "disse loro: "Quel povero
diavolo è stato derubato di quattro monete d'oro: pigliatelo dunque e
mettetelo subito in prigione"". Ul
Tanu ha un moto di stizza: "Chéll sacraméntu!... Gh'è nó giustìzia a
'sto mondu-chì par i puarìtti..." e scrolla il testone ricciuto. "Ma i gendarmi", chiede stupita la Luisina, "a pudéan nó fà on quajcoss?" "Segon
cunfùrma", ribatte ul Pecion. "A te sé tróll piscinìna tì par cumpréndi
'sti robi-chì... I gendarmi ubbidiscono e basta..." "Pinocchio,
sentendosi dare questa sentenza tra capo e collo, voleva protestare",
la voce della signorina Sirena cerca di superare il brusìo suscitato da
quel commento e di ricatturare l'attenzione. "Ma i gendarmi, a scanso
di perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in
gattabùia. E lì vi rimase quattro lunghissimi mesi. E vi sarebbe
rimasto ancor di più, se non si fosse dato un caso fortunatissimo...
Sapete infatti cosa avvenne?" La
maestra ha alzato finalmente gli occhi dal libro. Tutti, anche i più
grandi delle ultime file, pendono dalle sue labbra. Uno stato di
esaltazione la invade e la innalza di fronte a se stessa - allora
riescono a capirmi! - per cui la voce le diventa squillante: "Bisogna
sapere che l'Imperatore che regnava nella città di Acchiappa-citrulli
avendo riportato una gran vittoria contro i suoi nemici, ordinò grandi
feste pubbliche e, in segno di maggior esultanza, volle che fossero
aperte anche le carceri e mandati fuori tutti i malandrini. "Se escon
di prigione gli altri, voglio uscire anch'io", disse Pinocchio al
carceriere. Ma quello gli rispose di no, perché il condono riguardava
solo i farabutti..." "Sémpar
inscì la sarà: gli onesti, quéj ca sa cumpórtan pulìdu, inn sémpar
legnà..." sbotta ul Terèsio, uno spilungone di nove anni. "Allora
Pinocchio lo assicurò di essere anche lui un malandrino e il
carceriere, sapete cosa fece?" questa volta è la voce della maestra a
essersi interrotta sul più bello. La signorina Sirena guarda il suo
uditorio attento e silenzioso, sorridendo, felice di aver provocato
negli scolari l'attesa del finale della storia. Gh'é nient da püssé
bell da 'na facia cuntenta... "Sciura maestra, mò 'sa ga sucédi?" chiede la voce della Luisina che non sta più nella pelle. "Quando
Pinocchio gli ebbe giurato che era proprio un malandrino, il
carceriere, togliendosi rispettosamente il berretto, gli aprì la porta
e lo lasciò uscire!" conclude la maestra, mentre tra le fila dei
ragazzi si diffonde un vocìo generale di soddisfazione. Al Teresio gli
ride anche il culo. "Tüti i gobbi a gh'han ul so drizzu", è il suo
commento. Chi non sembra convinta invece l'é la Luisina: "Ma perché ul carceriere si leva la berretta?" "Perché cunt' i scròchi, quelli veri, i malaménti dabòn, si deve star sempre attenti, can sa sìa..." ride ul Lipén. Come fanno dei ragazzini così piccoli a dire enormità come queste? La signorina Sirena è senza parole. Se
ne sono andati tutti. C'è silenzio adesso nello stanzone vuoto della
scuola. La maestra sta seduta sul cassone, la testa tra le mani. Si è
afflosciata su se stessa, in una tristezza che temeva e aveva paura di
riconoscere. Si guarda le scarpe coi tacchi consumati, le calze
rammendate fino al polpaccio. Alla fine scoppia a piangere, presa dallo
sconforto. Probabile che stia sbagliando tutto, questo lavoro è
superiore alle mie forze, sospira. Loro non riescono a capire, e chi ne
ha colpa?... Forse son io che non sono adatta a fare la maestra. Forse
si dovrebbe insegnare in un altro modo... Sono parecchie settimane che
è iniziata la scuola e ancora, con quelli della prima classe, non le è
riuscito di andare al di là delle vocali. Un
rumore la fa sobbalzare. In piedi, stringendosi la giacchetta di panno
addosso a mo' di protezione, si guarda intorno impaurita. La Luisina è
spuntata fuori dal nulla, sta lì a tre passi da lei, la faccia dalle
ossa sporgenti resa ancora più affilata dal cerchio di luce della
lampada. "Beh,
cos'hai da guardare?" la voce della giovane donna è quasi irosa. Le dà
fastidio che qualcuno l'abbia sorpresa in questo atteggiamento così
poco autorevole. Lei è la maestra, accidenti... "Allora, che vuoi?"
richiede, sciugandosi le lacrime col fazzoletto che si è levata dalla
manica del vestito. Sono da invidiare le persone che non conoscono le
situazioni di imbarazzo di fronte ai bambini... "L'é staj bell". "Cosa?" domanda la signorina Sirena, spazientita. "La storia del Pinocchio... A scöra la duarìa vèss inscì, fatta di stórij..." La
maestra si soffia il naso, guarda il viso della bambina, sospira e
allunga il braccio per afferrare la mano della Luisina; quasi volesse
grapparsi a lei per un po' di conforto. "Allora ti è piaciuta?" domanda. La bambina fa segno di sì con la testa. "E cosa ti è piaciuto di questa storia?" incalza la signorina Sirena. "I paróll..." "Le parole?!" sbotta la maestra, sorpresa; ché le vien quasi da ridere. La
bambina intanto si è accoccolata davanti al cassone, ha preso tra le
mani il libro da cui la maestra ha letto la storia e lo carezza. "A génti tame num..." dice la Luisina in un sussurro, "i paisàn, insomma, a cugnùssan nó i paróll..." "Ma
son qui io per insegnarvele le parole, non capisci? Le parole..." la
signorina si è messa a sedere sul cassone, le mani giunte come in
preghiera. "I
paróll inn fàj mìa par i paìsan...A vurì sintì 'na storia, sciura
maestra, ca la me cuntéa sémpar menóna Purtugàla, quandu ca mì a séru
piscinìna?" "Quando eri piccola?" ride la giovane donna. "Perché adesso cosa sei?" "Mì
a sòm già grandaséla, ci ho nove anni..." risponde seria la Luisina.
"Ma allora, sciura maestra, la vurì sintì 'sta storia, sì o no?" la
voce della bambina è un po' spazientita, certo che questa maestra è un
po' dura di comprendònio. "Certo, certo... Racconta". Laura Pariani, Il paese delle vocali, Casagrande, Bellinzona, 2000, pp. 54-62. 9 luglio PELHAM GRENVILLE WODEHOUSE In questo brano tratto da Jeeves sta alla larga, Bertie Wooster, uno degli scoppiettanti personaggi che più ricorrono nell'eterna commedia di Wodehouse (nato nel 1881 a Guildford e morto a New York nel 1975), viene a sapere che presto incontrerà Aubrey Upjohn, il suo vecchio e inflessibile direttore alla Scuola preparatoria di Malvern House, Bramley-on-Sea. Inutile aggiungere qualsiasi commento, trovandoci qui nel leggerissimo universo degli "allegri cretini" dell'aristocrazia inglese che Wodehouse amava bonariamente fustigare - poiché "con quei cretini era politicamente d'accordo, ma artisticamente in disaccordo", come ha scritto un divertito Lucio Villari nella prefazione di un altro romanzo, Molto obbligato, Jeeves - salvo forse che ben capiamo il sentimento di sconforto del giovane Wooster. Non c'è dubbio, infatti, che a ciascuno di noi sia capitato di incontrare nella sua carriera scolastica almeno un Aubrey Upjohn da dimenticare. (a.m.) (...)
Ero ancora barcollante sotto questo colpo, quando l'anziana parente me
ne somministrò un altro e fu un colpo da mettermi fuori combattimento. - E ci sono Aubrey Upjohn e la sua figliastra Phyllis Mills - disse. - Questo è tutto. Che cos'hai? Ti è venuta l'asma? Compresi
che alludeva all'improvviso rantolo che mi era uscito dalle labbra e
devo confessare che era risultato non molto dissimile dagli ultimi
accenti di un'anatra morente. Ma sentivo di essere assolutamente
giustificato a rantolare. Un uomo più debole avrebbe ululato come uno
spirito della morte. Mi riaffiorò alla mente qualcosa che Aringa
Herring mi aveva detto una volta. "Sai, Bertie" aveva affermato,
sentendosi disposto alla filosofia, "dobbiamo essere molto grati per
l'operato della Provvidenza nella nostra vita, tu ed io. Tuttavia, se
il percorso sarà arduo, vi è un pensiero di base cui possiamo
attenerci. Le nubi tempestose possono abbassarsi e l'orizzonte
oscurarsi, possiamo avere un chiodo nella scarpa ed essere sorpresi
dalla pioggia senza ombrello, possiamo scendere a colazione e scoprire
che qualcun altro ha preso il nostro uovo fritto, ma almeno abbiamo la
consolazione di sapere che non vedremo mai più Aubrey Dio-ci-aiuti
Upjohnn. Ricordati sempre questo nei momenti di sconforto", disse e io
l'avevo sempre fatto. Ed ora ecco la canaglia che mi spuntava proprio
fra i piedi. Abbastanza da costringere un uomo dal cuore vigoroso ad
interpretare il ruolo dell'anatra morente. (...) Pelham Grenville Wodehouse, Jeeves sta alla larga, Mursia, Milano 1989 12 febbraio ANNA MARIA ORTESE Cosa può lasciare, in dono, un maestro che si appresti a prendere congedo dalla propria funzione? Poco, probabilmente, e non solo perché non abbia guadagnato granché. O, forse, anche, moltissimo: il conseguimento della capacità di provare ed esprimere apertamente sentimenti che muovono sia il riso sia il pianto; emozioni; parole. Ma sarà necessario avere agito - magari anche sgradevolmente - senza rinunciare alla propria composita essenza: severità, stranezze, alterità, malinconie, la convinzione che l'infanzia sia l'aurora del mondo umano. Potrà lasciare parole: magari poche, ma riassuntive davvero del senso della propria presenza nel vasto mondo. E poi la memoria di una voce che faceva pensare alle foreste, alla solitudine, al vento. Un universo, insomma - ovviamente braccato dal potere. (g.p.) In
un villaggio di pescatori non lontano da Kirkenes (Norvegia), un
villaggio veramente molto piccolo e povero, detto Kirk, perché un vero
nome non aveva, c'era una scuola ancora più piccola e povera,
proporzionalmente, se possibile. Una stanzaccia di legno, dove
convenivano ogni giorno, provenienti dalle otto case del villaggio, una
ventina di bambine e di ragazzetti: rossi, biondi e rannicchiati nei
loro pellicciotti. Una grossa lanterna, in quelle nebbiose mattine e
quegli oscuri pomeriggi d'inverno, illuminava scialbamente le pareti di
legno della stanzaccia, le cui due finestrine, una sulla strada,
l'altra a ridosso della foresta, e ambedue in parte ostruite da neve e
ghiaccio, mostravano ora un bianco paesaggio, oppure le stelle del
mattino. Al di là del villaggio c'era il mare, e benché non si vedesse,
là convergevano i pensieri dei più vivaci e sognatori fra quei ragazzi,
i cui nonni e padri erano, da infinite generazioni, marinai e pescatori
di aringhe. Due di questi ragazzi, Vardo e Gamik, di dodici e tredici
anni, erano molto amici tra loro, e amavano, come molti norvegesi, le
storie fantastiche. C'è da aggiungere che, essendo anche due ragazzi
moderni, non ci credevano. Tuttavia ne parlavano. "Vuoi
vedere" disse un giorno Vardo, ch'era il più smaliziato, a Gamik "che
una volta o l'altra ci mandano qui, come supplente, Sveig in persona?". E giù a ridere. Sveig
era il nome leggendario di un orso altrettanto leggendario, e lo
scherzo valeva perché l'attuale unico maestro della scuola, il signor
Orso Sulitjema, da tempo sofferente di reumi, e comunque in cattiva
salute, già sembrava, a parte quel ridicolo nome, un autentico orso. A
queste parole, il signor Sulitjema che quella mattina sembrava più
triste e imbronciato del solito, cacciò, per così dire, il muso fuori
dal suo grosso pellicciotto che mai si toglieva, e sollevando appena un
po' gli occhiali a stanghetta sul naso rotondo, borbottò: "Si può sapere, Vardo e Gamik, cos'è questo disprezzo per gli orsi?". Vardo e Gamik non risposero nulla. Allora,
il malinconico signor Sulitjema, dopo essersi tolti, dagli occhi
cespugliosi, gli occhiali, e averli puliti in un gran fazzoletto
turchino da marinaio, e avere un po' tossito (o forse borbottato),
annunciò, con una voce calmissima e assai dolce, che gli allievi non
gli conoscevano: "Ragazzi,
i vostri colleghi" chiamava spesso così, solennemente, i suoi ragazzi
"Vardo e Gamik, presupponendo l'eventualità (non lontana) di un
supplente che sostituirebbe il vostro detestato maestro, hanno detto
casualmente la verità. Questo, voglio dire, è infatti l'ultimo giorno
che ci tratteniamo insieme in questa classe, dove ci siamo sforzati di
aprendere qualche nozione utile alle vostre giovani menti. Domani non
verrò più. Un vero maestro (la sua voce suonò vagamente ilare) è in
questo momento già in viaggio nella nebbia. E lui, da domani all'alba,
mi sostituirà". Un
lungo oh di meraviglia, interrotto da qualche risatina, accolse le
inattese parole del signor Sulitjema. Nello stesso tempo, molte sciarpe
azzurre volarono per aria, e molti bambini e bambine saltarono per la
gioia sui banchi. Erano cresciuti liberamente, e non avevano falsi
pudori dei loro sentimenti. Il maestro li osservò senza,
apparentemente, alcuna espressione di rimprovero o di pena. Sotto il
suo aspetto strambo e severo egli aveva una vera e illuminata religione
dell'infanzia e gioventù, che considerava l'aurora del mondo umano.
Aspettò quindi che si calmassero, poi, preso un altro fazzoletto,
questa volta rosso, da contadino, dalla tasca destra del pellicciotto,
e soffiatosi il naso, e asciugatosi un po' l'occhio sinistro che gli
lacrimava, proseguì: "Figli
miei, permettetemi di chiamarvi così, mi rallegro di vedervi in buona
salute, cioè capaci di ridere del vostro vecchio Sulitjema. Ciò
significa che la mia severità non vi ha affatto tormentati. Come
sapete, non ho guadagnato molto insegnando per cinque anni in questa
scuola, e adesso che sto per lasciarvi non posso quindi, come vorrei,
farvi un regalo. Mi dispiace". Queste
parole mansuete e amorevoli non erano proprio insolite sulla bocca del
signor Sulitjema, ma questa volta, avendo fatto seguito alla loro
risata, ed essendo pronunciate in quelle particolari circostanze,
colpirono l'animo dei ragazzi. Subito un religioso silenzio, quasi
malinconico, colmò l'atmosfera dell'aula. "Vi
lascerò quindi, come solo regalo, le parole del vostro vecchio maestro,
di Orso Sulitjema, sempre state alla base di tutti i suoi insegnamenti.
Le ricordate? "Primo:
non badate molto alle apparenze, cioè non giudicate gli uomini dal loro
pelo o, al contrario, dai loro sontuosi vestiti. Secondo: non giudicate
la Natura tanto silenziosa e fredda, e soprattutto obbligata a
sfamarvi, come finora hanno fatto i vostri coraggiosi padri. No, figli
miei: la Natura ha occhi e orecchie più di quanto voi intendiate. E...
forse non ci crederete, essa vi ama. Onoratela e vogliatele sempre il
più gran bene possibile: non vi mancherà mai nulla su questa terra, e
quando, dopo una lunga vita felice chiuderete gli occhi, sarà solo per
riaprirli su una terra e un mare più belli: e uccelli e orsi, non
maestri e capi di Stato, uccelli e orsi e altri animali che avrete
amato, essi soli vi accoglieranno e, se del caso, giudicheranno". Chissà perché, a queste parole, veramente sbalorditive, l'intera classe del signor Sulitjema scoppiò in lacrime. Fu
un momento di grande tumulto, anche Vardo e Gamik piangevano. Quasi
contemporaneamente una slitta si fermò davanti alla porta, e invece del
supplente ne scesero due funzionari della Guardia Forestale con un viso
preoccupato. Chiesero ai ragazzi dove fosse il signor Sulitjema, ma
egli non c'era più: rotto un vetro della finestrina che dava sulla
foresta, era fuggito via. Vi
fu un'inchiesta e tutti i giornali ne parlarono. I ragazzi eccitati
asserivano che l'accusa della polizia non si reggeva: il maestro non
era affatto un autentico orso patito per l'insegnamento ai figli degli
uomini., ma semplicemente un buon uomo un po' strano e pieno di
malanni, e, soprattutto - dicevano - "parlava di cose che
c'interessavano, con una voce - questo è vero - che faceva pensare alle
foreste, alla solitudine, al vento". Ma perché, in questo caso, era
fuggito rompendo un vetro? Non
si seppe mai. In realtà, questo mondo è pieno di cose strane e belle,
purché uno non abbia la superbia di voler capire tutto. E i venti
bambini della scuola di Kirk, questa superbia, fortunatamente, non
l'avevano. Rimasero
molto legati al ricordo del loro Sulitjema, e talvolta, quando ancora
con le stelle giungevano a scuola, gli sembrava di scorgerlo dietro la
cattedra, mentre respirava un po' affannosamente, asciugandosi gli
occhiali, o il naso, con due fazzoletti di eccezionali proporzioni: uno
rosso come la vita e uno azzurro come i cieli che splendono su questa
vita. Anna Maria Ortese, In sonno e in veglia, Adelphi, Milano, 1987, pp. 147-152. 2 marzo ERODA Dobbiamo al poeta greco Eroda, vissuto presumibilmente a Coo nel terzo secolo avanti Cristo, questa scenetta popolare assai lontana dai più vasti respiri del grande mimografo Teocrito, a lui contemporaneo. Istigato dalla massaia Metrotima che non riesce ad averla vinta su suo figlio Cottalo, il maestro di scuola si arma di coda di bue, il nerbo sodo, ma senza alcun successo: cosa che la dice lunga, anche in termini storici e cronologici, sulla vacuità delle punizioni corporali e sulle eterne dinamiche tra maestri e Gianburrasca di turno, antelitteram compresi. La versione che qui proponiamo è un adattamento di quella che Giovanni Setti pubblicò nel 1893, traducendo in prosa questo mimo che Eroda compose in versi giambici (e che quindi è propriamente un mimiambo), con un irresistibile piglio toscano. (a.m.) Il maestro di scuola PERSONAGGI: LAMPRISCO, maestro METROTIMA, madre di Cottalo COTTALO, scolaro EUTIA, COCCALO, FILLO, scolari compagni di Cottalo METROTIMA:
Che le dolci Muse ti dieno, o Lamprisco, di gustar un po' di bene nella
vita! Ma a costui gli hai a scorticare il groppone, fin che l'animaccia
sua non gli venga proprio sulle labbra. Tutta la casa m'ha messo
sossopra giocando a pari e caffo; ché i dadi non gli bastano più, o
Lamprisco: e la faccenda ormai si va a far grossa. Dove stia di casa il
maestro di scuola, che il trenta d'ogni mese (e son dolori!) vuol la
mesata, non gli caveresti di bocca, anche se versassi tutte le lagrime
di Nannaco. Ma il ridotto dello sciopero, ove si dan convegno i
facchini ed i monelli, quello, si, lo sa insegnare anche agli altri. E
quella povera tavoletta, ch'io m'arrabatto ad incerare tutti i mesi, se
ne giace là abbandonata davanti allo stramazzo, alla colonnina della
parete. E se pure, sbirciandola di traverso come se fosse l'Orco, la
piglia in mano, non la piglia per scrivervi su qualche bella cosa, ma
per raschiarla tutta quanta. Le gazzelline intanto se ne stanno nei
mantici e nelle reticole unte e bisunte più dell' ampolla che ci serve
a tutto. Una "a" dal "b" non lo sa distinguere, se non gli voci cinque
volte la stessa cosa. L'altro giorno, mentre suo babbo si sfiatava a
farlo leggere, di un Marone fece un Simone questo bel tomo: tanto che
io mi dètti della citrulla, io che, invece di mandarlo a pascere i
somari, lo tiro su nell'abbicci con l'idea di farmene il bastone della
vecchiaia! Se io o suo padre (povero vecchio, mezzo sordo e mezzo
cieco) gli diciamo di recitare qualche pezzo, come si fa coi ragazzi,
allora bisogna vederlo...: par che sgoccioli da un colino. "O Apollo
dei campi! questo" gli dico io "anche la nonna, poveretta, ti saprà
recitare, essa che non sa di lettere, od un Frigio qualunque". Se poi
ci piace di borbottare anche un po' più forte, ecco per tre giorni non
rivede la soglia di casa, ma scappa da sua nonna, e tormenta quella
vecchia e povera donna...; oppure monta sul tetto, e se ne sta lassù,
dinoccolato, con le gambe penzoloni, come uno scimmiotto. Ci pensi tu,
come si debbano rimescolare le viscere in corpo a me, disgraziata,
quando lo veggo? E non discorro tanto di questo: ma mi fracassa tutte
le tegole, come se fossero stiacciate; e come si avvicina l'inverno,
tocca a me a disperarmi ed a pagare ogni rottura un obolo e mezzo. Ad
una voce tutto il casamento grida: "Queste sono le prodezze di Cottalo,
il figliuolo di Metrotima"; ed è la verità, che non fa una grinza.
Mira, in che modo s'è fatta tutta lividi la groppa scorrazzando pel
bosco: pare un di que' pescatori di Delo, che sul mare trascinano la
vita melensa! Però il sette ed il venti1 li sa meglio degli strolaghi;
e non piglia neppur sonno al pensiero di quando voi fate vacanza. Ma se
coteste dèe costì2, o Lamprisco, ti dien del bene e ti consentono una
opera buona... LAMPRISCO:
Non stare, o Metrotima, a scongiurare per lui: ché non avrà meno di
quel che deve avere. Dov'è Eutia? Dove Coccalo? Dove Fillo? Non vi
spicciate a pigliare costui in groppa, poltroni, che tirereste in lungo
la cosa sino alle calende greche? Faccio onore ai bei fatti, Cottalo,
che tu fai. A te non basta più giocare alla buona con le tessere, come
fanno gli altri; ma ti ci vuole il ridotto e il gioco del soldo tra i
facchini. Ora io ti vo' rendere più ammodo d'una fanciulla: tale, che
non moveresti una foglia, anche se te ne spirassi! Qua il nerbo sodo,
la coda di bue, con cui concio di santa ragione i riottosi ed i
perversi... Presto, qua: prima che io abbia vomitato la mia bile! COTTALO:
No, ti supplico, Lamprisco: per coteste Muse, e per la tua barba, e per
l'anima di Cottide; non mi conciare con quella soda, ma con l'altra... LAMPRISCO
Ma tu se' un briccone, o Cottalo: tanto, che non ti decanterebbe pur un
rivendugliolo; neanche nel paese ove i topi rosicchiano persino il
ferro. COTTALO: Quante, quante... Lamprisco... ti supplico... me ne fai dare? LAMPRISCO: Non lo domandare a me, ma a costei (accennando alla madre). Piff, paff! (picchia). COTTALO: Quante, dico, se t'ho a campare? LAMPRISCO: Quante ne reggerà la tua pellaccia. COTTALO: Smetti... bastano, Lamprisco! LAMPRISCO: E tu smetti le tue birbanterie... COTTALO Non lo farò più, più... te lo giuro, o Lamprisco, per le care Muse! LAMPRISCO: Ohè tu, che parlantina che tu hai... Ti appiccicherò subito il bavaglio, se più oltre borbotti... COTTALO: Ecco, sto zitto... Ma ti prego, non mi ammazzare! LAMPRISCO: Lasciàtelo, Coccalo. METROTIMA: Non hai a smettere, Lamprisco. Ma rèbbialo ben bene, fin che il sole vada sotto... LAMPRISCO: Peraltro la cotenna l'ha più screziata d'una tarantola... METROTIMA:
E deve buscarne, proprio mentre è chinato sul libro... il
disutilaccio... altre venti, per lo meno: anche se leggerà più spedito
della COTTALO (che è riuscito a fuggire): Issssch! METROTIMA:
Che senza accorgertene tu non abbia tuffato la lingua... nel miele!
Corro subito a casa a dirlo di proposito, o Lamprisco, al mio vecchio;
e ritornerò con dei ceppi, perché lo mirino qui a saltellare con quelle
collane ai piedi le dee venerande, che egli ha in uggia. Adattamento
della traduzione di Giovanni Setti, in Scene greche scoperte in un
Papiro egizio conservato nel British Museum, E. Sarasino ed., Modena,
1893 10 giugno BRUNO SCHULZ Bruno Schulz fu ucciso il 19 novembre 1942, con due colpi di pistola, in strada, da un nazista. Aveva cinquant'anni. Fino ad allora aveva pubblicato due libri, Le botteghe color cannella e Il Sanatorio all'insegna della clessidra: racconti che non vanno oltre le duecento pagine ma sono riusciti a far dire a I.B.Singer che in alcuni di essi Schulz riesce a essere più grande di Kafka. Si è favoleggiato a lungo, e si continua ancora, a proposito di un suo mai ritrovato romanzo, Il Messia; in ogni caso scrisse poco, ma David Grossman ha detto: "Schulz che scrive un intero romanzo? Dovrebbero cucirne insieme le copertine per evitare che trabocchi nella notte. La vita esplode in ogni pagina scritta da lui. Improvvisamente la vita diventa degna del suo nome: un'immensa battaglia, intrapresa simultaneamente con ogni strumento del linguaggio a tutti i livelli del conscio e dell'inconscio, del sogno sfumato e dell'incubo". Per quindici anni Schulz insegnò disegno e attività manuali (nel ginnasio e nella scuola elementare, per completare l'orario), vessato da problemi burocratici e umiliazioni. La scuola gli stava davvero stretta, portandolo ad affermare in una lettera del 1934 che "questa professione mi è venuta a schifo fino al vomito". (g.p.) Drohobycz, 2 dicembre 1934 a Tadeusz Breza Caro Signore! Desidero
ringraziarLa di cuore per la lettera e informarLa che ho letto la Sua
relazione sul Rocznik Literatury, di cui Lei non mi scrive, nella quale
mi colloca fra gli esponenti di primo piano dell'annata letteraria.
Reputo un atto di grande coraggio schierarsi così senza compromessi,
con tutta la propria persona, a fianco dei propri amici d'idee,
assumere su di sé la responsabilità delle proprie simpatie ideali. Sono
commosso e riconoscente. Questa solidarietà da parte delle persone che
mi sono vicine mi risolleva dalla mia depressione. Sono molto depresso:
le ferie, sulle quali contavo molto, non mi sono state concesse.
Rimango a Drohobycz, a scuola, dove questa marmaglia si farà beffe dei
miei nervi. Perché bisogna dire che i miei nervi si sono dispersi
fulmineamente per tutto il laboratorio di lavori manuali, si sono
estesi per il pavimento, hanno tappezzato pareti e avvinto con un fitto
intrico le officine e l'incudine. Scientificamente questo è un fenomeno
famoso di un certo tipo di telecinetica, in virtù della quale tutto ciò
che avviene nelle officine, nelle piallerie, ecc., in certo modo
avviene sulla mia pelle. Grazie a questa rete di segnalazione così
eccezionalmente sviluppata, sono destinato a fare l'insegnante di
lavori manuali. Se
proprio ormai dobbiamo scambiarci i segreti disturbi di cui siamo
afflitti, Le confiderò una certa malattia che mi perseguita, e che pure
riguarda il tempo, anche se si differenzia dalle manifestazioni di
diarrea gastrica che Lei mi ha descritto parlando di sé. Il Suo
apparato digerente lascia passare il tempo troppo facilmente, è
incapace di trattenerlo in sé - il mio si distingue per una paradossale
schifiltosità, è dominato dalla idée fixe della verginità del tempo.
Come per un qualunque Rajà dall'anima melanconica e insaziabile, ogni
donna che sia già stata carezzata dallo sguardo di un uomo - è ormai
deturpata e degna soltanto di un capestro di seta, così per me il
tempo, sul quale qualcuno ha avanzato una pretesa, al quale ha fatto la
minima allusione - è già corrotto, andato a male, non commestibile.
Quanto al tempo non sopporto i rivali. Essi mi rendono disgustoso il
pezzetto che hanno palpato. Non sono capace di dividere il tempo, non
riesco a nutrirmi dei resti lasciati da qualcuno. (Gli innamorati
gelosi fanno uso di questo stesso vocabolario.) Quando ho da preparare
la lezione per il giorno dopo, comprare all'emporio i materiali di
legno - l'intero pomeriggio e la sera sono per me ormai persi. Rinuncio
agli avanzi del tempo con nobile alterigia. Tutto - o nulla - è il mio
motto. E dal momento che ogni giorno di scuola è profanato in questo
modo - vivo in orgogliosa astinenza - e non scrivo. In questo rigore
senza compromessi vive una certa mentalità feudale. Come la pensa Lei,
si può allevare, impinguare, coltivare questa efflorescenza di
cavalleria? Inoltre
La informo che probabilmente verrò per le feste a Varsavia, dove ho
intenzione di trascorrere le vacanze di metà anno. Lei ci sarà? Mi
rallegro molto dell'incontro. Accludo parole di stima e di calda
simpatia Bruno Schulz P.S. Mi può indicare qualche abitazione a basso prezzo in Varsavia? Bruno Schulz, Lettere perdute e frammenti, a c. di Jerzy Ficowski, tr. di Andrzej Zielinski, Feltrinelli, Milano, 1980. 28 agosto JEAN DE LA FONTAINE Jean
de la Fontaine (1621-1695), trovò probabilmente l'ispirazione per
questa favola che appare nella prima raccolta pubblicata a Parigi nel
1668, più che nella similare versione esopica conosciuta con il titolo
Il ragazzo che faceva il bagno (che secondo alcuni era sconosciuta
nella Francia del Seicento), in un brano del Gargantua e Pantagruele di
Rabelais, laddove frate Gianni minaccia i suoi compagni di viaggio di
lasciarli annegare nel fiume, tenendo loro "un bello e lungo sermoncino
de contemptu mundi et fuga saeculi". Il maestro di scuola qui fustigato
per la sua "burbanza magistrale" - nell'originale appellato anche con
il più generico termine di magister -, è uno dei 123 personaggi umani
che La Fontaine inserì direttamente nelle sue favole, senza sostituirli
con le figure vicarie degli animali. (a.m.) Il Ragazzo e il Maestro di Scuola Racconto questa per mostrar d'un tale la stupida burbanza magistrale. Un Ragazzo, giocando al fiume in riva, cadde nell'acqua e forse vi periva, se non avesse un salice afferrato che, dopo Dio, lo tenne sollevato. Mentre nell'acqua ei sta fino alla gola, viene a passare un maestro di scuola. - Aiuto, aiuto! - grida quel che annega. Il maestro si ferma, e a lui che prega, con una voce burbera e nasale, gli somministra questa paternale: - Ah scimunito, ah sciocco, ah babbuasso! Guarda dove si caccia il satanasso. Andate pure a prender dell'affanno per questi tristi, oh sì, che vi faranno morir tisici! ah poveri parenti a cui tocca di questi malviventi! Ah i tempi tristi, oh i figli traditori... -. E quando ebbe finito, il tirò fuori. Quanti non sono al mondo altri pedanti e brontoloni e critici ignoranti, razza dotta più in chiacchiere che in scienze, che Dio conserva a nostra dannazione! In ogni cosa, a torto od a ragione, bisogna ch'essi sputino sentenze. Prima di pena tirami, se puoi, il bel discorso lo udiremo poi. Jean de La Fontaine, Le favole - Traduzione in versi del prof. Emilio De Marchi., Milano, Sonzogno, 1885 8 aprile ROBERT WALSER Robert Walser conosceva molto bene la scuola, e ne ha scritto reiteratamente. La conosceva, ma soprattutto sapeva guardarla, con sguardo limpidamente impietoso. In un altro dei "temi di Fritz Kocher" (del 1903) ha parlato de La professione: "Di fare il medico non ho voglia, per fare il parroco non ho attitudine, per fare il giurista non ho la pazienza, e quanto a fare l'insegnante... piuttosto la morte. I nostri professori, come minimo, sono tutti infelici, lo si vede. Vorrei fare il guardaboschi". (g.p.) Tema libero Questa
volta, ha detto il professore, potete scrivere quello che vi viene in
mente. Per esser sincero, non mi viene in mente nulla. Io non amo
questo tipo di libertà. Mi piace essere legato a un argomento
stabilito. Sono troppo pigro per escogitare qualcosa. E poi cosa
potrebbe essere? Io scrivo su tutto con lo stesso piacere. Ciò che mi
attrae non è cercare un determinato argomento, ma scegliere parole
raffinate, belle. Da un'idea posso formare dieci, anzi cento idee, ma
non mi viene in mente un'idea centrale. Che so, scrivo perché trovo
bello riempire così le righe di lettere aggraziate. Il "che cosa" mi è
del tutto indifferente. - Ecco, ho trovato. Cercherò di dipingere un
ritratto dell'aula scolastica. Non lo si è mai fatto. Il voto "ottimo"
non mi può sfuggire. - Quando alzo la testa e guardo al di sopra delle
molte teste degli scolari, senza volerlo devo mettermi a ridere. È così
pieno di mistero, così strano, così singolare. È come una dolce favola
sussurrata. L'idea che in tutte quelle teste ci sono pensieri alacri,
saltellanti, frettolosi, è abbastanza piena di mistero. Forse proprio
per questo motivo l'ora di composizione è la più bella e la più
allettante. In nessun'altra ora si è così silenziosi, così raccolti e
ognuno lavora così tranquillo per sé. È come se si sentisse il pensiero
sussurrare piano, muoversi piano. È come l'andirivieni di piccoli
topolini bianchi. Ogni tanto una mosca si alza in volo e poi si abbassa
piano su una testa, per darsi al buon tempo su un capello. Il
professore sta seduto alla sua cattedra come un eremita in mezzo alle
rocce. Le lavagne sono imperscrutabili laghi neri. Le scalfitture su di
esse sono la schiuma bianca delle onde. L'eremita è tutto assorto in
meditazioni. Nulla lo tange di ciò che accade nel vasto mondo, vale a
dire nell'aula scolastica. Ogni tanto si gratta fra i capelli con
voluttà. So quale voluttà è grattarsi fra i capelli. Il pensiero ne
viene infinitamente stimolato. Certo non è particolarmente bello a
vedersi, ma amen, non tutto può sembrare bello. Il professore è un uomo
piccolo, debole, mingherlino. Ho sentito dire che gli uomini così sono
i più intelligenti e i più dotti. Può essere vero. Quanto al professore
ho la ferma convinzione che è immensamente intelligente. Io non amerei
portare il carico delle sue conoscenze. Se ciò che ho scritto è
sconveniente, si consideri che è parte essenziale della descrizione
dell'aula. Il professore è molto irritabile. Spesso diventa furioso
quando uno scolaro gli infligge la sua ignoranza. Questo è un errore.
Perché agitarsi per una cosa così futile come la pigrizia di uno
scolaro? Ma in verità, ho un bel parlare. Se io fossi al suo posto,
forse mi comporterei in modo ancora più sconsiderato. Bisogna avere
delle doti particolari per fare il professore. Mantenere sempre la
propria dignità davanti a dei bricconi quali noi siamo, richiede una
grande padronanza di sé. In complesso il nostro professore si domina
bene. Ha un modo di raccontare raffinato, intelligente, cosa che non si
può mai abbastanza apprezzare. È vestito con grande accuratezza, ed è
vero, spesso noi ridiamo alle sue spalle. Le spalle hanno sempre
qualcosa di ridicolo. Non ci si può far nulla. Porta degli stivaloni
come se venisse dalla battaglia di Austerlitz. Questi stivali, che sono
così grandiosi e ai quali mancano soltanto gli speroni, ci danno molto
da pensare. Gli stivali sono quasi più grandi di lui. Quando è in
collera li batte sul pavimento. Non sono particolarmente contento del
mio ritratto. Robert Walser, I temi di Fritz Kocher, tr. di Vittoria Rovelli Ruberl, Adelphi, Milano, 1978, pp. 35-37 24 settembre GIACOMA LIMENTANI Si parla spesso di "cattivi maestri", ma non sempre a proposito. Sì, perché il ricorso a questa categoria avviene quasi soltanto per indicare chi si sia fatto promotore di percorsi culturali e politici di varia eclatante malvagità. Non intendiamo certo qui dire che essi non esistano: esistono, e sono in gran numero. Ma coloro di cui parla Giacoma Limentani nella sua limpida narrazione di domande vanno ben oltre costoro, e sono legioni. Non sempre appariscenti, anzi spesso camuffati sotto spoglie dimesse, procedono imperturbabili, imbottiti di guanciali e in sonno e in veglia, mai turbati da insonnia. Ricchi delle meraviglie della notte, gli insonni di tutto il mondo non hanno da perdere che le loro catene. (g.p.) Il
cattivo maestro impone verità universali, eterne e inoppugnabili come
il fatto che di giorno è giorno e di notte è notte. Cosa pensano però
di simili verità gli abitanti di quella parte del mondo opposta ai
luoghi in cui il maestro insegna, dove scende la notte quando in casa
sua fa giorno? Gli insonni poi, che fanno di notte giorno e viceversa,
non possono certo seguirlo ciecamente. Sarà l'insonnia, ispiratrice di dubbi, a renderli guardinghi? Giacoma Limentani, L'ombra allo specchio, La Tartaruga, Milano, 1988. |